di
Wolf Bukowski
Pubblichiamo
l’intervista fatta da Wolf Bukowski a Silvia Guerra, artista italiana espulsa
assieme a suo figlio dal Belgio perché la sua occupazione non le permetteva di
«mantenere il suo soggiorno in qualità di lavoratore salariato». Le convulsioni della
cittadinanza europea che già sono state sperimentate e dimostrate a
proposito dei migranti extracomunitari arrivano ora a coinvolgere una cittadina
comunitaria. Secondo una modalità storicamente ricorrente, l’espulsione è stata
motivata dal peso ingiustificato che Silvia avrebbe rappresentato per il
welfare locale. Con molta lucidità Silvia rileva però che lei non è un caso
sociale e, aggiungiamo noi, il suo non è nemmeno il caso giuridicamente interessante
di diritti fondamentali occasionalmente negati. La storia di Silvia è una
«questione politica», perché evidenzia il campo di tensione e di lotta che si è
aperto in Europa. Da tempo i diritti e il welfare non sono espressioni del
benessere europeo. Essi pretendono di collocare in maniera ordinata gli
individui all’interno dell’Unione. La lotta per la libertà di movimento e di
soggiorno di individui comunitari ed extracomunitari è perciò necessaria per
contrastare l’imposizione di questo ordine. Sempre che non si voglia ritornare
a un ordine locale e nazionale, accettando così la tendenza delle istituzioni
dell’UE, la dimensione di questa lotta può essere solo europea. Essa è una
lotta per la legittimità collettiva delle esistenze individuali. Risulta
d’altronde evidente che per molte istituzioni europee, più che il passaporto,
il problema sono i milioni di individui che non riescono a dimostrare di essere
dei lavoratori salariati, cioè di essere in grado di pagare preventivamente per
il loro welfare e per i loro diritti
Questo
colloquio con Silvia Guerra – la cittadina italiana espulsa, con suo figlio,
dal Belgio – inizia a fine dicembre, nel take-away indiano di
via Capo di Lucca a Bologna e continua via mail. Adesso Silvia è tornata a
Bruxelles, dove il ricorso che ha presentato ha sospeso temporaneamente
l’esecutività dell’ordine di lasciare il paese emesso dalla
«Segreteria di Stato per Asilo, Migrazione e Integrazione sociale» [sic!
comprese le maiuscole ed escluso il pudore per tale nome].
Wolf: Ho
letto la rassegna stampa che mi hai mandato, Silvia, ma in quegli articoli la
confusione è massima. Sei stata espulsa dal Belgio perché incapace di
provvedere al tuo sostentamento, così si dice, ma non è chiaro se lavori, se
sei disoccupata oppure lavori in nero. Qual è la tua situazione?
Silvia: Io sono musicista e attrice, e questo
è il lavoro che svolgevo prima dell’espulsione. Il 19 novembre sono stata
convocata dal mio comune, Saint-Gilles [Municipalità della città-regione di
Bruxelles], senza sapere il perché, e mi è stato consegnato un «ordre de
quitter le territoire». L’ordine – che naturalmente riguarda anche mio figlio
minorenne – allude al fatto che io peserei sul welfare belga, ma neppure si
preoccupa di esplicitarlo. Dice solo, te lo leggo: «ce type de travail ne lui permet pas de maintenir son séjour en
qualité de travailleur salarié» e aggiunge che il tipo di contratto che ho
attualmente «est une forme de aide
sociale». Si tratta di un contratto ex art. 60 della legge del CPAS del
1976, in base al quale sono assunta per 18 mesi a partire dal dicembre 2012. Lo
Stato belga lo considera un aiuto sociale perché, attraverso il CPAS (Centro
Pubblico di Azione Sociale, che firma il contratto) finanzia parte dello
stipendio allo scopo di agevolare il reinserimento lavorativo del soggetto. Ma
io, appunto, lavoro, e lavoro con un orario di 37 ore settimanali, ricevo una
busta paga e posso iscrivermi a un sindacato. Monte ore da rispettare,
sindacato, pagamento con un cedolino: che altro serve per essere considerato un
lavoratore?
W: Insomma
vediamo di capire: l’art. 60 è un contratto stipulato con una struttura
pubblica – il CPAS – che ti cede, come lavoratrice, a un privato convenzionato.
Ma visto che lavori 37 ore alla settimana, e quindi dai al tuo datore il 100%
della tua prestazione lavorativa, dove viene indirizzato l’aiuto sociale?
Quanto paga il tuo datore di lavoro del tuo stipendio? E quando ci mette il
welfare belga?
S: L’apporto che il datore di lavoro
deve fornire per un art. 60 varia da comune a comune e la percentuale dipende
dal tasso di disoccupazione del comune in cui vivi. A Saint-Gilles lo Stato
partecipa normalmente con il 20% perché il tasso di disoccupazione è basso
rispetto ad altri comuni. Nel mio caso, il datore di lavoro ha richiesto,
dimostrando di non avere i mezzi per pagare la somma pattuita, di partecipare
con il 40%, invece che con l’80, barattando alcune prestazioni artistiche – di
valore equivalente – in cambio di questa trasformazione della percentuale di
apporto. Dove il tasso di disoccupazione è molto alto lo stato finanzia fino
all’80% dello stipendio. Queste però sono informazioni che ho ricevuto in modo
ufficioso, non ci sono documenti a cui io possa accedere per confermarle e
trovo sia molto scorretto che non ci sia una documentazione pubblica precisa su
come il pagamento dello stipendio è ripartito tra lo stato e il datore di
lavoro «indiretto».
W: Insomma,
se osserviamo la cosa da un punto di vista oggettivo – e i flussi di denaro e
lavoro sono i soli punti di vista oggettivi – il beneficiario del welfare belga
è il tuo datore di lavoro… Per quanto riguarda invece il discorso dei poteri
pubblici su di te come lavoratrice, per come emerge dall’«ordine di lasciare il
territorio», mi pare che sia perfettamente in linea con la riscrittura più
recente del welfare europeo. Una riscrittura che rompe la distinzione tra
lavoro e non lavoro, ma comunque non nel senso avanzato della garanzia, semmai
in quello opposto. Ovvero: lavori a tempo pieno? Sì, ma non sei davvero un lavoratore,
e questo è il tuo caso. Sei disoccupato? Beh, devi lavorare a un euro all’ora
per non perdere i diritti sociali residui – e questo è il modello tedesco
(Hartz IV). Però i giornali italiani hanno preferito scrivere che sei
disoccupata. Ti sei fatta un’idea del perché?
S: Io credo, in primo luogo, che c’è
stato un fraintendimento semantico tra me e i giornalisti. Quando, conversando
in italiano, usi parole come «inserimento lavorativo», «politica sociale»,
«aiuto sociale»… stai per forza parlando di un disoccupato. Anche perché in
Italia la politica sociale praticamente non esiste e quindi tante categorie,
tanti contratti e tanti statuti, che altrove esistono da decenni, in Italia non
hanno nemmeno un nome… E questo è uno tra i motivi per cui la gente emigra.
W: Anche
se poi l’erosione del welfare e il suo uso contro i supposti beneficiari non
risparmia gli altri paesi… E anche se, mi pare importante ricordarlo perché
l’Europa siede a Bruxelles ma ha il telecomando a Berlino, in Germania percorsi
analoghi al tuo sono usati per escludere da un lavoro adeguatamente
contrattualizzato milioni di persone, non per includerle… Ma scusa, vai avanti.
S: Dicevo che c’è stato un
fraintendimento semantico, ma anche uno, come dire, «opinionistico»: immaginare
che quello che succede a me succeda a un disoccupato, a un caso sociale, a «chi
se lo merita» fa comodo. Si trova il colpevole, il colpevole è brutto, cattivo
e diverso da noi buoni giusti belli bianchi e onesti e il caso è chiuso senza
aver bisogno di riflettere troppo. Quando il cattivo è un extracomunitario è
facile dissociarsi dalla questione, ma quando un tuo connazionale è trattato
come potresti essere trattato tu o ti identifichi immaginandoti che un giorno
potrebbe essere il tuo turno oppure, ed è più facile, ti dissoci dicendoti che
tu sei meglio… Questo discorso lo si può fare tra connazionali, ma anche tra
comunitari la reazione è la stessa, la paura che la determina è la stessa.
W: La
paura, ma direi anche l’aggressività razzista e classista che fa dire ai
commentatori on line: «dovremmo fare così anche noi», «perfetto! In nome di
questa decisione fuori tutti i rom dall’Italia». Ma anche: «IMPOSSIBILE. Ci
faccia sapere ESATTAMENTE tutta la storia. Nessun cittadino dell’UE può essere
allontanato da uno Stato Membro perché senza occupazione», come scrive uno che
accusa il giornalista di mentire. Ancora: «Se l’Italia fosse come il Belgio
saremmo in paradiso terrestre!». E sui giornali belgi?
S: Quel che mi ha più colpito dei
commenti alla mia storia è la malafede della gente. Quello italiano che mi
piace citare per primo dice: «sicuramente la signora era o clochard o
lucciola»; però c’è anche l’indignazione nazionalistica: «salviamo questa povera
donna e suo figlio, in nome dell’onore della nostra razza o il Belgio ritorna
sui suoi passi o usciamo dalla UE». Ma c’è anche, come dici tu, il razzismo
puro: «e noi perché dobbiamo tenere i nostri extracomunitari quando dal Belgio
ci mandano via?». Questo mi fa paura… In Belgio invece i commenti hanno un
taglio di malafede piuttosto economico: «come ha fatto la signora a ottenere un
credito se non lavora?», oppure: «è quel che si merita, qui o si lavora o si va
via», e «la legge è la legge!», e quest’ultimo mi diverte molto, per così dire…
Ma io non sono un fatto di cronaca, né un incidente diplomatico, né un errore
amministrativo: la mia espulsione è un problema politico.
W: Cercando
materiale su questa tua vicenda ho trovato un articolo elogiativo del 2012 sul Fatto quotidiano, che diceva che in Belgio c’è il welfare
per gli artisti… Anche tu eri attratta da un modello che considera, o
considerava, gli artisti come lavoratori a pieno titolo?
S: Il sistema belga permette a una
categoria come quella degli artisti, che hanno un lavoro difficile da definire
in tempo, qualità e modalità, di ricevere uno statuto sociale. Non solo
previdenziale, voglio proprio dire sociale per dire all’interno della società.
Una situazione sicuramente seducente per una categoria come la mia. Ma poi il
welfare di cui si faceva un vanto un giorno è diventato autocommiserativo. Il
Belgio, mi pare quasi un abitudine questa, crea delle leggi e dei sistemi
esageratamente aperti, poi un giorno c’è qualcuno che si sveglia e dice: «oh,
mi sembra che abbiamo esagerato!» e stringe la cintura di sette buchi in una
volta. Sembra quasi una strategia…
W: Ricordo
di aver letto una «Cartolina dal Belgio» su Internazionale, credo fosse del
fumettista Nix, che raccontava come i residenti bruxellesi a basso reddito
siano arrabbiati perché i funzionari UE hanno stipendi da favola che drogano il
mercato degli affitti e tutti i prezzi in città. Tu come vivi a Bruxelles?
S: Io e Ennio, mio figlio, viviamo in un
appartamento di più o meno 60 metri quadri composto da stanza da letto, cucina,
un salotto e un bagno. Pago 620 € d’affitto, acqua compresa; le spese di luce e
gas sono più o meno 200 € al mese (in Belgio le case si scaldano da ottobre a
giugno). Il mio appartamento non è dei peggiori, si può trovare davvero peggio
per lo stesso prezzo. La mensa scolastica costa 70 € al mese: tra la spesa e il
minimo indispensabile, in una città costosa come Bruxelles, le spese si
avvicinano al mio reddito, che è, anzi era, di 1350 € al mese.
W: Un
reddito quasi buono, con gli standard italiani…
S: Non con quelli di Bruxelles, ma ci
stavo dentro, non mi sono mai lamentata di questo; semmai è lo Stato belga a
lamentarsene – nonostante reddito e tipo di contratto siano quelli stabiliti da
legge belga e accordi sindacali belgi, mica li ho inventati io…
W: A
proposito di queste cifre vorrei ricordare en passant una
considerazione che abbiamo fatto insieme, quella che tutta la questione del tuo
pesare sul welfare è distorta, perché il welfare, l’esistenza del welfare
ovviamente incide sul livello dei costi delle case, della vita… Insomma se
togli il welfare a una cittadina o a un cittadino non ottieni una somma
algebrica, il reddito personale «meno» il welfare, ma un precipitare nella
miseria: tutto diventa irraggiungibile perché i prezzi sono misurati
sull’esistenza del welfare… E allo stesso modo se togli il welfare a tutto il continente,
o ne perverti la funzione, non ottieni un’Europa «meno» il welfare, ma un
continente disperato… La narrazione bipartisan sul welfare lo vede come un peso
che sta sulla testa e opprime la ricchezza privata dei paesi e dei cittadini,
mentre in realtà è il gradino di base su cui poggia la ricchezza di tutti… Ma
raccontami della casa, se vuoi.
S: Da
giugno scorso avevo iniziato le pratiche per comprare la casa dove viviamo in
affitto. In Belgio esiste una struttura alternativa alle banche (Fonds du
logement), che permette a chi ha un reddito basso di ottenere un mutuo: una
qualsiasi banca non lo concederebbe mai con uno stipendio e un tipo di
contratto come il mio. Dopo mesi mi è stato accordato il credito e il 3
dicembre avrei dovuto firmare l’atto di compravendita, ma il 20 novembre ho
ricevuto l’espulsione. Il mio mutuo è stato bloccato, la vendita sospesa in
attesa dell’esito del ricorso. I proprietari dell’appartamento hanno accettato
di sospendere la vendita per due mesi ma se il ricorso non sarà visionato
annulleranno la vendita con me ma manterranno la vendita dell’appartamento.
Questo significa che anche nell’ipotesi che io vinca il ricorso potrebbe essere
troppo tardi per la compravendita; oppure, peggio, che il proprietario venda l’appartamento
ad altri e quindi non potremmo nemmeno rimanere come affittuari… Ma riflettendo
sulla mia situazione capisco che l’assurdità è questa: cercando di integrarmi
nel paese in cui ho scelto di vivere, attraverso il sistema che mi è stato
proposto, cercando di essere il meno precaria possibile, vengo trattata da
marginale e mi trovo in una situazione di precarietà peggiore di quella di
partenza, con la beffa di perdere i soldi dovuti al notaio, quelli
dell’assicurazione sulla vita che hanno preteso, il tecnico dei Fonds…
Più di duemila euro. La legge che doveva proteggere il cittadino economicamente
debole diventa una legge che lo indebolisce ulteriormente, che è forse quello
che dicevi, l’uso perverso del welfare…
W: Ennio
ha iniziato il suo percorso scolastico a Bruxelles ma, secondo il decreto di
espulsione, non ha alcun bisogno specifico di protezione e, peggio, «la durée
limitée de son sejour ne permet pas de parler d’intégration». Tre anni su
sette, quasi la metà della sua vita dalla nascita a oggi, e la metà in cui
conta di più la socialità e il rapporto con gli altri bambini e bambine e
maestri… per la burocrazia belga sono un niente. Naturalmente la disumanità è
la cosa più vistosa, ma qui c’è una frattura violentissima con il diritto alla
circolazione dei cittadini comunitari. Nonostante la drammatica indifferenza
della politica ufficiale europea nei confronti delle nostre povere vite, ho
detto indifferenza ma in verità penso: ostilità…
S: Io
direi drammatica ostilità…
W: Sì,
ecco, nonostante questa, uno strappo così evidente tra i diritti dei cittadini
comunitari reclama una reazione, almeno di bandiera, da parte delle forze
politiche sedicenti europeiste. Cos’è successo nei palazzi di Bruxelles in
seguito alla tua storia?
S: Dopo che i media ne hanno parlato
qualcosa si è mosso, ma non so se in una direzione produttiva. All’inizio,
prima di rendere pubblica la vicenda, ho cercato di sollecitare alcuni
amministratori pubblici che mi hanno rassicurato sulla loro impossibilità di
intervento e sulla loro immensa solidarietà: l’assessore alla cultura mi ha
detto che adora gli artisti. Ho preso contatti con un sindacalista italiano
chiedendogli delle delucidazioni sul mio tipo di contratto. Mi ha risposto che
noi cittadini ci rivolgiamo ai sindacati solo quando abbiamo bisogno e, non
rispondendo alla mia domanda sul mio contratto, mi ha chiesto perché non sono
rimasta a lottare in Italia per i miei diritti invece che venire qui in Belgio
che ci sono già tanti disperati… Questa storia del politico con le mani legate
e del martire sindacalista sembra un fumetto. A me fanno un po’ compassione, a
sentirli sarebbero da compatire ben più dei casi sociali. Un mese fa avevo
chiamato il consolato e l’ambasciata e mi hanno detto entrambi che la cosa non
li riguardava. Ora, in seguito agli articoli sui giornali, l’ambasciatore mi ha
fatto convocare. Più che darmi risposte però mi ha fatto domande: sul mio
contratto e sulla mia espulsione. Anche lui, come tutti gli italiani, appena ha
sentito la parola «sociale» ha un po’ come abbassato le braccia… Gli ho chiesto
se credeva opportuno sollecitare la questione con un’interrogazione
parlamentare, al Belgio e in commissione, ma lui mi ha detto che per una cosa
del genere gli italiani espulsi dovrebbero essere tanti; io allora gli ho detto
che è una questione politica e lui mi ha detto che si in effetti ma che allora
sarebbe una cosa di fondo, ben lunga da districare… Beh sì: in effetti è una
cosa di fondo, ben lunga da districare… Ora incontrerò una deputata socialista
belga e una italiana, vedremo…
W: Questa
cosa di fondo, difficile da districare, è la nostra esistenza… Il ritorno a un
capitalismo che dispiega il suo potere senza mediazioni rimette sullo sfondo le
cose difficili, di fondo, contrabbandandole per immodificabili. C’è la crisi, i
poveri sono poveri e i ricchi sono ricchi: perché mettere le mani in questa
cosa di fondo, difficile da districare? Questo è il processo in atto – finché
non ci decidiamo a fermarlo…
S: Per
ora l’immagine più precisa che ho della situazione è che mi sembra che un
prosciutto o una scamorza in Europa circolino più facilmente che un essere
umano. Che l’Europa, quando parla di circolazione, è sensibile a questioni che
riguardano la produzione e il consumo, non parla di opportunità o diritti
umani. Gli Stati europei e l’Europa sono gli uni l’alibi dell’altra,
reciprocamente, sul piano giuridico, burocratico, e sociale.
W: Lasciami
dire che ancora una volta le contraddizioni più profonde emergono a livello
continentale, e dunque è a quel piano che dobbiamo guardare declinando anche
localmente il conflitto, senza indulgenza verso il nazional-forconismo e le
sirene del «buon capitalismo italiano con la sua brava liretta»… E la forza con
cui affronti questo tuo problema personale e politico è una sveglia sonora per
tutti.
S: La
mia presenza in Belgio, a livello professionale, cominciava giusto ora a dare i
suoi frutti. Il pubblico belga è sensibile ai miei spettacoli,
dove il tema è la storia degli italiani con tutti gli stereotipi che seguono;
l’immigrazione, lo spaesamento e la ricerca di identità. Faccio fatica a
tollerare l’idea di dover interrompere questo percorso per una questione di
ingiustizia politica: il personale e il pubblico si mischiano, le mie
convinzioni personali e politiche anche. E quindi non lascio perdere.
W: Grazie
per non lasciare perdere, Silvia.