di Gianni Giovannelli
Il diritto del lavoro negli ultimi trent’anni ha vissuto una parabola, che oggi sembra arrivata a compimento. Dal licenziamento indiscriminato degli anni ’50, si è passati negli anni ’70 ad una sua regolamentazione a tutela del lavoratore. Oggi, dopo il Collegato Lavoro e la legge Fornero, stiamo ritornato al totale arbitrio dell’impresa, nel nome di un’idea di flessibilità che si crede adeguata alle trasformazioni del processo di valorizzazione e della prestazione lavorativa, ma che, nella quotidianità, è tracimata in subalternità legislativa e culturale. Un excursus attraverso i principali passaggi della filosofia del giuslavorismo contemporaneo che hanno contribuito alla progressista costruzione della condizione precaria
Riteniamo utile procedere ad un esame critico della filosofia (intesa ovviamente come filosofia del diritto, nella definizione hegeliana) che accompagna i continui mutamenti delle norme poste a regolamentare (anzi: disciplinare) il contratto di lavoro; solo così potremo cogliere l’essenza di un complessivo meccanismo tecnico giuridico concepito e attuato in funzione di una pianificata accelerazione del processo di precarizzazione in atto.
L’attuale
struttura di comando deve adeguare alle esigenze di un’economia
strutturalmente finanziarizzata il sinallagma [1] che consente agli organizzatori della produzione di creare
profitto, di intercettare la ricchezza; i beni immateriali per loro natura non
tollerano limiti territoriali (non temono i confini di stato) e il sistema di
cooperazione sociale prescinde ormai dall’orario rigido tradizionale (sia esso
a giornata o a turno continuo avvicendato), invadendo il tempo intero delle
singole esistenze, di ogni soggetto che si materializza, al tempo stesso, come
atomo di collettività e come individuo parcellizzato (solo).
Il
sinallagma è un nesso di reciprocità, una condizionalità necessariamente
reciproca; la prestazione richiede il corrispettivo nell’ambito del negozio
giuridico. Il nostro attuale codice civile individua subito (articolo 2094) i
termini della questione; il (libero cittadino) subordinato (operaio
o impiegato non importa) si obbliga mediante retribuzione a
prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione
dell’imprenditore. La misura (l’oggetto) di questo contratto è quella
di un tempo comunque limitato. L’articolo 2107 del codice
civile non lascia dubbi: la durata giornaliera e settimanale non
può superare i limiti stabiliti. Il legislatore presuppone dunque una
precisa demarcazione fra il tempo di lavoro e il tempo di non lavoro;
l’ora lavorata è certamente una parte della vita che appartiene all’operaio (o
impiegato) ma non in quanto tale, bensì in forma di lavoro messo a
valore nell’impresa. Il nesso tradizionale di reciprocità (il
sinallagma appunto) si fonda ed appoggia sulla individuazione esatta,
matematica, del tempo di lavoro retribuito: lo scontro contrattuale si adegua.
L’imprenditore cerca di avere più tempo con meno denaro; il lavoratore punta ad
aumentare il salario riducendo l’orario. Noi sappiamo tuttavia che grazie
alla crescita delle industrie informatiche le imprese e i lavoratori possono
rimanere in collegamento indipendentemente dal luogo fisico in cui si trovano (annotava
già nel 1994 Saskia Sassen, Le città nell’economia globale,
Il Mulino, Bologna, p. 13). La vendita delle merci, a sua volta, ha
subito una profonda trasformazione; la struttura che acquisisce gli ordini non
è più al servizio della fabbrica, ma la comanda, la determina, la dirige. Sono
venuti meno dunque sia il luogo che il tempo come
caratteristiche dominanti della prestazione e del contratto. E,
necessariamente, si avvia a mutare la codificazione giuridica del lavoro da
parte dell’apparato di comando.
Possiamo
cogliere subito la trasformazione già nel metodo utilizzato per corrispondere
la retribuzione. L’articolo 1277 del codice civile (ancora vigente) dispone che
il salario sia pagato con moneta avente corso legale. In
contanti, dunque. Ma la legge 214/2011 (senza abrogare espressamente la
disposizione) vieta l’uso del contante oltre i mille euro. Non è solo questione
di forma e di garanzia (anche: sappiamo bene che il saldo tramite circuito
bancario consente l’insolvenza ai danni delle moltitudini); il lavoratore viene tracciato ed
obbligato a mettere entrate e uscite sotto il pieno controllo della banca,
della finanza, dello stato. Mediante i pagamenti per bonifico e non più per
contanti i salariati divengono immediata preda delle manovre fiscali, senza
possibilità di fuga. Inoltre il sistema di consumo si traduce in costante
flusso di comunicazioni per l’apparato d’impresa; spendendo nel tempo libero
con la carta di credito ogni singolo soggetto collabora fornendo merce-notizia,
merce-informazione. Questa trasformazione del corrispettivo è una modifica
arbitraria, imposta unilateralmente in assenza del formarsi di una volontà
comune; è già un segno palese di quanto l’attuale filosofia giuslavoristica
stia preparandosi a divenire anche esplicitamente (non democratica ma) fondata
sul dispotismo (siamo ben oltre il tradizionale autoritarismo dei
governi paleocapitalisti).
La
scienza e filosofia del diritto del lavoro in Italia (parliamo naturalmente del
periodo successivo al fascismo) può essere divisa in tre periodi assai diversi
fra loro, e separati da una evidente discontinuità: dal 1948 al 1970; dal 1970
al 1989 ; dal 1989 ad oggi.
Nel
primo dopoguerra assunzioni e licenziamenti avvengono sulla base di poche
regole, così come allo stretto necessario si riduce l’intervento del
legislatore. Il Codice del lavoro edito nel 2013 dal Gruppo 24 ore
ha 2292 pagine; solo 368 (compreso il codice civile e partendo dal 1923)
precedono il 1970, il resto è successivo (dopo il 1990 sono oltre 1600 pagine,
una marea). Fino al 1966 la legge (articoli 2118 e 2119) consente il
licenziamento immotivato, perfino quello politico e discriminatorio, con il
solo obbligo di preavviso (e con la perdita della liquidazione in caso di
giusta causa). L’unico argine difensivo stava nel contratto collettivo o negli
accordi interconfederali. Le grandi fabbriche (soprattutto quelle
metalmeccaniche) avevano un effetto trainante; quello che si otteneva in
ragione di un rapporto di forza veniva successivamente recepito
(ed esteso a tutti) secondo la dialettica parlamentare. La stessa legge del
1966 (la prima che limiti i licenziamenti, con la reintegrazione limitata ai
soli casi di discriminazione politica, religiosa o sindacale) recepisce
l’accordo interconfederale precedente. I lavoratori (quelli con un orario e un
luogo) si associano in gruppi organizzati di fabbrica; lo sciopero (cesura del
tempo, abbandono del luogo) è lo strumento di pressione (e si discute se sia o
meno consentito, o quando, o in quali forme). Fino al 1970 l’insieme degli accordi
sindacali contiene tutele maggiori rispetto alla legge, anche quanto a welfare
(i circoli sportivi, le colonie aziendali estive per i figli dei dipendenti, i
cral, l’assistenza medica, l’edilizia popolare, i fondi pensione). Il salario
(diretto e indiretto) nelle grandi strutture è ben diverso da quello che tocca
al resto dei lavoratori; entrare in ditta costituisce
un’aspirazione, rappresenta sicurezza per il futuro.
Le
lotte dell’autunno caldo e la nascita di un sindacalismo radicale di base (saldatosi
rapidamente con le avanguardie politiche) mutano il quadro. La fabbrica si era
diffusa nel territorio, la città si andava articolando essa stessa in una sorta
di complessivo apparato produttivo, con nuovi soggetti per protagonisti. La
necessità di riprendere il controllo impone allo stato di intervenire con
provvedimenti nuovi, radicali, capaci di ricostituire il rapporto fiduciario,
ben oltre la capacità di contrattazione dei lavoratori e superando le sacche di
resistenza imprenditoriali. La legge del 1970 introduce un vero divieto di
licenziamento, e, per la prima volta in Europa, il divieto è accompagnato
dall’obbligo di reintegrazione effettiva nel posto di lavoro (la cosiddetta tutela
reale). Ed insieme la legge provvede al varo di un
complesso sistema di ammortizzatori sociali (dalla cassa d’integrazione
prolungata fino a sei-sette anni al trattamento per la successiva
disoccupazione, legge 164/75), di un sistema di garanzie in caso di malattie e
infortuni (viene sottratto all’impresa il controllo sulla idoneità al lavoro),
di una più ampia tutela delle donne (legge di parità, 1977) e della libertà in
azienda (legge 300/70). L’insieme di tutele legislative diventa più ampio
(assai più ampio) di quello ottenuto per via contrattuale collettiva (sia nazionale
che aziendale); il sindacato fra il 1970 e il 1989 non ha avuto la forza di
chiedere ed imporre più di quello che proveniva dalle due camere (non di rado
accettando deroghe peggiorative, sotto pressione imprenditoriale). Il conflitto
sociale diffuso (reale o anche solo potenziale) si era posto come interlocutore
diretto delle istituzioni, senza mediazioni, assumendo l’abito più diverso, sia
nel metodo (a volte violento, altre volte costruttivo) sia nella forma
(collettivi di base, consigli di zona, partecipazione a partiti o sindacati,
comunità religiose, e così via). Era un movimentovero, articolato,
non definibile e neppure codificabile.
La
filosofia del diritto del lavoro, in questi vent’anni, è quella di rimuovere
ragioni di conflitto, privilegia la necessità di pace sociale in fasi
caratterizzate da impetuoso aumento dei livelli produttivi, di rapido
cambiamento sociale, politico, produttivo. Ed anche l’università diviene
davvero di massa.
Nel
1989 cade il muro di Berlino, vengono meno i blocchi contrapposti. E dilaga il
computer. Poi cadono le frontiere europee, si prepara l’arrivo dell’euro.
Certamente nel 1989 mancava fra i rappresentanti del sindacato e delle imprese
la consapevolezza piena di ciò che stava accadendo; ma la fusione di est e ovest
era per un verso la conseguenza della globalizzazione già
iniziata e per altro verso un acceleratore del processo di
finanziarizzazione. Abbiamo preso dunque questa data come l’inizio di una
nuova e diversa fase e, pertanto, di una nuova filosofia del diritto del
lavoro; la caduta del muro coincide con la cosiddetta informalizzazione dei
rapporti di lavoro, il progressivo venir meno della tutela codificata.
La
scelta è quella di intervenire, con prelievo intermittente nell’ambito di una
disponibilità richiesta invece come costante, nel bacino della manodopera,
esercitando il comando al di fuori di qualsiasi garanzia concessa ai
sottoposti; l’esistenza stessa viene messa a valore insieme al complessivo
sistema di relazioni sociali della comunità. La nuova concezione del rapporto
lavorativo viene chiamata impropriamente flessibilità in
quanto, apparentemente, l’impegno richiesto viene considerato discontinuo,
connesso a fluttuanti necessità delle imprese e dei mercati, privo di certezze.
La pretesa flessibilità vive insieme ad un formidabile incremento della
disoccupazione (e in particolare della disoccupazione giovanile), ad un potente
allargamento della fascia di povertà all’interno delle aree ricche, allo stato
di guerra permanente in un crescente numero di regioni, a flussi migratori che
sfuggono spesso alle previsioni dei sociologi. Le organizzazioni tradizionali
dei lavoratori stabili sono completamente estranee alle moltitudini di
manodopera precaria, eppure l’intero ciclo dell’economia si fonda principalmente
su questi ultimi; la crisi della rappresentanza costringe le vecchie strutture
(che non si rassegnano al tramonto) ad arretramenti e mediazioni per
sopravvivere. La contrattazione collettiva si caratterizza, conseguentemente,
come deroga peggiorativa rispetto alla legge, al sistema codificato dei diritti
acquisiti con lo scontro sociale. La rottura dell’unità sindacale è un segno di
questa crisi; la scelta della firma separata attuata da Cisl e Uil contro la
Cgil (in settori fondamentali come il metalmeccanico o il terziario) non è una
mera competizione fra sigle ma una scelta strategica di posizionamento del
ruolo delle confederazioni dentro la crisi e dentro le modifiche strutturali
dell’economia.
Si
ha così una sorta di inversione del meccanismo precedente; l’accordo (specie
aziendale o di settore) riduce l’area delle tutele, si pone come deroga in
peggio di quanto prevedono le leggi dello stato (in cambio, si sostiene, di un
sia pur limitato accesso al lavoro e al reddito: il male minore in buona
sostanza). Lo strumento normativo utilizzato in concreto per legittimare la
modifica retributiva e normativa verso il basso sta nell’articolo 411 del
codice di procedura civile: singoli lavoratori, con l’assistenza sindacale,
accettano in transazione la riduzione del salario e a questo accordo lo stato
riconosce valore di sentenza irrevocabile. E la forma dell’intesa
stragiudiziale consente anche di introdurre nei licenziamenti collettivi
criteri di scelta diversi da quelli di legge; la Corte di Cassazione ha più
volte deliberato che estromettere i più anziani (o altre categorie deboli) è
ammesso, se sorretto dalla firma dei rappresentanti dei lavoratori.
Per
questa via si è successivamente pervenuti all’aumento delle quote di precariato
consentito, specie a fronte del cosiddetto start up (l’apertura
di nuove attività) o al dilagare della somministrazione e delle partite iva. La
legge si è poi adeguata al mutato rapporto di forza, ha ratificato questi
comportamenti diffusi, di volta in volta spostando i confini delle tutele.
Questo processo di precarizzazione ha incontrato una certa resistenza fino al
2010, soprattutto per l’impegno del sindacalismo di base e della Fiom-Cgil;
l’apparato di comando, senza mai arretrare, è andato tuttavia avanti con una certa
qual circospezione, perfino con prudenza. L’esplosione della crisi ha prodotto,
dal 2010, una rapidissima progressione dell’opera di smantellamento dei
diritti; i due governi delle larghe intese (quello tecnico e quello politico)
in pochi mesi hanno mutato radicalmente lo scenario, senza quasi incontrare
resistenza. La precarizzazione generalizzata si presenta, sempre di più, come
la condizioneordinaria nel rapporto di lavoro.
La
legge 183/2010 (il collegato lavoro) ha inserito decadenze e limiti di ogni sorta,
con effetti retroattivi giudicati legittimi dalla nostra Corte Costituzionale.
La legge 92/2012 (nota come Fornero) ha sostanzialmente abrogato la
reintegrazione nel posto di lavoro (la tutela reale, l’effettivo
rientro in azienda, si riduce a pochi casi residuali) e contemporaneamente ha
drasticamente affievolito le forme di ammortizzatori sociali anche nelle grandi
fabbriche. Lo spettro del possibile licenziamento ha spinto i soggetti di
fascia debole ad accettare accordi che comportano notevoli compressioni della
retribuzione di fatto fino ad allora percepita.
Soprattutto
ha subito una radicale mutazione lo strumento processuale del lavoro,
ricondotto anch’esso ad una diversa filosofia del diritto. La legge che lo
aveva istituito (la 533) porta la data del novembre 1973. Era un mezzo rapido,
esente da spese anticipate, alla portata dei lavoratori che lo utilizzavano; in
pochi mesi la controversia giungeva a conclusione, con il formalismo ridotto al
minimo (i principi della scuola bolognese che lo aveva concepito stavano nella
oralità, nella immediatezza e nella concentrazione, quelli del Chiovenda).
A
partire dal 2010 il processo è stato sottoposto ad una operazione di
demolizione, lucida, consapevole, volontaria, funzionale alla pianificata
estensione della condizione precaria mediante l’eliminazione di questa forma
residuale (e in qualche modo di mediazione istituzionale) del conflitto. Il
processo del lavoro ora ha un costo, con esenzione parziale per i meno abbienti
nei primi gradi e senza esenzione davanti alla Corte di Cassazione. E il
legislatore delle larghe intese ha introdotto l’obbligo di condannare il
lavoratore soccombente a rifondere le spese legali ai difensori dell’azienda,
proprio come se fosse uno scontro ad armi pari. La magistratura si è
prontamente adeguata al nuovo corso; fioccano le condanne a carico dei
lavoratori, e questo costituisce un deterrente formidabile in tempo di crisi.
Il Tribunale di Torino, come di consueto all’avanguardia, ha di recente
aggiunto anche l’istituto della lite temeraria (articolo 96
del codice di procedura civile), usandolo come una clava nei confronti di
alcuni malcapitati (in un caso il risarcimento posto a carico del lavoratore ha
raggiunto la cifra record di centomila euro; sembra la sentenza di condanna
delle Pussy Riot!).
I
soci di cooperativa, se licenziati, sono esclusi, secondo l’indirizzo dei
tribunali di Milano e di Torino, dal processo del lavoro e debbono andare
(senza più esenzioni e con costi quadruplicati) alla sezione specializzata
delle imprese. Nella logistica e nel terzo settore sociale precari mal pagati
dovrebbero sostenere un costo iniziale di oltre mille euro per sole spese vive,
per poter accedere alle aule di giustizia. Le decisioni sui licenziamenti, dopo
i primi 15 mesi di legge Fornero, incoraggiano le imprese a disfarsi di
qualsiasi indesiderato; ed anche qui, nella sostanza, ogni sorta di formalismo
bizantino viene recepito dalla giurisprudenza come fondamento del diritto.
In
questo quadro gioca un ruolo dissuasivo il mezzo tecnico, sempre più spesso
utilizzato, della cosiddetta norma di interpretazione autentica. Consiste
in questo. Quando i subordinati vincono le cause, prima che intervenga il
giudizio definitivo della cassazione, il governo inserisce in qualche legge
(non importa se completamente estranea alla materia) l’interpretazione
favorevole all’azienda (con effetto retroattivo) e il giudizio viene ribaltato.
I precari delle fondazioni liriche avevano ottenuto la stabilizzazione;
semplice, nel decreto Letta hanno interpretatodiversamente e
vietato di stabilizzare. Alcune sentenze d’appello avevano ritenuto di non
applicare limiti al risarcimento nel contratto a termine; semplice, Letta ha
provveduto ad interpretare dando invece ragione alle imprese.
E meno male che il segretario del partito al governo è stato a lungo al vertice
della Cgil!
Le
basi di questa nuova filosofia del diritto, si dice, hanno radice in Europa (lo
chiede la BCE, ripetono gli uomini delle larghe intese). E’ vero, ma questo non
è sufficiente a spiegare l’intensità del mutamento in atto e, neppure, a
comprendere le ragioni della scarsa resistenza opposta dai lavoratori
all’attacco. Affrontare il tema delle modalità di contrasto costituisce un
imperativo cui non ci si deve più a lungo sottrarre. Sarà l’oggetto del mio
prossimo scritto; ma era necessario, in premessa, comprendere come la
cancellazione delle tute sostanziali e processuali (e con essa l’opzione
apertamente repressiva, autoritaria delle istituzioni) sia inscindibilmente
connessa all’economia odierna, che esige la generalizzazione di una condizione
precaria ed insieme la messa a valore dell’intera esistenza di tutti i singoli
soggetti. L’informalizzazione (del processo e dei contratti di lavoro)
costituisce la connessa filosofia dell’apparato europeo di comando.
[1] In diritto, il sinallagma (dal greco synallatto o anche
proprio synallagma, anche detto nesso di reciprocità) è un elemento costitutivo
implicito del contratto a obbligazioni corrispettive, quello cioè nel quale
ogni parte assume l’obbligazione di eseguire una prestazione (di dare o di
fare) in favore delle altre parti contraenti esclusivamente in quanto siffatte
parti a loro volta assumono l’obbligazione di eseguire una prestazione in suo
favore.