di Toni Negri
Intervento è stato presentato lo scorso ottobre al seminario “Disarticolare
la Proprietà” tenutosi all’Università di Perugia. Il tema dei beni comuni e del loro
possibile statuto giuridico è da sempre oggetto di un vivace dibattito nel
quale è centrale la definizione di beni comuni come quei beni che, a prescindere dall’appartenenza
pubblica o privata, si caratterizzano per un vincolo di destinazione, essendo
funzionali alla realizzazione dei diritti fondamentali di tutte e tutti. Sul
piano politico porre i beni comuni al di là del pubblico e del privato
significa pensare e aspirare alla realizzazione di forme e istituzioni di
democrazia partecipata che superino le attuali politiche di privatizzazione
senza però tornare alla tradizionale gestione pubblica, verticale e paternalista, delle
risorse. Sul piano giuridico e istituzionale ciò vuol dire superare
l’egoismo proprietario quale paradigma fondante del diritto privato, ma anche
la sovranità dello stato come filtro necessario nella gestione e nel godimento
delle risorse da parte della collettività. Ora, posto che la dicotomia
pubblico/privato continua ad essere una struttura fondante del diritto vigente,
il riconoscimento giuridico dei beni comuni può essere un momento strategico
per il suo superamento
Lasciatemi cominciare ricordando un breve passaggio marxiano (Marx, Über Lists Buch): “Il lavoro è il fondamento vivente
della proprietà privata, la proprietà privata come fonte creativa di se stessa.
La proprietà privata non è altro che lavoro oggettivato. Se allora si vuol dare
alla proprietà privata un colpo mortale, non bisogna attaccarla solo in
quanto condizione oggettiva, bensì in quanto attività, in quanto lavoro. E’ uno dei più grandi
equivoci parlare di lavoro libero, umano, sociale, di lavoro senza proprietà privata. La soppressione della
proprietà privata giunge dunque a realtà solo quando venga concepita come
soppressione del lavoro, una soppressione che naturalmente diviene possibile
solo attraverso il lavoro, e cioè attraverso l’attività materiale della
società”.
Marx assume qui – dalla tradizione lockeana – la definizione “classica”,
laica e liberale della proprietà privata. È la definizione propria
dell’individualismo possessivo. Macpherson (come noto) ha ampiamente studiato
l’individualismo possessivo: in questa prospettiva l’individuo era considerato
libero nella misura in cui fosse proprietario della propria persona e delle
proprie capacità, l’essenza dell’uomo consisteva nel non dipendere dalla
volontà altrui e la libertà era funzione di ciò che individualmente si
possiede. (Non molto diversa, sia detto per inciso, era la concezione della
libertà Harrington e in Winstanley, autori per altro ai quali volentieri ci
richiamiamo poiché il telos collettivo
del loro ragionamento incentivava un progetto comunista).
La società consiste dunque di relazioni di scambio tra proprietari. La
società politica diviene una macchina progettata al fine di difendere la
proprietà privata e di mantenere una ordinata relazione di scambio. Se
allarghiamo lo sguardo e poniamo Hobbes, come giustamente fa Macpherson, al
centro teorico dell’individualismo possessivo – laddove esso è sviluppato in
termini universali – eccoci allora ad apprezzare la definizione della libertà
individuale (e quindi la definizione della proprietà come traduzione economica
della libertà stessa) con grande rigore elaborata da questo: “The Value, or
WORTH of a man, is as of all other things, his Price ; that is to say, so much
as would be given for the use of his Power …” (Leviathan, ed. 1651,
c. X, p. 42).
Si sa tuttavia quanto oggi il lavoro sia profondamente cambiato rispetto
alla definizione dell’individualismo possessivo: sarà cambiato anche il
concetto di proprietà privata? Meglio, in che senso, in che verso dovremmo
trasformare la critica della proprietà? Per rispondere, vediamo prima come
cambia il lavoro e per evitare ingenui riferimenti a fonti critiche italiane
(che sempre in Italia risultano – chissà perché – fastidiosi) rileggiamo Robert
Castel, Manuel Castells e innumerevoli altri, ben riassunti da Luc Boltanski e
Eve Chiappello (Le Nouvel esprit du capitalisme –
1999), un libro dove si analizzano conclusivamente le nuove forme del lavoro
produttivo oggi. Esso si realizza e valorizza in un mondo di reti comunicative
e di connessioni informazionali sempre più evidenti; si lavora,
conseguentemente, in forme sempre più flessibili e mobili, precarie dal punto
di vista salariale – e la dimensione lavorativa viene sempre più segnata
dall’indeterminazione dei tempi e degli spazi, dall’inquietudine e dell’anomia.
Quanto alla valorizzazione, essa si realizza attraverso flussi cooperativi,
dove linguaggi e affetti sono sussunti nei processi materiali della produzione
ed il lavoro (il c.d. capitale variabile) si scambia sempre più frequentemente
con il macchinario (il c.d. capitale fisso). Che è come dire: la qualità del
lavoro è segnata da figure sempre più singolari che si combinano in maniera
cooperativa con il capitale costante, poiché si appropriano autonomamente di
frazioni o di tempi, di usi o di funzioni del capitale fisso. Il lavoro è
dunque cambiato in maniera radicale da come era stato descritto e da come
ontologicamente si poneva nell’epoca dell’individualismo possessivo. Le forme
del rapporto tra attività e proprietà sono dunque anch’esse radicalmente
mutate? Certo. Che cosa resta allora, ontologicamente, del concetto di
proprietà privata?
Val la pena di sottolineare che non è la prima volta che tale modificazioni
si danno: già in epoca industriale (quando cioè l’archeologia
dell’accumulazione originaria sfiorisce e s’impone, con il moderno, l’egemonia
della grande industria) il rapporto fra il lavoro e proprietà privata si era profondamente
modificato. Man mano le teorie imprenditoriali, manageriali dell’industria
avevano spostato il concetto di proprietà verso una funzione gestionaria. Il
realismo americano dell’inizio del XX secolo aveva seguito con molta chiarezza
queste modificazioni.
Con l’ultima modificazione, di cui con Boltanski si è detto, la
trasformazione del concetto di proprietà (in quanto collegata a quella di
lavoro) diviene ontologicamente estrema – e non si comprende come della
definizione hobbesiana (ed in parte di quella marxiana) non si riconosca la
definitiva obsolescenza – ed una sopravvivenza puramente ideologica. Si
sottolinei tuttavia l’insuperabile vantaggio che – pur nel superamento del suo
concetto di lavoro – il discorso marxiano mostra nei confronti dell’hobbesiano.
Marx infatti non tiene stretta solo l’idea di libertà e di proprietà ma –
leggendo dinamicamente il concetto di quest’ultima – connette anche l’idea di
lavoro e quella di proprietà, permettendoci così di procedere ben oltre
l’individualismo possessivo. Avanziamo dunque, anche noi, sul terreno della
definizione della proprietà tenendo presente l’equazione marxiana
lavoro-proprietà.
Il mutamento del lavoro (al quale ci siamo riferiti con Boltanski) rinnova
dunque fondamentalmente l’interrogazione sul concetto di proprietà privata.
Esso si presenta su un terreno ambiguo sul quale gli elementi dell’attività
materiale ed immateriale (il lavoro fisico e quello intellettuale), le
dimensioni individuali e sociali, le qualità singolari e cooperative si scambiano
confusamente nei processi produttivi (tanto più in quelli di sfruttamento) – e
dove (come abbiamo ricordato) financo porzioni di capitale fisso sono di volta
in volta appropriate dalla forza-lavoro o strappate (estratte) dal comando
padronale alla metamorfosi del lavoro produttivo. Inoltre indipendenti processi
di soggettivazione funzionano all’interno di queste trafile dell’accumulazione
capitalista inducendovi originali eccedenze e/o innovazioni.
A questo punto c’è da chiedersi se il concetto di proprietà privata abbia
ancora ontologicamente senso. In realtà, il rapporto tra lavoro e proprietà
sembra ormai costituito, nella società a rete, quando le mura della fabbrica
cedono, quando il lavoro si raffigura tendenzialmente come relazione di servizio
e le connessioni produttive si distendono nella metropoli, quando il valore è
astratto dall’intero livello produttivo-sociale – bene, la proprietà privata
sembra essere divenuta concetto contingente, privo di necessità: sono infatti
la moneta, quindi il capitale finanziario e l’azione pubblica, che sembrano qui
stabilire ogni rapporto fra lavoro e comando (proprietà?).
Si realizza così una nuova convenzione proprietaria e la regola finanziaria
s’impone qui per ridefinire la proprietà. È il possesso di moneta – la
convenzione finanziaria – che si pone come norma regolatrice delle attività
sociali e produttive e, quindi, come accesso ad una “realtà proprietaria” alla
quale la confusione concettuale non toglie efficacia. La proprietà diventa
cartacea, monetaria o azionaria, mobile e/o immobiliare, ha natura
convenzionale e giuridica. André Orléan e Christian Marazzi hanno insistito
opportunamente su questa trasformazione. Si tratta di considerare la
convenzione finanziaria come un comando indipendente da ogni determinazione
ontologica: la convenzione fissa e consolida un “segno proprietario” (nei
termini della “proprietà privata”: vedi soprattutto Leo Specht) e
quand’anche contemporaneamente si presenti come “crisi”, come “eccedenza”
non semplicemente rispetto alle vecchie e statiche determinazioni del
valore-lavoro ma soprattutto in riferimento a quell’“anticipazione” e a
quell’“incremento” continui che gli sono propri nel confrontarsi con la
captazione finanziaria del valore socialmente prodotto e nell’operare alla sua
estensione sul livello globale, pure essa regge.
Sia chiaro quindi che, in questa nuova configurazione della regola
proprietaria, permane la base materiale della legge del valore. E tuttavia non
si tratta di lavoro individuale che diviene astratto, ma di lavoro
immediatamente sociale, comune, direttamente sfruttato dal capitale. La regola
finanziaria può porsi in maniera egemone perché nel nuovo modo di produzione
il comune è emerso come potenza eminente, come
sostanza dei rapporti di produzione, e va sempre più invadendo ogni spazio
sociale come norma di valorizzazione. Il capitale finanziario insegue questo
estendersi del profitto, cerca di anticiparlo, incalza la rendita mobiliare e
immobiliare e le anticipa come rendita finanziaria. Bene dice Harribey,
discutendone con Orléan, se il valore non si presenta più qui in termini
sostanziali, non si mostra neppure come una semplice fantasmagoria contabile: è
il segno di un comune produttivo, mistificato ma effettivo, che si sviluppa
sempre più intensivamente ed estesamente.
Meglio dunque che parlare di funzione sociale della proprietà, sarà forse
parlare delle proprietà sociali del lavoro poiché la funzione sociale della
proprietà sembra oggi esser rifluita verso il capitale fino a configurarsi come
sua figura finanziaria. Siamo immersi in questa struttura avvolgente ma anche
sommamente caotica.
Solo il riconoscimento delle proprietà sociali del lavoro può modificare
questo quadro. Ma noi non possiamo considerarle senza provare a sbrogliare una
serie di paradossi che l’attuale condizione dello sviluppo capitalista propone.
Quali paradossi? Che cosa s’intende per paradossi? Contraddizioni difficilmente
superabili in questo ambiente caotico. Esse sono sottoposte a governance
eccezionali nel tentativo, sempre criticamente insoluto, di ristabilire un
equilibrio concettuale e un’efficacia funzionale.
Ora, un primo paradosso riguarda la produzione e
consiste nel fatto che il capitalismo finanziario rappresenta la forma più
astratta e distaccata di comando nel momento stesso in cui concretamente
investe la vita intera. La “reificazione” della vita e l’“alienazione” dei
soggetti vengono prodotte da un comando produttivo che è – nel nuovo modo di
produrre, organizzato dal capitale finanziario – divenuto del tutto trascendente,
sopra una forza-lavoro cognitiva – che tuttavia, quando è obbligata a produrre
plusvalore, proprio perché cognitiva, immateriale, creativa, non immediatamente
consumabile, si rivela autonomamente produttiva.
Il paradosso si presenta in maniera piena quando si consideri che, essendo
la produzione essenzialmente fondata sulla “cooperazione sociale” (sia
informatica, sia nelle pratiche di cura, sia nei servizi etc.), la
valorizzazione del capitale non si scontra più semplicemente con la massificazione
del “capitale variabile” ma con la resistenza e l’autonomia di una moltitudine
che si è riappropriato di una “parte” del capitale fisso (presentandosi quindi,
se volete, come “soggetto macchinico”) e di una continua “relativa” capacità di
organizzare le reti lavorative sociali.
Questo paradosso e contraddizione contrappongono in maniera violentissima
il “capitale costante” (nella sua forma finanziaria) e il “capitale variabile”
(nella forma ibrida che assume avendo incorporato “capitale fisso”) – e quindi
tendenzialmente implementa la verticalizzazione del comando.
Il secondo paradosso è quello della proprietà. La
proprietà privata (quella che definiamo giuridicamente come tale) tende ad
essere assoggettata sempre di più alle figure della rendita. La rendita nasce
oggi essenzialmente da processi di circolazione monetaria che si effettuano nei
servizi del capitale finanziario e/o in quelli del capitale immobiliare –
oppure dai processi di valorizzazione che si realizzano nei servizi
industriali.
Ora, quando i beni (privati) si presentano come servizi, quando la
produzione capitalistica si valorizza essenzialmente attraverso i servizi, la
proprietà privata sfuma le sue tradizionali caratteristiche di “possesso” e si
rappresenta piuttosto come comando sulla (e/o sfruttamento della) cooperazione
che costituisce e rende produttivi i servizi.
Di qui deriva, per i cosiddetti poteri pubblici,
l’urgenza di manifestarsi (in maniera estrema, trascendente) come poteri sovrani – al fine di restituire alla
proprietà privata quella funzione valorifica e legale (giuridica) che la
trasformazione della produzione sociale tende a sottrarle. Ma, nelle società
postindustriali, la mediazione pubblica dei rapporti di classe risulta sempre
più difficile, perché la sovranità stessa è stata privatizzata
(patrimonializzata dal capitale finanziario) per la stessa ragione per la quale
la proprietà privata si è dissolta, è divenuta non più possesso ma uso di un
servizio. Così il pubblico sovrano non si scontra più con le corporazioni, i sindacati,
le istanze collettive del lavoro (che si rappresentavano essi stessi come
soggetti privati), ma con la cooperazione e la circolazione sociale di figure
che si compongono e si ricompongono continuamente nella produzione materiale e
nella produzione cognitiva: insomma, con quello che chiamiamo “comune”. Non è
dunque solo la progressiva “patrimonializzazione privata” dei beni pubblici che
distrugge l’istituto della pubblica proprietà ma anche la dinamica ontologica
che, a seguito della dissoluzione del privato, questa mette in moto: vale a
dire la deriva continua della gestione del pubblico nell’emergenza, lo
scivolamento dell’emergenza nella corruzione, la distruzione del comune nel
potere di eccezione.
Il pubblico sovrano si pone ormai solo in maniera paradossale e piuttosto
si dissolve a fronte del comune che emerge, appunto, all’interno dei processi
di produzione sociale e nella cooperazione valorizzante. Quando ancora compare,
il pubblico sovrano, si tratta di una pura mistificazione del comune.
Il terzo paradosso è quello che il biocapitale verifica nel suo confronto
con i corpi dei lavoratori. Qui lo scontro, la
contraddizione, l’antagonismo si fissano quando il capitale (nella fase
postindustriale, nell’epoca in cui diviene egemone il capitale cognitivo) deve
mettere direttamente in produzione i corpi umani facendoli diventare macchine,
non più semplicemente merce-lavoro. Così (nei nuovi processi di produzione)
sempre più efficacemente i corpi si specializzano e conquistano autonomia
sicché, attraverso la resistenza e le lotte della forza-lavoro macchinica, si
sviluppa sempre più espressamente la richiesta di una produzione dell’uomo per
l’uomo, cioè per la macchina vivente “uomo”.
In effetti, nel momento in cui il lavoratore si riappropria di una parte
del “capitale fisso” e si presenta, in maniera variabile, spesso caotica, come
attore cooperante nei processi di valorizzazione, come “soggetto precario” ma
“autonomo” nella valorizzazione del capitale, si dà una completa inversione
nella funzione del lavoro rispetto al capitale: il lavoratore non è più solo lo
strumento che il capitale usa per conquistare la natura – che vuol dire
banalmente produrre merci; ma il lavoratore, avendo incorporato lo strumento,
essendosi metamorfosato dal punto di vista antropologico, riconquista “valore
d’uso”, agisce macchinamente, in un’alterità ed autonomia dal capitale, che
vogliono divenire complete. Tra questa tendenza oggettiva e i dispositivi
pratici di costituzione di questo lavoratore macchinico, si colloca quella
lotta di classe che ormai possiamo dire “biopolitica”.
Tutti e tre questi paradossi restano irrisolti nell’azione del capitale. Di
conseguenza, quanto più la resistenza diviene forte, tanto più diventa duro il
tentativo di restaurazione del potere da parte dello Stato. Ogni resistenza
viene quindi condannata come esercizio illegale di contropotere, ogni
manifestazione di rivolta viene definita devastazione e saccheggio. Ulteriore
paradosso – ma questa volta è pura mistificazione – nell’esercitare il massimo
di violenza, il capitale ed il suo Stato hanno la necessità di mostrarsi come
figura inevitabile e neutra: il massimo della violenza è esercitato da
strumenti e/o da organi “tecnici”. “Non c’è alternativa”, proclamava la
Thatcher.
Come agire politicamente dentro questi paradossi? Confrontandosi al
“paradosso della produzione”, si tratta fondamentalmente di sviluppare
“autovalorizzazione”, riappropriandosi progressivamente, sempre più
decisamente, del capitale fisso impiegato nei processi produttivi sociali.
Resistenza, autovalorizzazione e appropriazione, dunque, contro il
moltiplicarsi delle operazioni di cattura-privatizzazione che vengono
sviluppandosi. Riappropriarsi del capitale fisso significa costruire “comune” –
comune contro l’appropriazione capitalista della vita, comune come sviluppo di
“usi” civici e politici, come capacità di gestione. Sapere e reddito sono
obbiettivi che qualificano in maniera fondamentale il proletariato cognitivo –
sono dall’inizio obbiettivi “politici” tanto quanto lo era l’aumento salariale
per il lavoratore industriale. (“La lotta contro la riduzione del salario
relativo [ e cioè oggi, per un reddito sociale] significa anche lotta contro il
carattere di merce della forza-lavoro, cioè contro la produzione capitalistica
presa nel suo insieme. La lotta contro la caduta del salario relativo non è più
una battaglia sul terreno dell’economia mercantile ma un attacco rivoluzionario
alle fondamenta di questa economia; è il movimento socialista del proletariato”
– Rosa Luxemburg).
È in questa rubrica che vanno riprese, studiate, e ripetute le esperienze
fatte nell’agitazione militante sui referendum per conquistare i “beni comuni”.
Confrontandosi poi al paradosso della proprietà, qui non sembrano darsi
altre vie che quelle che spingono al confronto ed allo scontro con i poteri
monetari e finanziari. Se la moneta è mezzo di conto e di scambio difficilmente
eliminabile, gli va tuttavia tolta la possibilità di essere strumento di
accumulazione di potere contro i produttori. Come si possono imporre alla Banca
centrale le finalità di una produzione dell’uomo per l’uomo, di piegarsi cioè
ad una configurazione biopolitica degli assetti sociali. Il problema non è
tanto quello di separare le “banche di deposito” da quelle “di investimento”,
quanto quello di dirigere risparmio ed investimento verso equilibri che
garantiscano la produzione dell’uomo per l’uomo. Questa è battaglia politica da
ingaggiare subito. Essa consiste – questa volta senza resipiscenze ideologiche
e senza indugi – nel rifiutare lagovernance monetaria
del biopotere, cioè nell’introdurre la possibilità di una rottura e
nell’imporle una dimensione “democratica”. Una “moneta del comune” è quella che
garantisce la riproduzione e la quantità di reddito necessario ad ogni
cittadino ed il sostegno alle forme di cooperazione che costituiscono la
moltitudine.
Torniamo ora sull’ultimo “paradosso”: quello “fra biocapitale e corpi” dei
lavoratori. Qui la contraddizione non è superabile se non con l’eliminazione di
uno dei due poli : e poiché il capitalista non può fare a meno del lavoratore
se vuole costruire profitto e poiché il lavoratore non è mai “nuda vita”, del
tutto manipolabile, ma è sempre “lavoro vivo”, il paradosso sarà superabile
solo eliminando il capitalista.
È dunque questo il terreno proprio della politica, il terreno della
decisione sugli indecidibili, con tutti i suoi andare e venire, stringersi ed
allargarsi, uccidere e far vivere, fascismo e democrazia. Questo dalla parte
del potere. Ma è anche il terreno costituente da parte dell’insieme dei
corpi-macchina, singolarissimi, mostruosi, nel loro agire. Per questi corpi far
politica è costituire “istituzionalmente” la moltitudine, cioè strappare le
singolarità alla solitudine ed istaurarle nellamoltitudine, ovvero
trasformare l’esperienza sociale della moltitudine in istituzione politica. Questo passaggio prende
materialmente il luogo di quell’operazione idealistica che colorava il concetto
di “coscienza di classe”. Ma deve anche superare il moderno modello borghese –
7, 8, e novecentesco – del rapporto fra potere costituente e potere costituito
– non perché l’azione costituente venga meno, ma perché non può più essere
chiusa nella ricostruzione dell’Uno del potere. Non si fanno rivolte per
prendere il potere ma per tenere sempre aperto un processo di contropoteri,
sfidando i dispositivi di cattura sempre nuovi che la macchina capitalista
produce. È su questo terreno che la rappresentanza sovrana va in crisi perché
(attratta nel meccanismo della sovranità, distillata nella puzzolente e magica
alchimia elettorale) non regge il confronto con la verità e la ricchezza della
nuova composizione sociale.
La mia impressione è che oggi (sul fronte costituzionale europeo), noi
dobbiamo innalzare contrafforti reali a fronte delle costituzioni neoliberali
che ci vogliono imporre. Una “controdemocrazia”, conflittuale, che viva di
rivendicazioni e protesta, di resistenza e di indignazione – basta con il
costituzionalismo “normativo”, abbiamo bisogno e costruiamo democrazie
biopolitiche, costituzioni economiche, materiali che non vivono e si
trasformano in macchine oppressive attraverso il filtro della legalità e della
formalità giuridica – ma si svolgono attraverso investimenti di “denaro
comune”, rivolti al continuo riequilibrio dei rapporti sociali, ponendo i
poveri al posto dei ricchi, e creando una vita piegata dall’uomo al servizio
dell’uomo.
E qui bisogna affermare chiaramente, alla faccia di tutti i Nobel
dell’economia, che anche una produttività crescente è solo frutto di una
società uguale e felice. Di una società del “rifiuto del lavoro”.
A questo punto, tuttavia, torniamo a noi. Cerchiamo di comprendere cosa
voglia dire, in questa nuova situazione, desiderare di essere proprietari, che
cosa possa essere – per un lavoratore, per ciascuno di noi – essere
proprietario. Tutto ciò, muovendo da una condizione lavorativa che si dà dentro
l’ambiente di connessioni o di reti, di servizi e di soggettivazioni che
abbiamo definito. Qui l’attività lavorativa è immediatamente immessa in una
rete cooperativa. Il lavoro del singolo può solo valorizzarsi – ma anche
semplicemente realizzarsi sul mercato – quando esso cooperi con altre
singolarità che partecipano del tessuto produttivo. Generalizzando, chiamiamo
questa comunanza attiva “moltitudine”, e cioè un insieme di singolarità
cooperanti; e notiamo che è quando si realizza una tale condizione di
cooperazione, che la moltitudine diviene produttiva.
Di qui l’osservazione che la costituzione produttiva della moltitudine si
svolge in maniera assai complessa. Ogni singolarità infatti si riappropria
nella cooperazione di una porzione specifica di capitale fisso, ma questa
riappropriazione può diventare produttiva solo quando sia immersa nella
struttura della cooperazione sociale.
Qual è dunque la pretesa ad un quantum di appropriazione che, una volta
immersa nella produzione sociale, il soggetto può esprimere? Il ricordo va ad
una polemica d’altri tempi fra Kelsen e Pashukanis, quando Kelsen,
interpretando il secondo, lo accusa di considerare tutto il diritto come
diritto privato. In effetti, Pashukanis assumeva ancora l’individualismo
possessivo come base (a partire dal diritto privato) dell’intera struttura giuridica
della società, e quindi considerava la sovranità come proiezione della
proprietà privata – tanto quanto, appunto, la proprietà privata era condizione
della sovranità. Ma è chiaro che queste relazioni assumevano in lui, in quanto
viveva politicamente la realtà del socialismo nascente, l’urgenza di trovare
nel lavoro del singolo cittadino, attraverso la domanda di proprietà privata,
il bisogno del comune. Ora, per noi, che quando esprimiamo desiderio
proprietario ci riferiamo alle strutture finanziarie come al concetto della
proprietà privata oggi, non facciamo che interpretare il bisogno di stare
insieme, di produrre insieme. Ed è in questo senso che probabilmente Harrington
et Winstanley vanno ripresi qui da noi.
Quando la finanza costituisce la totalità del lavoro sociale, in quanto
esso è dato come continuità relazionale nel tempo e nello spazio di un lavoro
mobile, flessibile, precario – l’istanza proprietaria rivendica al lavoro un
valore che consiste nella sua socializzazione.
Si noti qui che affermando questa relazione mutevole di lavoro e proprietà
nel formarsi del concetto e nello stabilirsi dell’ontologia del comune,
escludiamo ogni figura totalizzante, ogni nostalgia medievalizzante della
proprietà, privata o pubblica che sia – ma anche comune. È il lavoro che crea e
modifica la proprietà. La proprietà quindi non potrà più darsi come concetto
sostanziale, né il rapporto tra lavoro e proprietà potrà più fantasticarsi
come Gemeinschaft (così come in questa prospettiva non
possono darsi concetti come massa, popolo, nazione, ecc.).
Il paradosso della proprietà privata si scontra qui allora con la realtà
del comune. Un comune che non definisce più solo la dinamica delle forze
produttive, delle singolarità produttive immerse nella relazione sociale ma che
rappresenta anche (e rende istituzionale dal punto di vista monetario) quel
medesimo processo. C’è dunque un’ontologia, per così dire, “cattiva” del comune
che può manifestarsi come funzione monetaria della proprietà, come
massificazione anomica del lavoro e come identità populista delle soggettività;
ma c’è anche (e comincia a divenire potente nelle coscienze) una figura “buona”
del comune che si manifesta come desiderio di cooperazione moltitudinaria delle
singolarità impiegate nel processo produttivo, di democratizzazione a partire
dal basso delle attività di governo e di nuove costituzioni del vivere comune.
A me sembra che le conclusioni alle quali arrivo, possano essere
(facilmente) tradotte in quelle alle quali arriva Rodotà. Entrambi riteniamo –
credo – che il soggetto reclami il collettivo e la solidarietà – e pensiamo che
il collettivo è composto da singolarità (non massa, e cioè appiattimento delle
differenze, ma moltitudine e cioè composizione delle differenze). Se il comune
non vuol essere organico, se non vuole assumere un’essenza identitaria, deve
essere desiderato come uscita dalla solitudine, come produrre nella
cooperazione, come esistere nell’eguaglianza e nella solidarietà. Il diritto di
avere – di realizzare – diritti s’impianta – ha questa sorgente.
In questo senso possiamo riprendere il testo marxiano dal quale eravamo
partiti, verificando ancora una volta la potenza della sua intelligenza
rivoluzionaria. Possiamo infatti ora riconoscere al lavoro, trasformato
attraverso il lavoro, di essere divenuto il fondamento non dell’affermazione
della proprietà privata ma della sua soppressione, di aver tolto a quest’ultima
la capacità di essere fonte creativa di se stessa. La soppressione del lavoro
individualizzato e massificato a favore della singolarizzazione sociale e
cooperativa modifica interamente la realtà dell’organizzazione del lavoro. Sarà
nostro compito avanzare su questo terreno sociale per portare a chiarezza lo
svuotamento definitivo dei poteri legati alla proprietà privata.