di Pierre Dardot/Christian Laval
“La nuova ragione del mondo.
Critica della razionalità neoliberista”, titolo italiano del volume dei
due autori transalpini (del quale proponiamo la lettura di due brevi stralci
delle 512 pagine del libro), pubblicato di recente da DeriveApprodi e che sarà presentato dagli
stessi (animatori dal 2004 del gruppo di ricerca «Question Marx») il prossimo 20 febbraio nella Sala Zuccari del Senato, offre una ricostruzioni
analitica del dominio neoliberista, la cui tragica razionalità ha permeato l’azione
della governamentalità economica e
politica su scala globale
Dall’introduzione all’edizione italiana
Com’è possibile che nonostante le ripercussioni
catastrofiche cui hanno portato le politiche neoliberiste, queste ultime siano
sempre più attive, al punto da precipitare interi Stati e società in crisi
politiche e regressioni sociali sempre peggiori? Com’è possibile che, negli
ultimi trent’anni, queste stesse politiche si siano sviluppate e approfondite
senza aver incontrato resistenze sufficienti a metterle in crisi?
La risposta non può ridursi ai semplici aspetti «negativi» delle politiche neoliberiste, ovvero alla distruzione programmata delle regolamentazioni e delle istituzioni.
Il neoliberismo non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività. Detto altrimenti, con il neoliberismo ciò che è in gioco è né più né meno la forma della nostra esistenza, cioè il modo in cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi. Il neoliberismo definisce una precisa forma di vita nelle società occidentali e in quelle società che hanno scelto di seguire le prime sul cammino della cosiddetta “modernità”. Questa norma impone a ognuno di vivere in un universo di competizione generalizzata, prescrive alle popolazioni di scatenare le une contro le altre una guerra economica, organizza i rapporti sociali secondo un modello di mercato, arriva a trasformare perfino l’individuo, ormai esortato a concepire se stesso come un’impresa.
Da pressoché un terzo di secolo, questa norma esistenziale presiede alle politiche pubbliche, governa le relazioni economiche mondiali, trasforma la società e rimodella la soggettività. Le circostanze di un simile successo normativo sono state descritte di frequente. A volte privilegiando l’aspetto politico (la conquista del potere da parte delle forze neoliberiste), a volte quello economico (l’ascesa del capitalismo finanziario globalizzato), altre l’aspetto sociale (l’individualizzazione dei rapporti sociali a scapito delle forme di solidarietà collettiva, l’estrema polarizzazione tra ricchi e poveri), altre ancora quello soggettivo (la comparsa di una nuova tipologia di soggetto, lo sviluppo di nuove patologie psichiche). Si tratta di dimensioni complementari alla nuova ragione del mondo. Con questo dobbiamo intendere che siamo di fronte a una ragione globale nel duplice senso del termine: una ragione che di colpo diventa valida su scala mondiale e una ragione che, lungi dal limitarsi alla sfera economica, tende a totalizzare, cioè a “fare mondo”, con un proprio specifico potere di integrazione di tutte le dimensioni dell’esistenza umana. La ragione del mondo è anche, contemporaneamente, una «ragione-mondo».
La risposta non può ridursi ai semplici aspetti «negativi» delle politiche neoliberiste, ovvero alla distruzione programmata delle regolamentazioni e delle istituzioni.
Il neoliberismo non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività. Detto altrimenti, con il neoliberismo ciò che è in gioco è né più né meno la forma della nostra esistenza, cioè il modo in cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi. Il neoliberismo definisce una precisa forma di vita nelle società occidentali e in quelle società che hanno scelto di seguire le prime sul cammino della cosiddetta “modernità”. Questa norma impone a ognuno di vivere in un universo di competizione generalizzata, prescrive alle popolazioni di scatenare le une contro le altre una guerra economica, organizza i rapporti sociali secondo un modello di mercato, arriva a trasformare perfino l’individuo, ormai esortato a concepire se stesso come un’impresa.
Da pressoché un terzo di secolo, questa norma esistenziale presiede alle politiche pubbliche, governa le relazioni economiche mondiali, trasforma la società e rimodella la soggettività. Le circostanze di un simile successo normativo sono state descritte di frequente. A volte privilegiando l’aspetto politico (la conquista del potere da parte delle forze neoliberiste), a volte quello economico (l’ascesa del capitalismo finanziario globalizzato), altre l’aspetto sociale (l’individualizzazione dei rapporti sociali a scapito delle forme di solidarietà collettiva, l’estrema polarizzazione tra ricchi e poveri), altre ancora quello soggettivo (la comparsa di una nuova tipologia di soggetto, lo sviluppo di nuove patologie psichiche). Si tratta di dimensioni complementari alla nuova ragione del mondo. Con questo dobbiamo intendere che siamo di fronte a una ragione globale nel duplice senso del termine: una ragione che di colpo diventa valida su scala mondiale e una ragione che, lungi dal limitarsi alla sfera economica, tende a totalizzare, cioè a “fare mondo”, con un proprio specifico potere di integrazione di tutte le dimensioni dell’esistenza umana. La ragione del mondo è anche, contemporaneamente, una «ragione-mondo».
Il soggetto plurale e la separazione delle sfere (dal cap. XIII del libro)
Da
dove cominciare? Per molto tempo, il soggetto occidentale che chiamiamo
«moderno» è stato sottoposto a regimi normativi e registri politici insieme
eterogenei e conflittuali gli uni rispetto agli altri: la sfera del costume e
della religione delle società del passato, la sfera della sovranità politica,
la sfera degli scambi commerciali. Il soggetto occidentale viveva dunque in tre
spazi diversi: quello delle occupazioni e delle credenze di una società ancora
rurale e cristianizzata, quello degli Stati nazionali e della comunità
politica, quello del mercato monetario del lavoro e della produzione. Tale
ripartizione è stata fluida sin dall’inizio, e la posta in gioco dei rapporti
di forza e delle strategie politiche consisteva proprio nel fissarne o
modificarne le frontiere. Le grandi lotte che riguardavano la natura stessa del
regime politico ne danno un’espressione curiosamente condensata. Più
importanti, ma più difficili da afferrare, sono le progressive modificazioni
dei rapporti umani, le trasformazioni delle pratiche quotidiane indotte dalla
nuova economia, gli effetti soggettivi delle nuove relazioni sociali nello
spazio commerciale e delle nuove relazioni politiche nello spazio della
sovranità.
Le
democrazie liberali sono state sistemi dalle tensioni molteplici e dalle spinte
divergenti. Senza entrare in considerazioni che oltrepassano i nostri scopi,
possiamo descriverle come regimi che permettevano e rispettavano entro certi
limiti un funzionamento eterogeneo del soggetto, ovvero assicuravano al
contempo la separazione e l’interconnessione delle diverse sfere della vita.
Tale eterogeneità si manifestava nella relativa indipendenza delle istituzioni,
delle regole, delle norme morali, religiose, politiche, economiche, estetiche e
intellettuali. Ciò non significa che le caratteristiche di equilibrio e
«tolleranza» esauriscano la natura del movimento che le ha animate. Due grandi
spinte parallele sono coesistite: la democrazia politica e il capitalismo.
Allora l’uomo moderno si è sdoppiato: il cittadino con i suoi diritti
inalienabili e l’uomo economico guidato dall’interesse, l’uomo come fine e
l’uomo come mezzo. La storia di questa «modernità» ha consacrato uno squilibrio
verso il secondo polo. Se si volesse privilegiare lo sviluppo, anche se
contrastato, della democrazia, come fanno certi autori*, si perderebbe
di vista l’asse principale che, ciascuno a suo modo, Marx, Weber e Polanyi
hanno messo in evidenza: lo spiegamento di una logica generale dei rapporti
umani sottomessi alla regola del profitto massimale.
Non
tralasceremo a questo punto tutte le modificazioni generate nel soggetto
proprio a partire dallo stesso rapporto mercificato. Marx, insieme ad altri ma
forse meglio di altri, ha evidenziato gli effetti dissolutivi del mercato sui
legami umani. Con l’urbanizzazione, la mercificazione dei rapporti sociali è
stata uno dei fattori più potenti dell’emancipazione dell’individuo dalle
tradizioni, le radici, l’attaccamento familiare e le personali fedeltà. La
grandezza di Marx è stata mostrare che tale libertà soggettiva veniva al prezzo
di una nuova forma di assoggettamento alle leggi impersonali e incontrollabili
della valorizzazione del capitale. L’individuo liberale poteva sì, come il
soggetto di Locke proprietario di se stesso, credere di godere di tutte le sue
facoltà naturali, dell’esercizio libero della ragione e della volontà, poteva
sì proclamare al mondo la sua irriducibile autonomia: restava pur sempre un
ingranaggio dei grandi meccanismi che l’economia classica aveva cominciato ad
analizzare.
Questa
mercificazione espansiva ha assunto nei rapporti umani la forma generale della contrattualizzazione.
I contratti volontari impegnano persone libere: contratti pur sempre garantiti
dagli organismi sovrani si sono così sostituiti alle forme istituzionali
dell’alleanza e della filiazione e, più in generale, alle vecchie forme della
reciprocità simbolica. Il contratto è divenuto più che mai il suggello di tutte
le relazioni umane. Di modo che l’individuo ha sempre più sperimentato nel suo
rapporto con gli altri la propria piena e intera libertà di impegno volontario,
percependo la società come un insieme di rapporti associativi tra persone
dotate di diritti sacrosanti. È questo il nocciolo di quello che chiamiamo
«individualismo» moderno.
Si
trattava, come spiega Durkheim, di una bizzarra illusione, dal momento che nel
contratto c’è sempre qualcosa di più che il semplice contratto: senza lo Stato
come garante, non esisterebbe alcuna libertà personale. Ma si può anche
aggiungere, con Foucault, che dietro il contratto c’è sempre qualcosa di
diverso dal contratto, o ancora che dietro la libertà soggettiva c’è sempre
qualcosa di diverso dalla libertà soggettiva. È una concatenazione di processi
di normalizzazione e di tecniche disciplinari che costituiscono quello che
potremmo chiamare dispositivo d’efficienza. I soggetti non si
sarebbero mai «convertiti» spontaneamente alla società industriale e
commerciale con la sola propaganda del libero scambio, né con le sole
attrattive dell’arricchimento personale. Si saranno dovuti ideare e applicare,
«tramite una strategia senza stratega», i modelli di educazione dello spirito,
di controllo del corpo, di organizzazione del lavoro, di abitazione, di riposo
e di svago che erano la forma istituzionale del nuovo ideale dell’uomo, al
contempo individuo calcolatore e lavoratore produttivo. È il dispositivo
d’efficienza ad aver fornito alle attività economiche le «risorse umane»
necessarie, ad aver prodotto senza sosta le anime e i corpi adatti a funzionare
nel grande circuito della produzione e del consumo. In una parola, la nuova
normatività delle società capitaliste si è imposta tramite una normalizzazione
soggettiva di un tipo preciso.
Foucault
ha fornito una prima cartografia, peraltro problematica, di questo processo. Il
principio generale del dispositivo d’efficienza non è tanto, come è stato detto
anche troppo, un «addestramento del corpo» quanto una «gestione delle menti». O
forse bisognerebbe dire che l’azione disciplinare sul corpo è stata solo un
momento e un aspetto del modellamento di una certa modalità di funzionamento
soggettivo. Il Panopticon di Bentham è in effetti particolarmente emblematico
di tale modellamento soggettivo. Il nuovo governo degli uomini penetra fino al
loro pensiero, lo accompagna, lo orienta, lo stimola, lo educa. Il potere non è
più soltanto volontà sovrana, ma, come dice giustamente Bentham, si fa «metodo
obliquo» o «legislazione indiretta», destinata a pilotare gli interessi.
Postulare la libertà di scelta, suscitarla, costituirla praticamente,
presuppone che gli individui siano guidati come da una «mano invisibile» a fare
le scelte che saranno proficue per ciascuno e per tutti. Sullo sfondo di questa
rappresentazione non si trova tanto un grande ingegnere, sul modello
dell’Orologiaio supremo, quanto una macchina idealmente autonoma che trova in
ogni soggetto un ingranaggio pronto a soddisfare i bisogni della catena
complessiva. Ma l’ingranaggio bisogna fabbricarlo e mantenerlo.
Il soggetto
produttivo fu il capolavoro della società industriale. Il problema non
era soltanto aumentare la produzione materiale, bisognava anche che il potere
si ridefinisse come essenzialmente produttivo, come uno stimolatore della
produzione i cui limiti sarebbero stati definiti solo dagli effetti della sua
azione sulla produzione. Questo potere essenzialmente produttivo aveva per
controparte il soggetto produttivo: non solo il lavoratore, ma il soggetto che
in tutti i campi della sua esistenza produce benessere, piacere, felicità. Molo
presto l’economia politica ha trovato corrispondenza in una psicologia
scientifica che descriveva un’economia psichica a essa omogenea. Già dal XVIII
secolo meccanica economica e psico-fisiologia delle sensazioni si promettono
amore eterno. È questo senza dubbio l’incrocio definitivo che disegnerà la
nuova economia dell’uomo governato dai piaceri e dai dolori. Governato e
governabile dalle sensazioni: l’individuo considerato nella sua libertà è un
irriducibile briccone, un «delinquente potenziale», un essere mosso prima di
tutto dal proprio interesse. La nuova politica si inaugura con il monumento
panottico innalzato alla gloria della sorveglianza di ciascuno da parte di
tutti e di tutti da parte di ciascuno.
Ma
perché, domanderà forse qualcuno, sorvegliare i soggetti e massimizzare il
potere? La risposta veniva da sé: per la produzione della massima felicità.
Intensificazione degli sforzi e dei risultati, minimizzazione delle spese
inutili, è questa la legge dell’efficienza. Fabbricare uomini utili, docili nel
lavoro, inclini al consumo, fabbricare l’uomo efficiente, ecco cosa si
delinea, eccome, già dall’opera di Bentham. Ma l’utilitarismo classico, a
dispetto del suo formidabile lavoro di demolizione delle vecchie categorie, non
è venuto a capo della pluralità interna al soggetto** come
della separazione delle sfere cui corrispondeva tale pluralità. Il principio di
utilità, la cui vocazione omogeneizzante era esplicita, non è riuscito ad
assorbire tutti i discorsi e tutte le istituzioni, proprio come l’equivalente
generale della moneta non è riuscito a introdursi in tutte le attività sociali.
È proprio il carattere plurale del soggetto e la separazione delle sfere
pratiche a essere oggi in questione.
Per
completezza riportiamo le note del testo:
*[2] Cfr. supra la
discussione del punto di vista di Marcel Gauchet nel capitolo 5
**[3]
Come si è visto più sopra (infra, capitolo 3, in particolare la
nota 92), il pensiero di John Locke non trascura la differenziazione del soggetto
in soggetto d’interesse, soggetto giuridico, soggetto religioso, ecc. A suo
modo, l’influenza persistente di quest’idea, a dispetto dell’egemonia
dell’utilitarismo, testimonia di una certa forma di resistenza alla sussunzione
del soggetto sotto il regime esclusivo dell’interesse.