di Alain Badiou
pubblichiamo parte
dell’intervento di Alain Badiou alla conferenza “Le symptôma grec”, tenutasi presso
l’Università di Parigi 8 e all’École Normale Supérieure (gennaio 2013). Gli
interventi della conferenza sono stati raccolti in un dossier speciale dalla
rivista Radical Philosophy intitolato “Il
sintomo greco: debito, crisi e la crisi della sinistra”
Voglio
iniziare con una sensazione, un sentimento, forse personale, forse
ingiustificato, ma che ad ogni modo sento, viste le informazioni di cui
dispongo: una sensazione di generica impotenza politica. Ciò che sta accadendo
in Grecia è una sorta di concentrato di questa sensazione.
Ovviamente
il coraggio e la creatività tattica dei dimostranti progressisti e
anti-fascisti sono motivo di entusiasmo. Queste sono cose veramente importanti.
Sono cose nuove? Niente affatto. Esse sono gli elementi invariabili di ogni
vero movimento di massa: egualitarismo, democrazia di massa, invenzione di
slogan, coraggio, velocità di reazione… Sono cose che abbiamo visto, con la
stessa energia – un’energia gioiosa e sempre un po’ ansiosa – nel Maggio del
1968 in Francia. Le abbiamo viste più recentemente a Piazza Tahrir, in Egitto.
Sicuramente esse dovevano essere all’opera anche ai tempi di Spartaco o di
Thomas Münzer.
Ma
proviamo a muoverci, provvisoriamente, da un altro punto di partenza.
La
Grecia è un paese con una storia molto lunga e dal significato universale. Un
paese la cui resistenza a varie oppressioni e occupazioni che si sono
susseguite è dotata di particolare intensità storica. Un paese in cui il
movimento comunista, anche nella forma della lotta armata, è stato
particolarmente potente. Un paese in cui, ancora oggi, i giovani danno
l’esempio sostenendo rivolte di massa e tenaci.
Un
paese in cui, senza dubbio, le forze reazionarie classiche sono ben
organizzate, ma in cui vi è anche la risorsa coraggiosa e copiosa di grandi
movimenti popolari. Un paese in cui ci sono senza dubbio organizzazioni
fasciste forti, ma anche un partito di sinistra con una base elettorale e
militante apparentemente solida.
Ora,
ogni cosa in questo paese accade come se nulla riuscisse a fermare il totale
dominio capitalista, sprigionato dalla crisi in cui il paese stesso versa. È
come se, sotto la direzione di comitati ad hoc e governi servili, il paese non
avesse alternativa a seguire i decreti selvaggiamente anti-popolari della
burocrazia europea. In realtà, rispetto alle questioni che si pongono e alle
loro “soluzioni” europee, il movimento di resistenza sembra essere più una
tattica di posticipazione che una fonte di reale alternativa politica.
Questa
è la grande lezione del nostro tempo; una lezione che ci invita non solo a
sostenere il popolo greco con tutta la nostra forza, ma anche ad accompagnarlo
in una riflessione su cosa vada pensato e fatto affinché questo coraggio non
sia un coraggio disperatamente inutile.
Ciò
che colpisce – in Grecia soprattutto, ma anche altrove, in particolare in
Francia – è l’evidente incapacità delle forze progressiste di costringere i
poteri economici e di stato – quei poteri che stanno apertamente cercando di
sottomettere la gente alla nuova (sebbene di lunga data e fondamentale) legge
del liberismo assoluto – alla benché minima ritirata.
Non
solo le forze progressiste non stanno facendo alcun progresso e non riescono a
ottenere anche solo un successo limitato. Ma le forze fasciste sono addirittura
cresciute e, sullo sfondo illusorio di un nazionalismo xenofobo e razzista, ora
rivendicano la leadership dell’opposizione ai decreti delle amministrazioni
europee.
La
mia sensazione è che alla fine la radice di questa impotenza non sia l’inerzia
della gente, la mancanza di coraggio o il sostegno della maggioranza per dei
“mali necessari”. Molte testimonianze ci hanno mostrato che le risorse per una
resistenza popolare, vigorosa e di massa esistono. Tuttavia questi tentativi
non hanno prodotto alcun nuovo modo di pensare la politica. Nessun nuovo
vocabolario è emerso dalla retorica di protesta e i rappresentanti sindacali
sono alla fine riusciti a convincere tutti che occorre aspettare… le elezioni.
Penso
che quello che sta accadendo oggi sia che le categorie politiche che gli
attivisti stanno cercando di utilizzare per pensare e trasformare la situazione
in cui ci troviamo siano ampiamente inoperative.
Dopo
i movimenti di massa degli anni Sessanta e Settanta, abbiamo ereditato un
periodo contro-rivoluzionario molto lungo: dal punto di vista economico,
politico e ideologico. Questa contro-rivoluzione ha efficacemente distrutto la
fiducia e il potere che una volta erano in grado di saldare la coscienza
popolare alle parole di emancipazione politica più elementare –parole come, per
citarne alcune, “lotta di classe”, “sciopero generale”, “rivoluzione”,
“democrazia di massa” e tante altre. La parola chiave “comunismo”, che aveva
dominato il panorama politico sin dall’inizio del XIX secolo, è stata relegata
a una sorta di infamia storica. Il fatto che l’equazione “comunismo =
totalitarismo” sembri naturale e sia accettata in maniera unanime indica quanto
pesantemente, nei disastrosi anni Ottanta, i rivoluzionari abbiano fallito.
Ovviamente non possiamo nemmeno evitare una critica severa e incisiva di ciò
che gli stati socialisti e i partiti comunisti al potere, specialmente in
Unione Sovietica, erano diventati. Ma questa critica dovrebbe essere la nostra
critica. Dovrebbe nutrire le nostre teorie e pratiche, aiutandole a progredire,
tuttavia senza guidarci in una tetra forma di rinuncia e senza gettare via il
bambino con l’acqua sporca. Poiché questo ci ha condotti a uno stupefacente
stato di cose: nel guardare a un episodio storico di importanza capitale per
noi, abbiamo adottato, praticamente senza alcuna restrizione, il punto di vista
del nemico. E coloro che non l’hanno fatto hanno perseverato nella vecchia
lugubre retorica, come se nulla fosse accaduto.
Fra
tutte le vittorie del nostro nemico, questa vittoria simbolica è una delle più
importanti.
Ai
vecchi tempi del comunismo ci prendevamo gioco di quello che chiamavamo langue
de bois, il linguaggio trito e stereotipato fatto di parole vuote e
aggettivi pomposi.
Certo,
certo. Ma l’esistenza di un linguaggio comune è anche l’esistenza di un’idea
condivisa. L’efficacia della matematica nelle scienze – e non si può negare che
la matematica sia una magnifica langue de bois – ha a che vedere con il
fatto che essa formalizza l’idea scientifica. La capacità di formalizzare
velocemente l’analisi di una situazione e le conseguenze tattiche di
quell’analisi. Questo è richiesto anche in politica. È un segno di vitalità
strategica.
Oggi,
una delle grandi capacità dell’ideologia democratica ufficiale consiste nel
fatto che essa ha a sua disposizione una langue de bois parlata su tutti
i media e da ciascuno dei nostri governi, senza eccezioni. Chi crederebbe che
termini come “democrazia”, “libertà”, “diritti umani”, “bilancio in ordine”,
“riforme” e così via non sono altro che gli elementi di un’onnipresente langue
de bois? Siamo noi, militanti senza una strategia di emancipazione, a
essere (ormai da un po’) i veri afasici! E non sarà il linguaggio simpatico e
inevitabile della democrazia movimentista che ci salverà. “Basta questo o
quello”, “tutti insieme vinceremo”, “fuori” “resistenza!”, “ribellarsi è un
diritto”… Queste formule sono in grado di coalizzare i sentimenti collettivi e
sono, dal punto di vista tattico, estremamente utili; ma lasciano completamente
irrisolta la questione di una chiara strategia. Questo linguaggio è troppo
povero per una discussione sul futuro delle azioni di emancipazione.
La
chiave del successo politico risiede nella forza della ribellione, nel suo scopo
e nel suo coraggio. Ma anche nella sua disciplina, e nelle dichiarazioni di cui
essa è capace – visto che le dichiarazioni hanno a che fare con un futuro
strategico positivo che riveli una nuova possibilità rimasta fino ad allora
oscurata dalla propaganda del nemico. È per questo motivo che l’esistenza di
movimenti popolari di massa non fornisce di per sé alcuna visione politica. Ciò
che tiene insieme un movimento sulla base di sentimenti individuali è sempre un
elemento negativo: quella cosa che procede a partire da negazioni astratte
–come “basta capitalismo”, o “basta licenziamenti”, o “no all’austerità”, o
“abbasso la troika europea” – che hanno solo l’effetto di saldare il movimento
con la fragilità dei suoi sentimenti. Anche in forme di negazione più
specifica, il cui obiettivo è preciso e che coalizzano diversi strati popolari,
come “basta Mubarak” durante la primavera araba, esse possono produrre un
risultato ma non possono mai costruire la politica di quel risultato.
Ogni
politica diventa l’irreggimentazione di ciò che afferma e propone, non di ciò
che nega e rifiuta. Una politica è una convinzione attiva e organizzata, un
pensiero in azione che indica possibilità nascoste. Motti come “resistenza!”
sono certamente auspicabili al fine di mettere insieme le persone, ma rischiano
anche di trasformare questa assemblea in nulla più che un misto gioioso ed
entusiasta di esistenza storica e fragilità politica, per poi diventare, una
volta che il nemico (che è politicamente, discorsivamente e governamentalmente
meglio attrezzato) ha la meglio, un amaro doppione e una ripetizione di un
fallimento.
Non
è nel contagio di un sentimento negativo di resistenza che troveremo ciò che
serve per produrre una seria ritirata delle forze reazionarie che cercano oggi
di disintegrare qualsiasi forma di pensiero e azione che rifiuti di
assecondarle; ma nella disciplina condivisa di un’idea comune e nell’utilizzo
diffuso di un linguaggio omogeneo.
La
ricostruzione di questo linguaggio è un imperativo fondamentale. È con questo
fine che ho cercato di reintrodurre, ridefinire e riorganizzare tutto ciò che
dipende dalla parola “comunismo”. La parola “comunismo” denota tre cose
fondamentali. In primo luogo, essa denota l’osservazione analitica secondo cui,
nelle società dominanti contemporanee, la libertà, la cui feticizzazione
democratica è nota a tutti noi, è, di fatto, interamente dominata dalla
proprietà. La “libertà” non è altro che la libertà di acquistare ogni bene
possibile senza alcun limite prestabilito, e il potere di fare “ciò che si
vuole” si misura direttamente dalle dimensioni di questo acquisto. Chi ha perso
ogni possibilità di acquistare qualcosa non ha, di fatto, alcuna libertà, come
i “vagabondi” che gli inglesi liberali del capitalismo emergente condannarono a
morte e impiccarono, senza scrupoli. Per questa ragione Marx, nel Manifesto,
dichiara che tutte le ingiunzioni del comunismo possono, in un certo senso,
essere ridotte a una: l’abolizione della proprietà privata.
Inoltre,
“comunismo” significa l’ipotesi storica secondo cui non è necessario che la
libertà sia governata dalla proprietà, e che le società umane siano dirette da
una ristretta oligarchia di potenti uomini d’affari e dai loro servi politici,
la polizia, l’esercito e i media. È possibile una società in cui ciò che Marx
chiama “libera associazione” predomini; in cui il lavoro produttivo sia
collettivizzato; in cui abbia inizio la dissoluzione delle grandi
contraddizioni non-egualitarie (tra lavoro intellettuale e manuale, tra città e
campagna, tra uomini e donne, tra amministrazione e lavoro, etc…); e in cui le
decisioni che concernono tutti siano davvero un affare di tutti. Dovremmo
trattare questa possibilità egualitaria come un principio di pensiero e di
azione, e non abbandonarlo.
Per
finire, “comunismo” designa il bisogno di un’organizzazione politica
internazionale. Esso cerca di mettere in moto le capacità delle persone e di
costruire, in contrasto con lo stato di cose esistente, un potere interno a
ogni situazione data. Per questo potere l’obiettivo è di essere in grado di
piegare il reale nella direzione prescritta tenendo insieme i principi e la
soggettività attiva di tutti coloro che intendono trasformare la situazione in
questione.
La parola comunismo, dunque, definisce l’intero processo attraverso cui la libertà è liberata dalla sua sottomissione non-ugualitaria alla proprietà. Il fatto che questa parola sia stata quella che i nostri nemici hanno più loscamente rifiutato ha a che vedere con il fatto che non sono in grado di resistere a questo processo, il quale distruggerebbe la loro libertà, la cui norma è stabilita dalla proprietà. Se questo è ciò che i nostri nemici detestano maggiormente, allora è dalla sua riscoperta che dobbiamo incominciare.
La parola comunismo, dunque, definisce l’intero processo attraverso cui la libertà è liberata dalla sua sottomissione non-ugualitaria alla proprietà. Il fatto che questa parola sia stata quella che i nostri nemici hanno più loscamente rifiutato ha a che vedere con il fatto che non sono in grado di resistere a questo processo, il quale distruggerebbe la loro libertà, la cui norma è stabilita dalla proprietà. Se questo è ciò che i nostri nemici detestano maggiormente, allora è dalla sua riscoperta che dobbiamo incominciare.
Questi
esercizi verbali ci hanno portato lontano dalla Grecia e dall’urgenza concreta
della sua situazione? Forse. Tuttavia, una politica [une politique] è
sempre l’incontro tra la disciplina delle idee e la sorpresa delle circostanze.
Essa è un potere immediato, ma anche l’istituzione di una durata. La mia
speranza è che la Grecia sia, per tutti noi, il sito universale di questo
incontro.
(traduzione di Nicola
Perugini)