di
Andrea Fumagalli
26
novembre 2013: una news fa scalpore tra i media italiani. In Italia è stato
introdotto il reddito minimo garantito! Colpo di scena! “Prove di reddito
minimo”, titola Repubblica festante. “Spunta il reddito minimo” risponde il
Corriere della Sera. Ma è vero? Pas de tout. Quello che è stato introdotto
(solo in via sperimentale per tre anni), nel maxi emendamento che dovrebbe
essere votato con la fiducia per approvare la legge di stabilità 2014, è in
realtà un miserevole reddito parziale, selettivo, di povertà. E non può essere
altrimenti, visto che sono sati stanziati 40 milioni (meno che per la Social
Card) e la sua attuazione vale solo per 12 aree metropolitane. Ancora una
volta in Itala parlare di reddito di base come misura non selettiva per
consentire la fuoriuscita dalla povertà e favorire il diritto di scelta di via
e di lavoro è un vero e proprio tabù
In
Italia qualunque intervento di sostegno diretto al reddito incontra, come ben
sappiamo, notevoli difficoltà, in primo luogo culturali. Nonostante il tasso di
attività nel nostro Paese sia tra i più bassi a livello europeo, resta radicata
un’etica del lavoro di calvinistica memoria, che considera immorale
qualunque sostegno al reddito slegato dall’obbligo di una prestazione
lavorativa.
Una
posizione particolarmente tenace nell’ambiente sindacale e della sinistra,
ancorate spesso a visioni novecentesche. Non ci stupisce: il ritardo culturale
nel comprendere le profonde trasformazioni dei processi di valorizzazione e del
mercato del lavoro da parte delle tradizionali forze politiche di
centro-sinistra (nonostante alcune lodevoli eccezioni) è evidente. Riscuote
ancora molto consenso l’idea che dare reddito a chi si trovi in condizioni di
povertà non aiuti i soggetti a uscire da tale situazione, anzi favorisca il
loro permanere in quella che viene definita la “trappola della povertà”.
Quando
oggi si parla di giovani Neet (Not in education, employment and training),
comunemente si pensa a una schiera di giovani fannulloni, perditempo,
bamboccioni, viziati (choosy). Dare loro reddito significherebbe
favorire tale situazione, invece che spronarli a essere attivi e utili (ma per
chi?) secondo una logica auto-imprenditoriale di se stessi.
Purtroppo
le cose non stanno andando come descrivono gli apologeti di tali posizioni. Le
mutate condizioni del lavoro ci dicono che oggi è imperante non la trappola
della povertà (una conseguenza) ma la “trappola della precarietà”, ovvero una
situazione che rende del tutto subalterna e ricattabile parte della forza
lavoro attiva, creando una sorta di nuovo esercito industriale di riserva non
più esterno al mercato del lavoro ma interno (con l’effetto di dumping sociale
che ben conosciamo).
Ed
è proprio questa situazione che è la prima causa del declino economico
dell’Italia. I dati sono impietosi. Il 26 novembre, addirittura l’Ocse (sempre
prona a denunciare la presunta rigidità del mercato del lavoro italiano e la
necessità di politiche d’austerity) afferma che il destino dei precari italiani
sarà un futuro di anziani poveri,
“homeless”.
In
contemporanea, la dinamica
dei salari italiani segna il passo. In media in Italia nel 2012 un
lavoratore guadagna 28.900 euro, pari a 38.100 dollari. Il salario medio dei
paesi dell’Ocse è 42.700 dollari. In Svizzera il salario medio è 94.900
dollari, in Norvegia 91mila dollari, in Australia 76.400 dollari, in Germania
59mila dollari, in Regno Unito 58.300 dollari e negli Stati Uniti 47.600
dollari. Ai livelli più bassi ci sono i messicani con 7.300 dollari e gli
ungheresi con 12.500 dollari.
Tutto
ciò accade in un contesto con un tasso di disoccupazione ufficiale al 12,4% che
potrebbe superare il 20% qualora ad esso si aggiungessero gli scoraggiati. Tale
differenziale è anche conseguenza del fatto che in Italia sono circa 9 milioni
(5 milioni di persone che hanno bisogno di lavoro e 4 milioni di precari)
coloro che oggi si trovano in sofferenza
di reddito. Non è un caso che tale cifra coincida con il numero di coloro
che in Italia percepiscono un reddito al di sotto della soglia di povertà relativa.
Questa è la trappola della precarietà, la vera emergenza italiana.
A
fronte di questa realtà – che descrive una nuova composizione del lavoro vivo e
la svalorizzazione del lavoro – le forze sociali (sindacati e
partiti istituzionali della sinistra) fanno orecchie di mercante o mettono la
testa sotto la sabbia, come gli struzzi.
Sappiamo bene che in Italia, al pari della Grecia e dell’Ungheria, non esiste nessuna misura di reddito di ultima istanza. Esistono, invece, gli ammortizzatori sociali, eredità del condizione lavorativa del periodo taylorista: strumenti che oggi sono diventati misure selettive, distorte, inique e spesso clientelari, non più in grado di garantire sicurezza sociale a tutti coloro che, precari, inoccupati, lavoratori stabili a basso reddito, ne avrebbero bisogno e teoricamente diritto. Strumenti che fanno comodo sia ai sindacati che alle organizzazioni padronali. Oggetto di concertazione sociale che permette ai primi di legittimare la propria presenza nei luoghi di lavoro, ai secondi di scaricare socialmente i costi di ristrutturazione aziendale.
Sappiamo bene che in Italia, al pari della Grecia e dell’Ungheria, non esiste nessuna misura di reddito di ultima istanza. Esistono, invece, gli ammortizzatori sociali, eredità del condizione lavorativa del periodo taylorista: strumenti che oggi sono diventati misure selettive, distorte, inique e spesso clientelari, non più in grado di garantire sicurezza sociale a tutti coloro che, precari, inoccupati, lavoratori stabili a basso reddito, ne avrebbero bisogno e teoricamente diritto. Strumenti che fanno comodo sia ai sindacati che alle organizzazioni padronali. Oggetto di concertazione sociale che permette ai primi di legittimare la propria presenza nei luoghi di lavoro, ai secondi di scaricare socialmente i costi di ristrutturazione aziendale.
E’
in questo contesto che viene oggi proclamato, come misura innovativa quasi di
rottura (sic), l’introduzione di una misura di reddito minimo di inserimento.
Preannunciata dal vice-ministro dell’economia Stefano Fassina in un’intervista
a Il
Manifesto del 15 novembre, è stata inserita nel
maxi-emendamento su cui si chiede il voto di fiducia per approvare la legge di
stabilità per il 2014.
Si
tratta della costituzione (in via sperimentale, quindi temporanea) di un fondo
di contrasto alla povertà (si chiama, ufficialmente, ”reddito minimo di
inserimento”) per le sole aree metropolitane. La copertura arriverà
dall’allargamento della platea delle cosiddette. “pensioni d’oro” per le quali
scatterà il contributo di solidarietà: si partirà da 90mila euro. Il reddito minimo,
stando alle prime indiscrezioni, verrebbe concesso a giovani e a disoccupati
che accettino però di intraprendere un percorso (formazione e impieghi
attinenti a quelli già svolti in passato) per il reinserimento nel mondo del
lavoro. A quanto dovrebbe ammontare tale reddito minimo di inserimento, non è
invece ancora chiaro. La somma stanziata è 40milioni! Ricordiamo che in Italia
è in vigore la “Social Card” (che consente l’acquisto di beni in natura) in 12
città scelte, Milano, Torino, Venezia, Verona, Genova, Bologna, Firenze, Roma,
Napoli, Bari, Catania e Palermo, per un ammontare di risorse stanziate
superiore, pari a 50 milioni di euro. E non stupisce che i 40 milioni
stanziati confluiscano nello stesso fondo della Social Card!
Un
reddito minimo dato alle famiglie e non agli individui (l’etica calvinista del
lavoro italiana lascia qui spazio alla sua natura cattolica) e del tutto
insufficiente a far fronte ai bisogni dei 9,560 milioni di persone che vivono
al di sotto della soglia di povertà relativa. Un’elemosina che sa di presa in
giro! Calcoli
esistenti ci dicono che la somma necessaria, al netto di quanto già lo
Stato eroga sotto forma di reddito diretto, ammontava a circa a 10
miliardi nel 2011, somma che oggi, in seguito all’aggravarsi della crisi,
arriva a sfiorare i 19 miliardi. Tale misura può essere finanziata tramite un
intervento sul sistema fiscale che miri ad una più equa distribuzione delle
tasse e a un riesame delle politiche di spesa, che può essere del tutto sostenibile anche
all’interno dei vincoli di bilancio imposti dalla
troika finanziaria.
A
fronte di questi dati, è evidente che l’introduzione di una misura di reddito
minimo d’inserimento assume le forme di un ulteriore controllo sociale
all’interno di una concezione workfaristica delle politiche sociali,
finalizzate a mantenere lo status quo di ricattabilità della lavoro vivo,
contraria a qualsiasi possibilità di diritto di scelta del lavoro e di
autodeterminazione.