di Francesco Raparelli
questo
contributo è la relazione presentata dall’autore nel corso del dibattito -con
Bruno Cartosio e Antonio Conti- sull’avventura dell’Industrial Workers of the
World, promosso all’interno della II
edizione del Festival di Storia, organizzato -tra gli altri- dal Nuovo Cinema
Palazzo e dedicato quest’anno all’American revolution
1.
A conclusione dell’opuscolo curato dal Collettivo di “Primo maggio”, La
tribù della talpe, Sergio Bologna presenta stenograficamente i tratti
qualificanti della «leggenda» dell’Industrial Workers of the World e,
parafrasando Mario Tronti e il suo Lenin in Inghilterra (1964),
propone: «IWW a Torino» (BOLOGNA 1978). Dalla fabbrica alla società, dalla
centralità dell’operaio-massa alla circolazione delle merci, la logistica:
questo il passaggio imposto dalla ristrutturazione capitalistica targata
Agnelli. Se alla fabbrica si sostituisce il territorio, allora, questa
l’ipotesi politica di Bologna, decisivo riscoprire la storia del sindacalismo
rivoluzionario americano, le sue forme organizzative e di lotta, il suo piglio
combattivo, generoso e libero dalle ideologie.
Potrà
esser felice Sergio Bologna se, qualche decennio dopo, la sua ipotesi ha
trovato verifica nella concretezza delle lotte. A partire dalla scorsa
primavera, un ciclo potente di scioperi, con protagonisti i migranti, sta
mettendo a dura prova il business e le multinazionali della logistica. Questo è
accaduto in Veneto, in Emilia, in Lombardia, da poco anche a Roma. Tracce di
IWW fanno finalmente la loro comparsa nell’Italia devastata dalla seconda
Grande Depressione. Un inizio fondamentale, ma che ancora si presenta come
eccezione, mentre la disoccupazione reale supera ampiamente il 20% e nessuna
lotta di rilievo, salvo le insorgenze studentesche che vanno e vengono (e
ovviamente gli scioperi nel mondo della logistica), anima la scena del lavoro
precario di vecchia e nuova generazione.
Tornare
alla storia del sindacalismo rivoluzionario americano, operazione già compiuta
altre volte nell’ultimo ventennio (decisivo il documento Immaterial
Workers of the World proposto nel 1999 dalla rivista Derive Approdi),
conquista nuova urgenza proprio ora che l’offensiva padronale ha fatto della
crisi occasione utile per concludere l’opera di riduzione drastica dei
salari/redditi, di devastazione del diritto del lavoro e di saccheggio delle
istituzioni del welfare (sanità, previdenza, formazione), avviata alla fine
degli anni ’70. Proprio ora, che la precarietà colpisce il lavoro vivo tutto, o
quasi, e il salario indiretto (il welfare, appunto) viene raso al suolo, tanto
dalle privatizzazioni, quanto dall’enorme trasferimento di ricchezza pubblica
nelle casse delle grandi istituzioni finanziarie. Uno sguardo nel passato utile
ad aggredire – con la prassi oltre che con il pensiero – il presente, oggi come
allora definito dalla stessa necessità: organizzare i non-organizzabili.
2.
«Industria negli Stati Uniti significa guerra civile». Così esordisce un testo
sull’IWW del 1920 (REED 1920), e scritto da John Reed, il famoso giornalista e
rivoluzionario americano che, per “The Masses” e “The Metropolitan”, aveva
qualche anno prima raccontato alcuni degli episodi più significativi e
drammatici della lotta di classe americana (lo sciopero di Paterson del 1913 e
quelli del Colorado del 1914). Premessa decisiva delle conquiste salariali del
«trentennio glorioso», in America avviato con anticipo dal New Deal
rooseveltiano, è la guerra civile, un conflitto sociale, senza esclusione di
colpi, che si condensa – pur avendo avuto precedenti decisivi nel ventennio
successivo alla rottura del 1877 – tra gli anni immediatamente successivi alla
grande crisi del 1907 e l’inizio degli anni ’20. La ristrutturazione
capitalistica, qualificata dalla seconda rivoluzione industriale e
dall’affermazione dei trust, modifica radicalmente la composizione di classe:
alla centralità dell’operaio di mestiere si sostituisce quella
dell’operaio-massa, non specializzato (FASCE 1974). Dequalificato e migrante,
il nuovo soggetto produttivo diviene il perno su cui cresce la domanda di
“unionismo”, alternativa e ostile al corporativismo dell’American Federation of
Labor di Gompers. Domanda che anima la nascita, a Chicago, nell’estate del
1905, dell’Industrial Workers of the World. Una vicenda eroica e drammatica,
quella degli wobblies, un laboratorio rivoluzionario incandescente che segna
l’inizio secolo (il XX) del paese che, di lì a breve, sarebbe diventato egemone
nell’Occidente capitalista.
Guardando
alla sequenza degli scioperi e delle grandi battaglie, non si può non cogliere
una generosità e una grandezza senza pari. Dal conflitto violentissimo di
Goldfiel, tra il 1906 e il 1908, con protagonisti i minatori del Nevada,
componente decisiva del neonato IWW, allo sciopero durissimo e vincente degli
operai dell’acciaio di McKees Rocks, in Pennsylvenia; dalle lotte per la
libertà di parola (free speech fights) che invadono l’Ovest e non solo
(da Spokane fino a Missula, da Portland fino a Kansas City), all’eroico 1912,
con lo sciopero di Lawrence, cittadina dell’Est consacrata all’industria
tessile (60.000 operai su 86.000 abitanti) e segnata dall’immigrazione di nuova
generazione, composta prevalentemente da italiani, greci, russi, lituani,
polacchi; dalla disfatta di Paterson, nel 1913, ai successi dei braccianti e
dei tagliaboschi del Sud e dell’Ovest, tra il 1914 e il 1917: una mappa di
“fuochi” e di rotture che ridisegnano la cartina degli Stati Uniti, le sue
linee del colore e dello sfruttamento, quelle di fuga e di insubordinazione
alla schiavitù salariale (RENSHAW 1968).
Vale
la pena insistere sulla durezza e il coraggio di questa vicenda proprio oggi
che nessuno dei diritti consolidati nel «trentennio glorioso» (piena
occupazione, alti salari, Welfare State) resiste all’offensiva neoliberale.
Oggi che non è più normale, per un’intera generazione, avere ferie, malattie e
gravidanza pagate, oggi che vecchiaia fa rima con indigenza e le istituzioni
formative divengono un business che impone indebitamento generalizzato per
studenti e famiglie, oggi che la disoccupazione si estende a dismisura, oggi
occorre riscoprire il rapporto costitutivo tra sindacato e conflitto radicale,
tra auto-organizzazione del lavoro vivo e sabotaggio. Gli wobblies sono il
ricordo e il paradigma di questo rapporto, la lezione da tenere a mente nella
costruzione di nuovi dispositivi sindacali, oltre e contro il sindacalismo
confederale, giallo e corporativo (dalla CES scendendo giù fino alla triplice
italica CGIL-CISL-UIL).
3.
«La classe operaia e la classe padronale non hanno niente in comune. Non vi può
essere pace finché la fame e il bisogno esistano per milioni di lavoratori e i
pochi, che costituiscono la classe padronale, posseggono tutte le cose buone
della vita». Con queste due frasi prende avvio il Preambolo al Manifesto
dell’IWW del 1905 (CARTOSIO 2007). La potenza politica delle affermazioni
avanzate è priva di eguali.
In
primo luogo l’eterogeneità ontologica tra le classi nel rapporto di capitale.
L’assenza di elementi comuni è anche, e soprattutto, rifiuto di ogni hegeliana
sintesi dialettica. Nulla di più distante dalla tradizione socialista e poi
socialdemocratica in cui la classe operaia si fa Stato, classe capace di
trascinare sulle sue spalle, con “responsabilità”, l’interesse generale.
L’antagonismo, così, si presenta come ciò che Benjamin definirà «il vero stato
di eccezione», intendendo, con questa formula, quello proclamato dagli
oppressi: non ci sono «domani che cantano», non c’è alcun lieto fine da
conquistare una volta per tutte, non c’è spazio alcuno per la filosofia della
Storia, ci sono solo la ruvidità e la bellezza di un processo di lotta aperto,
ostile al progressismo, segnato piuttosto da salti e discontinuità, da
avanzamenti e ripiegamenti, rapporti di forza favorevoli e sfavorevoli,
vittorie e battute d’arresto. Non c’è alcuna generalità da rappresentare, c’è
solo la singolarità delle «cose buone» da strappare, della povertà da
respingere, della tristezza (con parole contemporanee, depressione) da mettere
all’angolo.
Per
l’Industrial Workers of the World, d’altronde, la nuova società va costruita
«nel guscio della vecchia». È questo il problema scottante, per John Reed che
racconta l’IWW alla Russia Sovietica. Manca la leniniana e bolscevica dittatura
del proletariato, la transizione. Manca, o forse non manca nulla, e si profila
una strada diversa, di certo più faticosa. Nessun progressismo, anche in questo
caso, semmai teoria e pratica politica dell’Esodo (VIRNO 1993). La
rivendicazione salariale, l’espansione dell’azione diretta e del sabotaggio
sono già costruzione di una nuova società, fatta di libertà (dalla schiavitù
salariale) e eguaglianza. Con le parole di Sergio Bologna, che meglio di altri,
già nel 1967, coglie la differenza degli wobblies: «la gestione
degli affari ai padroni, la determinazione del lavoro socialmente necessario e
del reddito alla classe operaia» (BOLOGNA 1972). Il punto più alto della
politica trasformativa si colloca là dove è più potente il rifiuto del lavoro,
la conquista del salario come «variabile indipendente», la riappropriazione di
condizioni di vita degne (nel caso degli wobblies ciò
significa abitazioni e alimentazione decenti, igiene ecc.).
Nuovamente:
quanta attualità in questa traiettoria, che fu sì sconfitta dalla violenza
inaudita scatenata da Stato e padroni al seguito dell’ingresso dell’America
nella Grande Guerra, ma che seppe preparare con forza l’offensiva operaia degli
anni ’30 (TRONTI 1971), fino all’affermazione del New Deal roosveltiano.
Necessaria l’insistenza sulla frattura ontologica tra le classi, dopo il
trentennio dell’utopia neoliberale, con la «demoltiplicazione della forma
impresa» e la sostituzione del concetto di forza-lavoro con quello di capitale
umano. Necessaria ancora di più ora che l’utopia si è frantumata nella burrasca
della seconda Grande Depressione e che l’«intellettualità di massa» si presenta
nei panni del pauper. Così come necessario il ripensamento di una
politica dell’Esodo dalle spalle larghe, nell’epoca in cui la crisi economica
globale e la sua gestione si trasforma in «accumulazione originaria» permanente
(rinnovata violenza extra-legale e saccheggio del comune, compressione dei
salari e dei redditi, ecc.).
4.
Organizzare i non-organizzabili, questa è la sfida che si propongono gli
wobblies. I non-organizzabili, nell’America del 1905, sono gli operai dequalificati
(l’operaio-massa) e sono, nello stesso tempo, gli immigrati di nuovissima
generazione, per la maggior parte provenienti dall’Europa del Sud e dell’Est
(più di 8 milioni tra il 1891 al 1910 – RENSHAW 1968). Tra i due soggetti la
coincidenza è quasi piena, sebbene siano tanti gli americani che spingono in
avanti la frontiera dell’Ovest e lì sono catturati dalla nuova scena
produttiva, quella animata dalla seconda rivoluzione industriale.
Ed
è proprio nell’Ovest che, all’estensione smisurata dei rapporti di
sfruttamento, si accompagnano una radicale mobilità e intermittenza del lavoro.
Come ci ricorda Ferdinando Fasce (FASCE 1974), con riferimento alla
preziosissima inchiesta svolta da una commissione statale californiana nel
periodo compreso tra il 1913 e il 1914, «la durata di un impiego per un
lavoratore comune era di 15-30 giorni per l’industria del legname, 10 per le
costruzioni, 7 per i raccolti, 60 per le miniere». Con il lessico
contemporaneo: contratti a tempo determinato, job on call, prestazioni
occasionali. Spesso, lavoro in nero. Incomparabili la povertà e le sofferenze
degli hobos con quelle dei precari più o meno giovani del nostro tempo, ma se
rivolgiamo lo sguardo al lavoro migrante che si addensa nelle metropoli, per
esempio nel settore dell’edilizia, o a quello che prevale nel settore agricolo,
soprattutto nelle periferie del Sud, le differenze sfumano. Altrettanto, seppur
segnato da condizioni di vita assai più favorevoli, il precariato metropolitano
dei giorni nostri, magari altamente formato, schizza da un lavoro all’altro,
quando è fortunato, conoscendo solo salari da fame.
Allora
una forza-lavoro dequalificata, oggi, al contrario, mediamente (molto)
qualificata. Allora l’avvento delle nuove macchine e la razionalizzazione del
processo produttivo (taylorismo), oggi la diffusione delle tecnologie digitali
e la piena coincidenza tra tempo di lavoro e tempo di vita (la reperibilità
garantita dal telefonino è elemento esemplificativo). Allora come oggi, però,
mobilità, intermittenza, bassi salari, mancanza di diritti e protezione
sindacale come tratti salienti del lavoro. «Somiglianze di famiglia» che fanno
della vicenda dell’IWW, non solo un momento decisivo della storia del movimento
operaio, ma anche il «futuro alle nostre spalle».
5. Solidarity
forever è il titolo della canzone scritta nel 1915 da Ralph Chaplin,
assiame a John Hill tra i massimi cantautori degli wobblies, sull’aria
di John Brown’s Body. La scoperta della solidarietà di classe (con
gli scioperi solidali), contro il corporativismo dell’AFL, è la dirompente
novità introdotta dall’IWW. Cosa significhi oggi, nella scena del lavoro
precario, questa parola, è cosa ancora da scoprire. Non occorre essere troppo
perspicaci, infatti, per afferrare il primato delle passioni tristi (invidia,
ambizione di potere, paura, ossessione competitiva ecc.) nelle relazioni
sociali che qualificano la produzione contemporanea. Quanto più si demoltiplica
la forma impresa e si estende la valorizzazione, a valle e non più a monte,
della cooperazione produttiva, tanto più l’ideologia neoliberale demolisce i
legami di classe, facendo, dell’individuo competitivo e meritevole, la figura
etica della nostra epoca.
Conquistare
una rinnovata solidarietà, non più esito della concentrazione e della
massificazione produttiva, ma capace di connettere le singolarità della
metropoli contemporanea, è il primo grande obiettivo del sindacato
rivoluzionario da costruire.
Altrettanto:
quale un equivalente funzionale delle free speech fights? Libertà
di parola voleva dire, non tanto e non solo accesso ad una piena cittadinanza
(liberale), quanto organizzazione di una forza-lavoro frammentata, segnata
dall’intermittenza e dalla mobilità. Quali luoghi della metropoli, e quali
della rete, vanno attraversati con la parola sovversiva di chi vuole
combattere, senza sosta, la schiavitù salariale (che si allarga alle condizioni
generali del reddito sociale, del debito, della fiscalità) del nostro tempo?
Ancora.
Gli wobblies sono grandi sperimentatori: azioni dirette, sabotaggio, sciopero
generale. Le insorgenze dell’ultimo decennio hanno spesso insistito sulla
pratica dello sciopero sociale e metropolitano: dal blocco della circolazione
delle merci al diritto alla città (occupazione di piazze, di stabili abitativi
vuoti e fabbriche dismesse ecc.). Non possiamo, però, non continuare a
chiederci: cosa significa distruzione dei profitti là dove questi ultimi,
sempre più, si sono trasformati in rendita e la finanza dispone di una capacità
di comando che sembra immune allo scontro capitale (produttivo)/lavoro? E il
sabotaggio? Quali i comportamenti, già all’opera nel presente, utili a definire
nuove tattiche di sabotaggio dello sfruttamento capitalistico?
Sono
domande, le mie, alle quali solo un accumulo paziente e coraggioso di esperienze
pratiche potrà dare, seppur parzialmente, risposta. E solo un robusto accumulo
di conflitti potrà afferrare effettivamente l’attualità degli wobblies,
consapevoli, con Benjamin, che «il soggetto della conoscenza storica è di per
sé la classe oppressa che lotta» (BENJAMIN 1940).
Bibliografia
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Geschichte, Hrsg. v. R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, unter Mitwirkung v.
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Bruno (2007), a cura di, Wobbly! L’Industrial Workers
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the World. La
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John (1920), trad. it. (2012), La lotta degli IWW in America, in Red America.
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