di Claudio Gnesutta
Come conciliare i temi del lavoro con quelli del reddito? Proponiamo l'intervento conclusivo dell'ebook "Come minimo. Un reddito di base per la piena
occupazione" (Sbilibro9_Come_minimo.pdf 6,32 MB) che raccoglie gli interventi
pubblicati negli ultimi mesi sul sito www.sbilanciamoci.info.
Una traccia per proseguire il dibattito
La consegna alla Camera il 15 aprile scorso della
proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione del Reddito minimo
garantito [Santini, pag.13] è stata l’occasione per proporre sul sito
di Sbilanciamoci un dibattito sulle necessarie e opportune tutele del reddito
nelle attuali prospettive non tanto congiunturali quanto strutturali. Un
dibattito che ha trovato un momento di prima sintesi nella sessione “Lavoro,
welfare, conoscenza: come combattere le disuguaglianze sociali” all’interno
dell’XI Forum di Sbilanciamoci!, Europa disuguale, tenutosi a Roma il 6-8
settembre 2013.
L’urgenza di una riflessione politica a questo
riguardo è evidente dato che le esistenti forme di sostegno del reddito –
particolarmente carenti nel nostro Paese – manifestano tutta la loro
insufficienza in una fase di crisi prolungata, in un momento cioè in cui
maggiore è l’esigenza di garantire una tutela adeguata alle fasce sociali in
maggiore difficoltà (disoccupati, adulti espulsi dal mercato del lavoro,
esodati, lavoratori precari, giovani in cerca di lavoro e così via). Le
condizioni di fragilità di questi soggetti hanno profonde radici nei caratteri
strutturali di una crescita economica e sociale condizionata da processi di
delocalizzazione orientati dalla concorrenza sui bassi salari, da
un’innovazione tecnologica risparmiatrice di lavoro dai cui benefici sono
esclusi direttamente i lavoratori e indirettamente la maggior parte della
popolazione come effetto del contemporaneo ridimensionamento della capacità
redistributive dello Stato.
La questione dell’adozione di appropriate forme di
sostegno del reddito non poteva non ricollegarsi alla più generale questione
dell’occupazione in quanto fonte primaria di reddito. La mancata
risposta politica all’esigenza di una piena e buona occupazione è un vulnus,
ripetutamente sottolineato nel corso della discussione, alla nostra
Costituzione dove il “lavoro” – non inteso in senso stretto come “lavoro
salariato” – appare come un diritto politico, il fondamento del diritto
all’esistenza. Non poterne disporre è infatti fattore di esclusione dalla
cittadinanza in quanto, negando le condizioni per una vita dignitosa, genera
una situazione immorale e politicamente inaccettabile. Nel dibattito il termine
di “cittadinanza” è stato ampiamente utilizzato – in accordo con lo spirito e
con il dettato costituzionale – con un significato denso di qualità essendo la
dotazione “di un patrimonio di diritti inalienabili della persona in quanto
tale; un diritto non solo a sopravvivere, ma ad esistere come precondizione di
eguaglianza democratica” [Saraceno pag.116].
L’esistenza di risorse disoccupate (in primis del
lavoro) in presenza di ampi bisogni (sociali) insoddisfatti non è un fatto
legato alla crisi attuale; essa si configura come prospettiva di più lungo
periodo per cui il crescere delle disuguaglianze e l’estendersi della
precarietà del lavoro potrà costituire, se non adeguatamente contrastata, la
norma entro la quale dovrà convivere una quota non marginale della popolazione
attiva [Amari pag.45]. Le riflessioni sviluppate nel dibattito hanno
infatti avuto come sfondo comune la consapevolezza, e la preoccupazione, di
vivere una situazione di profonda trasformazione sociale nei confronti della
quale il nostro sistema politico si segnala per l’incapacità di prospettare un
futuro in cui si sviluppino adeguate opportunità per rapporti “decenti” di
lavoro.
Si è detto che non si tratta di un contesto che la
crisi ha fatto emergere improvvisamente, ma che è una questione sulla quale da
un paio di decenni avrebbero dovuto utilmente confrontarsi le diverse opzioni
di politica economica e sociale. Lo testimonia l’ideale collegamento, esplicito
in alcuni interventi e implicito in altri, con quel corpo di riflessioni che,
nell’ultimo scorcio del precedente secolo, hanno posto la questione di come
interpretare e di come fronteggiare le trasformazioni in atto nelle relazioni
di lavoro post-fordiste all’interno di una prospettiva di “fine del lavoro
(salariato)”. L’avere avuto sullo sfondo quel dibattito ha permesso che i
contributi non si schiacciassero sulle condizioni correnti segnate da una
prolungata crisi irrisolta, ma avessero ben presente le dimensioni storiche e
strutturali che si pongono quando la questione del lavoro è collocata
nell’alveo di un processo che sta strutturando la società futura. Non
meraviglia, anzi ne è un elemento degno di apprezzamento, che i diversi
approcci al rapporto reddito-lavoro facciano di fatto riferimento a prospettive
diverse di società future anche perché ciò non ha impedito che il confronto si
concentrasse sulla ricerca di possibili azioni a difesa delle condizioni dei
settori sociali più deboli; sul confronto di contenuto delle proposte avanzate
si è appunto convenuto di concentrare l’attenzione della presente sintesi.
Le incerte condizioni del lavoro
Appare ampiamente condivisa la valutazione che le
condizioni strutturali e istituzionali delle relazioni produttive e dei
rapporti contrattuali attualmente esistenti prospettano una crescita del Pil
nel medio-lungo periodo del tutto insufficiente a garantire un’occupazione
all’intera forza-lavoro disponibile.
Il prevedibile ridotto tasso di crescita del Pil e la
presumibile crescita del prodotto per ora lavorata necessaria per mantenere
un’adeguata competitività estera implica inevitabilmente che l’occupazione, in
termini di numero di ore di lavoro, non sia destinata ad aumentare
significativamente nei prossimi decenni. Di conseguenza, ferma rimanendo
l’attuale struttura contrattuale del rapporto di lavoro (a tempo pieno e con
un’accentuazione del ricorso allo straordinario), non ci si può attendere un
aumento del numero degli occupati per cui il tasso di occupazione delle persone
rimarrà fissato all’attuale livello insoddisfacente. Il perdurare di un
sistematico eccesso di offerta sulla domanda di lavoro non può che generare una
strutturale pressione negativa sulle condizioni, salariali e normative, di una
larga quota di lavoratori e induce a ritenere che plausibilmente solo una quota
della popolazione (presumibilmente inferiore a quella attuale) avrà
l’opportunità di un impiego “decente”, salariato o autonomo [Gnesutta
pag.25, Gattei pag.36]. La precarietà delle condizioni di lavoro – non
solo per il reddito, ma anche per la un’occupazione frammentata nel tempo –
prospetta una società “duale” con uno scarto tra uno strato sociale funzionale
alle esigenze del sistema produttivo che gode di condizioni di lavoro e di reddito
appaganti e un’ampia area di soggetti che, per le minori risorse sociali e
culturali, sono destinati a una vita di insicurezza economica. Ancor più
subordinata economicamente e socialmente appare quella parte di popolazione
(presumibilmente superiore a quella attuale) che – per inabilità fisica, per
incapacità personale, per vincoli sociali – è permanentemente esclusa dal
lavoro remunerato e quindi esposta a condizioni di povertà (relativa e
assoluta).
Dato per acquisito [Gattei pag.36] che non
sia moralmente accettabile una situazione discriminatoria di tali dimensioni,
la questione si sposta sulle possibili forme di intervento che possano impedire
che a un così ampio numero di persone venga sistematicamente negato il diritto
a una esistenza dignitosa. Non mancano a questo riguardo, peraltro più sulla
carta che nella nostra concreta esperienza nazionale, gli strumenti per
fronteggiare le molteplici situazioni critiche: povertà; inoccupazione,
disoccupazione, precarietà. L’esistenza di difficoltà soggettivamente diverse
ha prodotto nel tempo una variegata tipologia di strumenti specifici – come
integrazioni di reddito o come sostegno all’occupazione – a seconda della
difficoltà da contrastare che può essere utile richiamare secondo la loro finalizzazione.
I possono distinguere gli interventi a seconda siano direttiti a:
-sostenere il reddito degli esclusi dal mercato del
lavoro. Tutti quegli interventi a favore di coloro ai quali, per ragioni
personali e sociali, è preclusa la partecipazione al mercato del lavoro e di
conseguenza non dispongono di un reddito che ne permetta la sussistenza fisica
(inabili parziali e totali; poveri relativi e assoluti) [Travaglini
pag.16, Del Bò pag.33] o quella morale (casalinghe, minori) [Granaglia
pag.22]. Per fronteggiare queste situazioni, si ricorre a una varietà di
sussidi a specifiche categorie (poveri, anziani, famiglie numerose, ecc.)
erogati ex-post una volta accertata la sussistenza della situazione e
condizionati al permanere delle condizioni di difficoltà.
-promuovere la domanda di lavoro. Maggiori redditi per
l’insieme dei lavoratori possono essere ottenuti attraverso un’aumentata
occupazione. A tale fine è essenziale attivare una domanda pubblica o
sovvenzionare (fiscalmente) quella privata con la predisposizione di specifici
progetti (ad esempio, piani per l’occupazione [Pennacchi pag.62])
possibilmente orientati alla produzione di beni “utili” in grado di soddisfare
bisogni individuali e sociali che altrimenti rimarrebbero inevasi [Lunghini
pag.67]. Trattandosi di interventi finalizzati alla “buona” e “piena”
occupazione, essi richiedono una capacità organizzativa che eviti la creazione
di “cattiva” occupazione.
-garantire un reddito nel caso di perdita del lavoro.
In situazioni di instabilità produttiva, ciclica o settoriale, i soggetti che
perdono l’impiego rimarrebbero privi di reddito se non potessero accedere a
varie forme di sussidio (di disoccupazione, di mobilità, cassa integrazione
ecc.) che garantisca loro la sussistenza nel periodo più o meno lungo di
inattività nella ricerca di un nuovo impiego. Anche in questo caso si tratta di
un sostegno economico concesso ex-post a specifici soggetti (lavoratori
precedentemente occupati, ma non tutti), limitato nel tempo e variamente
condizionato alla ricerca e accettazione di un nuovo lavoro.
-rafforzare la contrattazione salariale (individuale e
collettiva). La forte asimmetria tra lavoratore e datore di lavoro nella
contrattazione può tradursi, per i lavoratori in attività ma soprattutto per
quelli che ambiscono a entrare sul mercato, in una flessibilità verso il basso
della remunerazione e delle condizioni normative che può eccedere i livelli
minimi di accettazione sociale. Per contrastare posizioni di forza che possono
risultare vessatorie si può prevedere la fissazione di un salario minimo
(garantito) al quale la contrattazione individuale non può derogare.
-ridurre l’orario di lavoro. La crescita della
produttività del lavoro (il minor tempo necessario a produrre una unità di
merce) invece di tradursi in un maggior reddito di chi partecipa al processo
produttivo potrebbe tradursi in una riduzione dell’orario di lavoro. Il fatto
che l’evoluzione della produttività del lavoro a livello di impresa dipenda
anche da fattori ad essa esterni, implica che l’incremento di produttività
debba essere valutato a livello dell’intero sistema per cui la riduzione degli
orari (a parità di salario) andrebbe fissata anch’essa a livello
macroeconomico; i beneficiari di un tale intervento sarebbero tuttavia
esclusivamente i lavoratori occupati.
-fornire un reddito di base. Considerato che la
crescita della produttività del lavoro è un fattore sistemico (legato a
determinanti tecnologiche, infrastrutturali, istituzionali), la parte del
valore aggiunto delle imprese che deriva dalla disponibilità di questi fattori
sociali (e che essa internalizza) dovrebbe costituire un “dividendo sociale” da
distribuire all’intera popolazione [Gnesutta1 pg.25, Granaglia 2 pag.99] nella
forma di un reddito di base di cui avrebbe diritto ciascun “cittadino” per la
sua semplice appartenenza al corpo sociale; erogato con continuità; a priori e
indipendentemente dalla partecipazione all’attività produttiva; incondizionato
in quanto svincolato dalla richiesta di controprestazioni.
La pluralità delle situazioni indica che i soggetti
non sono tutti uguali in quanto non godono delle medesime opportunità; si pone
pertanto il problema di come e quanto intervenire per garantire il diritto a
esistere dignitosamente. Va peraltro osservato che la frammentazione delle
misure di intervento finiscono con il fissare in figure sociali distinte – con
una contrapposizione di interessi e una gerarchia degli interventi – quelli che
sono più spesso dei momenti diversi di difficoltà nella vita di una stessa
persona la quale ha l’esigenza di una continuità nel flusso di reddito nel
tempo per poter sopravvivere dignitosamente.
Lavoro e reddito per una cittadinanza
Nel dibattito è stata centrale la convinzione che il
lavoro sia un valore per la crescita umana e che estendere la sua disponibilità
significhi non solo garantire un reddito alle persone, ma contribuire alla loro
dignità personale. Va precisato che il riferimento al “lavoro” non si esaurisce
in quello salariato per la produzione di merci e di valori d’uso, ma si estende
anche ad attività non remunerate svolte all’interno delle famiglie e del
volontariato, essenziali per fornire quei “beni” che il mercato non è in grado
e non intende soddisfare [Lunghini pag.67]. Non è sufficiente inoltre
il puro e semplice aumento del numero degli occupati, ma occorre che ciò
avvenga arginando la spinta a una flessibilità senza controllo al fine di
garantire condizioni di lavoro dignitose (un “lavoro decente”) implicito
nell’obiettivo di perseguire una “piena e buona occupazione”. Infine, il
riferimento alla “buona occupazione” non è limitato alla sola qualità delle
condizioni di lavoro individuali, ma riguarda anche le finalità dell’attività
lavorativa che va orientata in modo da rendere disponibili beni e servizi
socialmente apprezzabili.
Sebbene lavoro e reddito costituiscano due dimensioni
dello stesso processo, nell’immaginare come contrastare le tendenze che hanno
investito le relazioni di lavoro sono state formulate proposte di intervento
che, nello sviluppo del dibattito, si collocano lungo due assi distinti: quello
che privilegia un intervento diretto alla creazione di lavoro in
contrapposizione a quello che privilegia la concessione di un reddito [Carra
pag. 92]. Si tratta di due approcci che riflettono due visioni diverse
della posizione del lavoro salariato nella società e, per quanto entrambe
intendano fornire una risposta alla questione della “cittadinanza”, ovvero al
diritto di chiunque di godere di condizioni di vita dignitose, esse sono
significativamente diverse nel modo di affrontare il problema. È infatti emersa
la contrapposizione – utilizzando espressioni presenti nel dibattito – tra il
lavoro di cittadinanza e il reddito di cittadinanza: Una contrapposizione netta
tra una prospettiva, la prima, che subordina il reddito al lavoro promuovendo
l’aumento dell’occupazione con “piani del lavoro”e, la seconda, che subordina
il lavoro al reddito, che mira a una redistribuzione delle ore lavorate
attraverso la riduzione degli orari di lavoro integrando il minore reddito con
un reddito di base. Diversa è la valutazione politica e morale a seconda che
con il lavoro si acquisisca il diritto al reddito o che con il reddito si
acquisisca il potere di scegliersi il lavoro; ma ciò che questa alternativa
mette in luce è la prospettiva pragmatica che l’aggancio tra lavoro e reddito
non è univoco [Carra]. È quindi utile soffermarsi sulle differenti
prospettive di intervento.
Nella direzione di un “lavoro di cittadinanza"
Prevedere un sostegno a un lavoro dignitoso per
disporre di un corrispondete reddito implica mettere al centro dell’agenda
politica l’idea e la prassi che la cittadinanza è garantita da una piena
occupazione realizzabile attraverso progetti (piani del lavoro quali quelli del
New Deal [Pennacchi pag. 62, Airaudo pag. 125]) che generino direttamente
una domanda aggiuntiva di lavoro [Gallino pag. 59]. La “nuova”
occupazione dovrebbe riguardare non solo gli attuali disoccupati, gli espulsi
dall’attività produttiva e quelli in cerca di primo impiego, ma anche quegli
inoccupati che non si presentano sul mercato del lavoro perché consapevoli di
non avere, nelle attuali condizioni, alcuna opportunità di impiegarsi.
È una forma di intervento che deve integrarsi, come si
è già detto, con almeno due altre condizioni: che si tratti di “buona”
occupazione per i lavoratori e che essa sia “buona” anche perché finalizzata
alla produzione di utilità per la società in quanto rivolta alla riproduzione e
crescita di quelle risorse (capitale naturale, sociale e umano) che sono a
fondamento del progresso e della stabilità sociale [Airaudo pag. 125]. Lo
spazio ideale e pratico di iniziative basate sul “lavoro di cittadinanza” [Pennacchi
pag. 62] è quello di “occupare quella terra di nessuno dell’economia e
della società” – attualmente coperto dal volontariato, associazionismo,
movimenti ambientalisti, cooperative, centri sociali – che affrontano la
questione “troppe merci, poco lavoro” e realizzare quei beni in grado di
soddisfare i bisogni sociali assoluti che non sono presi in considerazione dal
mercato [Lunghini pag. 67].
Una condizione essenziale per il lavoro di cittadinanza
appare essere il sostegno dell’amministrazione pubblica e ciò richiede il
coinvolgimento di forze politiche nella condivisione degli obiettivi e quello
di un governo “sensibile” in grado di sostenere con istituzioni appropriate
l’attuazione del piano [Lunghini].
Non va trascurato che, a meno di ridimensionare
l’intervento a una dimensione puramente congiunturale, la proposta del lavoro
di cittadinanza deve integrarsi con gli altri interventi di stabilizzazione del
mercato del lavoro se si intende garantire l’obiettivo qualificante di un
“salario decente” [Santini pag. 13]. L’obiettivo di “piena e buona”
occupazione rischia di non trovare un’adeguata soluzione strutturale se manca
la definizione contrattualizzata di un salario minimo; se è carente il sistema
di ammortizzatori sociali; se è assente la garanzia di un reddito minimo per
coloro che risultano strutturalmente esclusi dal mercato del lavoro
[Pennacchi]. Volendo favorire l’espansione del reddito attraverso l’espansione
dell’occupazione è inevitabile che l’intero complesso delle forme di sostegno
del reddito (reddito minimo, ammortizzatori sociali ecc.) ne risulti
condizionato, anche nella sua durata temporale, dall’obbligo di ricerca di
un’occupazione (la conseguente “prova dei mezzi”).
Il lavoro di cittadinanza richiede quindi una
struttura istituzionale complessa che è tanto maggiore quanto maggiori sono le
difficoltà e più lunghi i tempi per conseguire un’occupazione “piena” (qualora
tale termine non sia tautologicamente inteso come “massima occupazione
possibile”); questo in una realtà produttiva e sociale che vede accresciute ed
estese le forze di lavoro sovraistruite, anche grazie al contributo della
componente femminile.
Nella direzione di un reddito di cittadinanza
L’orientamento alternativo di sostenere un reddito
dignitoso per garantire la ricerca di un lavoro di analoga qualità rispecchia
la necessità di favorire la cittadinanza “reale” espandendo il numero degli
occupati ricorrendo a una ridistribuzione del lavoro tra occupati e inattivi attraverso
un’estensione dei contratti di lavoro a tempo ridotto. Per non influire sul
costo del lavoro, orari più contenuti richiedono una corrispondente riduzione
dei salari; per evitare che i redditi dei salariati si riducano al di sotto di
livelli accettabili di sussistenza, occorre integrarli con un adeguato sussidio
generalizzato [Gattei pag. 36]. Redistribuzione del lavoro e
redistribuzione del reddito si completerebbero al fine di garantire condizioni
di vita dignitose a un più ampio numero di persone in cerca di lavoro.
Affinché l’obiettivo di aumentare gli occupati a
orario ridotto possa risultare accettabile sia alle imprese che ai lavoratori
occorre che si possa garantire alle prime un costo del lavoro inferiore a
quello attualmente sostenuto e ai secondi un reddito superiore alle attuali
condizioni precarie. Per quanto riguarda le imprese, ciò si può realizzare
attraverso un diverso carico fiscale e contributivo sui contratti di lavoro a
seconda della loro durata, alleggerendolo per quelli a orario contenuto e
aggravandolo per quegli di più lunga durata [Nascia pag.87]. Per il
lavoratore il vantaggio sarebbe costituito dal “diritto” a un reddito esente da
ogni onere fiscale e contributivo indipendentemente dalla prestazione
lavorativa, la cui continuità in caso di interruzione del rapporto di lavoro è
assicurata dall’intervento pubblico [Gnesutta2 pag. 85]. L’interesse
dell’impresa all’abbattimento fiscale favorirebbe inoltre l’emersione del
lavoro sommerso, soprattutto se fosse accompagnato da significative sanzioni [Gnesutta1
pag. 25].
Per svolgere la sua funzione, il sussidio deve
riguardare tutti gli occupabili (sia effettivi che potenziali) ed essere
cumulabile con il reddito da un’attività di lavoro; deve quindi essere
tendenzialmente universale e incondizionato. Intorno a questo reddito di base
andrebbero ristrutturati tutti gli altri interventi non come espressione di
specifiche situazioni, ma come riconoscimento di un diritto e come norma
sociale, fornendo una base unica per la maggior parte degli interventi
assistenziali inclusi i sussidi per la povertà e le prestazioni sociali minime.
Svolgerebbe inoltre la funzione di minimo salariale, dato che influenza il
salario di riserva del lavoratore (il livello minimo di reddito oltre il quale
egli non ha convenienza a scendere nella contrattazione dell’impiego)
permettendogli un (minimo) potere di contrattazione qualora le condizioni di
lavoro offerte dovessero risultare vessatorie [Gnesutta1]. Ne potrebbe
risultare un contenimento dell’insicurezza nei rapporti di lavoro e un
rafforzamento della contrattazione sindacale. Non va trascurato che la sua
incondizionalità permetterebbe di alleggerire i compiti dell’apparato
amministrativo.
Se l’esistenza di un reddito di cittadinanza (nella
specifica forma qui indicata) rafforza la capacità contrattale del singolo, il
fatto di essere incondizionato non garantisce che la libertà di scelta del
lavoro si traduca in un’attività produttiva e comunque non necessariamente in
quelle qualitativamente auspicabili; per stimolare le scelte individuali in
questa direzione occorrono specifiche opportunità offerte dalla pubblica
amministrazione o dalla società civile. Non va trascurato inoltre che, in
presenza di un reddito di base, i soggetti possono privilegiare forme autonome
di impiego, volte o meno alla autovalorizzazione dei propri talenti [Gnesutta1
pag. 25] e, se ciò dovesse essere valutato positivamente, richiederebbe di
omogeneizzare il trattamento fiscale e contributivo di questi lavori a quelli
del lavoro salariato a orario diversificato.
Una società in trasformazione
Muoversi nella direzione di un lavoro di cittadinanza
o di un reddito di cittadinanza riflette una differente visione della realtà
economica e della società che si vuole costruire. La contrapposizione tra i due
indirizzi è, anche da quanto è emerso dal dibattito, tutt’altro che “tecnica”;
essa si manifesta esplicitamente sia nella diversa visione politico-morale
sulla responsabilità dell’individuo nei confronti della società [Granaglia1
pag. 22], sia nella scelta del soggetto istituzionale sul quale fare
affidamento per realizzare l’obiettivo (di lavoro e di prodotto) in termini
qualitativi.
Scontata la giustificazione del ruolo redistributivo
di pertinenza dell’agente pubblico [Del Bò pag. 33], la diversa
visione politico-morale si esprime nella contrapposizione tra un reddito che
proviene (nel lavoro di cittadinanza) dalla diretta partecipazione alla
produzione di valore sociale e un reddito del tutto svincolato da un diretto
impegno produttivo nel caso del reddito di cittadinanza. Nel primo caso è
evidente lo scambio tra la società che fornisce i mezzi di sussistenza al
singolo individuo e la controprestazione di questi attraverso una diretta
produzione di valore sociale; nel secondo caso al reddito erogato come diritto
non corrisponde alcuna controprestazione diretta per la produzione di nuovi
beni.
Il sostegno al lavoro di cittadinanza esprime un’etica
del lavoro, ovvero la considerazione che l’inserimento nel mondo del lavoro è
fattore determinante per il riconoscimento, prestigio e indipendenza
individuale in quanto contribuisce alla consapevolezza dei singoli di
contribuire direttamente al benessere sociale e ne rafforza il senso della
responsabilità individuale e l’identità sociale [Pennacchi pag. 62]:
l’occupazione è un presupposto per lo sviluppo della democrazia [Lunghini
pag. 67]. Tuttavia la condizionalità di questa forma di intervento sembra
assumere implicitamente che i soggetti in difficoltà sono tendenzialmente degli
incapaci che vanno quindi pressati da forme di welfare-to-work, in un contesto
peraltro in cui paradossalmente si contraggono le opportunità di lavoro [Saraceno
pag.116].
L’ipotesi di un reddito di cittadinanza assume che i
cambiamenti registrati dal capitalismo hanno modificato la relazione tra lavoro
e non lavoro [Fumagalli e Vercellone pag. 111] permettendo alle
imprese di appropriarsi delle esternalità risultanti dai processi sociali di
cura e di acculturazione attraverso forme intollerabili della precarizzazione
del lavoro [Lucaroni pag. 40]. È la produttività sociale non pagata
dall’impresa che giustifica il diritto del cittadino a vedersi riconosciuto un
reddito incondizionato; un reddito che gli permetta la “scelta” del proprio
lavoro [Fumagalli pag. 82] tra quelle “attività di formazione, di
autovalorizzazione, di lavoro volontario nelle reti dell’economia sociale e
delle comunità di scambio dei saperi” che sono del resto il fondamento di quel
capitale sociale di cui si avvantaggiano indirettamente le imprese. È peraltro
il flebile legame tra sussidio e crescita di queste risorse che rende
discutibile la sua incondizionalità che, lasciando irrisolto il meccanismo per
identificare e affrontare i bisogni sociali insoddisfatti [Lunghini], può
indurre a un parassitismo di massa certificando l’emarginazione dei beneficiari [Pasetto
pag. 107] con l’effetto finale di legittimare la loro attuale
inaccettabile situazione [Pennacchi].
Il pericolo a suo tempo evocato di una società
“dualizzata” per la sua polarizzazione nel settore “ricco” del lavoro salariato
e in uno che, esterno a tale rapporto, è sussidiato per una vita “buona” non
sembra attualmente molto realistico. Aleggia piuttosto nel dibattito la
preminenza che è venuta ad assumere una terza area sociale che sfortunatamente
non ha la possibilità di accedere né al polo della vita “ricca” né a quello
della vita “buona” in quanto si presenta debole economicamente per
l’impossibilità di farsi valere sul mercato del lavoro e fragile socialmente
per l’incapacità di ridefinire stili di vita e modelli di consumo alternativi a
quelli imposti dal modello dominante. Un settore sociale dal quale vengono
abbondantemente attinte quelle forze di lavoro precarie che garantiscono la
transizione del nostro modello sociale verso una società di crescenti
disuguaglianze.
La visione del processo sociale che è alla base della
diversa valutazione politico-morale delle due alternative, si riflette anche
nell’individuazione di quali siano le istituzioni che possono promuovere la
trasformazione qualitativa dei processi produttivi e della struttura dei
consumi che esse perseguono. Mentre i piani legati al lavoro di cittadinanza
richiedono una forte direzione pubblica, nel caso del reddito di cittadinanza
il peso maggiore è lasciato alle relazioni e istituzioni della società civile.
L’esperienza del New Deal e la drammaticità della
situazione presente inducono a riporre nel soggetto pubblico la speranza che
esso sia uno strumento dell’interesse collettivo in grado, attraverso
appropriate istituzioni anche innovative, di operare come datore di lavoro di
ultima istanza [Airaudo pag. 125]. È in questa capacità interventista
e programmatoria, orientata da politiche mirate e concrete, che trova
giustificazione la preferenza espressa per un intervento pubblico in un quadro
di cooperazione tra le forze sociali [Gallino pag. 59, Pennacchi pag. 62]. Si
spiega anche il sospetto per ogni opzione fondata su trasferimenti monetari
che, in quanto indifferenziati, appaiono una semplice compensazione
deresponsabilizzante [Pennacchi].
Sulla plausibilità di un intervento pubblico
necessariamente positivo non vi è però unanimità. A parte il fatto che non
mancano esperienze del passato poco incoraggianti – sono stati ricordati i
“lavori socialmente utili”[Airaudo] –, è diffuso lo scetticismo sulla
possibilità che, nell’attuale contesto di strutturale “austerità”, esso possa
esprimere un’adeguata iniziativa per intensità e per durata corrispondenti alla
gravità del problema. Il rapporto tra Stato e Lavoro, che pur tanta rilevanza
ha avuto nel passato, appare una prospettiva difficilmente praticabile
nell’attuale fase storica [Mazzetti pag. 71] non solo per un clima
che esalta i vincoli di bilancio, ma soprattutto per i molti dubbi che
l’amministrazione pubblica possa costituire quella macchina efficiente sulla
quale poter fare affidamento per una risposta positiva alle esigenze del mondo
del lavoro [Lucaroni pag. 40].
Più diffusi sono i soggetti di quella cooperazione
sociale alternativa che, sostenuti da un reddito di cittadinanza, dovrebbe
garantire la manutenzione e lo sviluppo del capitale cognitivo e quindi delle
risorse produttrici del ben-essere. Si fa affidamento in questo caso sulla
libera scelta di attività di autovalorizzazione per garantire, al di fuori di
un piano preordinato, livelli adeguati non solo alla produzione mercantile ma
anche alla promozione di quei valori di solidarietà in grado di soddisfare
parte dei bisogni sociali trascurati dal mercato. Per quanto si supponga di
poter ottenere tale risultato in maniera indipendente da un intervento
pubblico, la realizzazione e il mantenimento nel tempo di tale diritto di base
dipende comunque da un rapporto con lo Stato, soprattutto se rimane in campo
pubblico – come deve rimanere – la gestione di quelle risorse (istruzione,
sanità, e beni comuni) così essenziali per il capitale cognitivo [Fumagalli
pag. 82]. Non va inoltre sottovalutata la necessità che l’amministrazione
pubblica stimoli il lavoro “liberato” a partecipare a programmi di produzione
di valori d’uso e di valorizzazione delle risorse sociali. L’intervento
pubblico, sgravato dagli interventi di contrasto delle situazioni di maggiore
precarietà, avrebbe la possibilità di snellirsi e di riqualificarsi su
obiettivi di provata rilevanza. Il raccordo tra le due istituzioni – del lavoro
pubblico e del lavoro liberato – richiede, pertanto e di necessità, la
costruzione di forme organizzative che vadano oltre lo stretto rapporto
Stato-mercato per valorizzare socialmente tutte quelle attività della società
civile in grado di produrre valore sociale [Carra pag. 92].
La questione della distribuzione tra lavoro
capitalistico, faticoso e alienante, e lavoro liberato, “leggero” e appagante,
rimane certamente problematica per quanto riguarda la possibilità di garantire,
da un lato, che la scelta tra le due modalità sia aperta a tutti [Amari pag.
45] e, dall’altro lato, che la distribuzione tra i due lavori rispetti le
esigenze dell’equilibrio e della stabilità macroeconomica, dato che, come si
sosterrà qui di seguito, in un’economia monetaria il livello del reddito di base
non è indipendente dal livello della produzione di merci [Mazzetti2 pag.
77].
Lavoro e reddito: l’inevitabile conflitto
redistributivo
Tutte le forme di sostegno del reddito richiedono di
essere finanziate. Se, come si sostiene correttamente, le risorse alle quali
attingere non possono che provenire dall’eccesso di valore prodotto dai
lavoratori nel settore capitalistico (nella produzione di merci), la
comprensione del processo di redistribuzione del reddito monetario richiede di
esplicitare la circolazione monetaria a livello dell’intero sistema [Fumagalli
e Vercellone pag. 111]. Per seguire come si sviluppa tale processo è utile
individuare la struttura dei flussi monetari che collega tra loro: (a) i
lavoratori del settore delle merci; (b) i lavoratori del settore pubblico; (c)
i lavoratori del terzo settore (società cooperative, fondazioni, onlus,
associazioni di volontariato, alcune imprese sociali for profit [Pasetto
pag.107]); (d) i soggetti che, benché non-occupati, godono di prestazioni
sociali (pensioni) o di altri sussidi, inclusi quelli di disoccupazione [Mazzetti1
pag.71 e Mazzetti2 pag.77]. L’insieme di tutti questi soggetti non
esaurisce l’intera popolazione, rimanendo esclusa, oltre ai percettori di
redditi da capitale (profitti e rendite), un’ampia fascia di cittadini
(casalinghe, bambini, disoccupati “mancati” ecc.) che non dispone né di
un’occupazione retribuita, né di un reddito alternativo.
Alla base della circolazione monetaria vi è il
prodotto (monetario) del settore delle merci. Il flusso monetario che
scaturisce dai ricavi del settore permette di remunerare i lavoratori in esso
impiegati e l’“eccedenza” si ripartisce tra il settore pubblico (nelle varie
forme di prelievo fiscale e di contributi previdenziali e assistenziali) e i
percettori di reddito di impresa (profitti e varie forme di rendita).
Il reddito monetario dei lavoratori privati (al netto
ovviamente delle imposte) finanzia la loro spesa (e quella dei famigliari) per
il consumo di merci e dei servizi venduti dal settore pubblico e dal terzo
settore. Il reddito monetario che affluisce al settore pubblico (dal settore
produttore di merci, dalla vendita di servizi pubblici alle famiglie e
dall’eventuale disavanzo pubblico) è utilizzato per attivare, attraverso il
lavoro degli impiegati pubblici, la produzione diretta di servizi pubblici, per
finanziarie l’attività del terzo settore per la produzione di valori d’uso e,
infine, per distribuire reddito a soggetti non produttivi (pensionati, inabili
ecc.) [Mazzetti2]. Il reddito monetario che affluisce al terzo
settore (dal settore pubblico, dalle famiglie e da altri soggetti) è impiegato
per attivare, attraverso lavoro remunerato, servizi utili che hanno valore
d’uso.
In sostanza, la moneta proveniente dal prodotto del
settore capitalistico (integrata dall’eventuale disavanzo pubblico) permette di
sostenere “a cascata” l’occupazione dei salariati privati (circuito 1),
l’occupazione dei salariati pubblici (circuito 2), l’occupazione del terzo
settore (circuito 3) e la sussistenza di alcune categorie di soggetti “non
produttivi” ritenuti socialmente meritevoli di sostegno.
Per quanto semplificata, una tale rappresentazione del
processo di circolazione monetaria permette di osservare: qualsiasi forma di
sostegno dell’occupazione o di sostegno del reddito (minimo o universale, per
attivare lavoro o per superare situazioni di inabilità o povertà, in forma
diretta di trasferimento monetario o in quella indiretta di attivazioni di
lavoro) va attinta dall’“eccedenza” di reddito monetario, ovvero dallo scarto
tra il prodotto (monetario) delle merci e la massa (monetaria) salariale
distribuita dal settore delle merci. Un aumento di queste disponibilità si può
realizzare esclusivamente con la contrazione del flusso o dei redditi da
capitale o dei redditi da lavoro o di una combinazione dei due [Lucaroni
pag.40]. In presenza di un aumento della produttività del lavoro,
l’“eccedenza (monetaria)” può aumentare solo se non si modifica la massa
monetaria dei salari e dei redditi da capitale.
Qualsiasi intervento che modifichi l’eccedenza
(monetaria) nel settore delle merci, modifica i flussi monetari che ne
discendono a cascata. L’equilibrio macroeconomico richiede peraltro che il
circuito monetario si chiuda attraverso il realizzo monetario della produzione (di
merci) come risultato della formazione di un’adeguata domanda complessiva (di
merci) da parte dei percettori dei redditi da capitale, dello Stato e
dell’estero che integri quella proveniente dai lavoratori dei tre circuiti [Gattei
pag.36].
Il valore del prodotto del settore delle merci, del
settore pubblico e del terzo settore determinano il valore del Pil. È noto che
il Pil è un indice inadeguato per rappresentare sia il “ben-essere” corrente di
una società, sia la ricostituzione delle risorse (capitale cognitivo, capitale
sociale, capitale naturale ecc.) necessarie a produrlo. Parte della produzione
di ben-essere (non contabilizzata nel Pil) proviene dal “lavoro non remunerato”
all’interno delle famiglie, dal volontariato, dalle attività di
autovalorizzazione, tutte sostenute comunque dal reddito monetario dei
lavoratori.
Per le precedenti considerazioni i processi di
redistribuzione del reddito (espressi dai circuiti 2 e 3) sono il risultato
della politica dei redditi e della politica di domanda. Processi redistributivi
diversi implicano differenti politiche economiche (più o meno conflittuali);
qualsiasi sistema di interventi a sostegno dell’occupazione o a sostegno del
reddito esprime “una” politica dei redditi (inclusa quella di lasciarla in
gestione al mercato) la quale include anche la politica di domanda che
determina la chiusura del circuito macroeconomico (e quindi l’eccedenza da
redistribuire).
Se qualsiasi redistribuzione del reddito è il
combinato di una politica dei redditi e di una politica della domanda, essa
implica oggettivamente una situazione conflittuale – e quindi la necessità di
governarla – tra coloro che beneficiano dei circuiti “a cascata” e i percettori
di redditi di impresa (profitti e rendite) che tendono ad appropriarsi
dell’“eccedenza”. Il conflitto non riguarda pertanto solo la distribuzione del
reddito, ma influenza anche i livelli e la composizione sia delle merci che dei
valori d’uso, dalla cui combinazione dipende il ben-essere sociale.
Quanto della maggior occupazione dovuta
dall’espansione o dal miglior utilizzo dei fondi monetari che affluiscono al
settore pubblico e al terzo settore si traduce in un aumento (della quantità e
qualità) dei valori d’uso da essi prodotti dipende dall’efficienza del loro
processo produttivo. Tuttavia, se l’ampliamento dell’occupazione nel settore
delle merci è sostenuto da sgravi fiscali, l’effetto finale sulla produzione di
valori d’uso dipende dalla variazione dell’eccedenza “netta” del reddito
monetario che non è necessariamente positiva.
Il circuito monetario (capitalistico) non è un vincolo
assoluto alla produzione (sociale) di valori d’uso realizzata al suo esterno.
Un’attività di produzione di valori d’uso in eccesso a quella permessa dalla
circolazione monetaria proveniente dal circuito 1 si può avere con l’immissione
di moneta nel circuito 2 attraverso il disavanzo pubblico. L’espansione della
produzione di valori d’uso può peraltro realizzarsi implementando o sfruttando
circuiti alternativi alla moneta ufficiale (banche del tempo, monete
complementari, voucher “sociali” a circolazione ristretta, forme di “economia
del noi” ecc.) che richiedono innovazioni istituzionali “radicali” [Lucaroni
pag.40] non solo per costruire la necessaria fiducia sociale nei confronti
delle nuove “forme di circolazione”, ma anche per governare l’ineludibile
rapporto con la moneta ufficiale se, e fino a quando, le merci faranno parte
del paniere del consumo dei produttori di valori d’uso.
In sostanza, qualsiasi sia la forma che assumono i
diversi interventi di sostegno del lavoro o del reddito, essi presentano i
medesimi problemi per quanto riguarda il loro finanziamento e hanno
implicazioni analoghe a livello di sistema.
Due ipotesi contrapposte?
Il “lavoro per il reddito” e il “reddito per il lavoro”
sono due opzioni che si differenziano per la diversa visione strategica della
politica del lavoro e non per gli aspetti “tecnici” che ne caratterizzano le
forme di intervento. In effetti, la rappresentazione che se ne è data solleva
tre diverse questioni sul loro grado di conciliabilità, ovvero se siano
tecnicamente compatibili; se siano economicamente sostenibili; se siano
politicamente accettabili.
La compatibilità tecnica. Dal punto di vista “tecnico”
si è detto che entrambe affrontano lo stesso problema – la garanzia delle
condizioni di vita dei lavoratori e della larga fascia di popolazione ad essi
affine – anche se in due prospettive diverse. Tuttavia, se vengono viste, come
dovrebbero, come uno strumento e non come un obiettivo, non vi è alcuna ragione
perché esse risultino tra loro incompatibili. Entrambe richiedono una
trasformazione delle istituzioni esistenti e pertanto qualsiasi di esse venga
privilegiata richiederà un lungo periodo di transizione durante il quale è
possibile un loro impiego eclettico e una complementarietà operativa [Granaglia1
pag. 22, Carra pag.92]. Se è indubbio che il problema più pressante è quello di
creare occupazione, le iniziative in termini di piani del lavoro sono
ovviamente quelli più appropriati e gli interventi sulle garanzie di reddito si
pongono a un “secondo e terzo livello” [Gallino pag. 59]. Ciò non toglie
però che se ci si vuole muovere con una prospettiva di più lungo periodo,
l’opzione di una “redistribuzione del lavoro più reddito di base” potrebbe
risultare quella più adeguata; in tal caso sarebbe opportuno che già negli
interventi di breve periodo fossero inserite misure che prefigurino una
soluzione in quella direzione: sviluppo dei contratti di lavoro a tempo
ridotto, regolamentazione sindacale di tali contratti, garanzie di reddito
allineate a una base comune in grado di prefigurare un futuro reddito di base e
così via.
La sostenibilità economica
Dal punto di vista “economico”, il dibattito ha
manifestato un diffuso scetticismo sulla sostenibilità finanziaria di un
intervento basato sul reddito di base rispetto a quello dei piani di lavoro [Pennacchi
pag. 62, Nascia pag. 87]. Per quanto ovvio, va osservato che è possibile
effettuare una valutazione dell’impegno finanziario delle due opzioni solo in
presenza di progetti che precisino forme e tempi della loro implementazione
(platea dei beneficiari, livello dei sussidi, costi amministrativi ecc.) e tali
da permettere una valutazione dei loro effetti diretti e indiretti [Gnesutta1
pag. 25]. Se consideriamo le due opzioni con riferimento al medesimo obiettivo
(un intervento che riguarda 6-8 milioni di occupabili) non sembra che lo sforzo
finanziario sia molto diverso tra le due alternative. Soprattutto se non si
considera solo il costo dell’intervento, ma si tiene conto, come la realtà
corrente ce lo suggerisce, anche il costo materiale e morale del
non-intervento, in particolare nei confronti dei settori meno garantiti
(anziani, donne e bambini) [Travaglini pag.16, Granaglia pag. 22]. Non si
intende con ciò negare, anzi, che l’impegno finanziario richiesto sia
particolarmente rilevante (per entrambe le opzioni se obiettivo complessivo è
il medesimo), anche se, nel processo di attuazione, i costi possono distribuiti
nel tempo in maniera molto diversa.
In sostanza, entrambe le proposte non sono neutrali
rispetto al bilancio dello Stato, né alle condizioni di reddito delle imprese e
dei lavoratori, anche se diversa è la loro incidenza. Comunque si prefiguri
l’intervento, è evidente che i lavoratori dovrebbero essere i beneficiari netti
direttamente per le maggiori opportunità di impiego, indirettamente per il
rilancio della produzione; anche le imprese ne beneficiano per quest’ultima
ragione oltre che per gli eventuali sgravi fiscali che dovessero essere
utilizzati per favorire la crescita dei loro occupati. Il costo dell’operazione
grava inevitabilmente sul bilancio pubblico anche se trova una presumibile
parziale copertura nell’espansione produttiva. Pertanto, una qualsiasi
iniziativa che si ponga seriamente al livello della gravità del problema
richiede una ristrutturazione profonda della spesa pubblica e del prelievo
fiscale [Lunghini pag. 67. Fumagalli pag.82, A. Van Parjis pag.120] in
un diverso “patto fiscale” tra i soggetti di questa società [Airaudo
pag.125].
L’accettabilità politica
Per quanto molti siano gli aspetti tecnici e
finanziari che necessitano di un approfondimento, non sono questi a costituire
la questione più critica. Lo scetticismo cui si è fatto in precedenza cenno
circa la praticabilità di un’iniziative a carico di una fiscalità generale
esausta è così tranchant da chiudere qualsiasi discussione in merito. Si
possono interpretare tali reazioni come il riconoscimento di fatto che si
tratta di proposte radicalmente conflittuali sul terreno politico e quindi
insostenibile per gli attuali equilibri economici e sociali [Fumagalli e
Vercelloni pag.111]. Ed è questo l’ostacolo più ostinato per la sua
accettabilità politica, ovvero la non-volontà politico-culturale del quadro
politico di assumere “il diritto alla sussistenza come un diritto umano e di
cittadinanza fondamentale” [Saraceno pag.116]. In effetti, le iniziative
prospettate nel dibattito mettono in discussione, anche se con peso diverso e
con tempi diversi, gli esistenti orientamenti di politica economica centrati
sulla crescita produttiva e sulla stabilità finanziaria secondo canoni imposti
dall’esterno. In effetti, nella loro compiutezza, gli interventi prospettati
nel dibattito si presentano come delle ipotesi “forti” per una politica dei
redditi che abbia come obiettivo il “lavoro” non inteso (solo) come risorsa
produttiva, ma come condizione di esistenza delle persone. Attribuire a una
tale “politica del lavoro” la centralità che merita nella definizione
dell’intera politica economica impone di necessità una revisione profonda degli
attuali criteri e misure delle politiche di domanda, fiscale, industriale e di
altre ancora.
A questa difficoltà di accettabilità politica se ne
associano almeno due altre questioni propriamente “politiche” accennate, anche
se non pienamente sviluppate, nel dibattito. La prima riguarda chi deve essere
considerato “cittadino” e quindi beneficiario degli interventi per
l’occupazione e il reddito. La soluzione è molto diversa a seconda si faccia
riferimento all’attributo formale della cittadinanza o all’aspetto sostanziale
della residenzialità; ovviamente le conseguenze non sono di poco conto per gli
immigrati e per i cittadini con residenza all’estero. La seconda questione è il
rapporto con l’Europa. Sulla necessità di inquadrare l’intervento di
trasformazione del nostro welfare all’interno di quello dell’Unione non sono
mancati riferimenti alle risoluzioni delle istituzioni europee o esplicite
proposte in questo senso per fornire ai cittadini europei un minimo di
sicurezza economica [Saraceno pag.116, Van Parijs pag. 120]. Ciononostante
vi sia la consapevolezza che tali indicazioni si scontrano non solo con i
vincoli di un’austerità permanente, ma soprattutto con una sempre più tenue
tensione a sostenere il modello sociale che dovrebbe caratterizzare l’Europa.
Nell’orizzonte di una “politica del lavoro”
Mettere il lavoro al centro della politica economica e
condizionare ad essa gli altri interventi prospetta un’alternativa radicale
all’attuale indirizzo politico. L’obiettivo di dare lavoro, un lavoro non
precario, non sottopagato in un momento di trasformazione degli apparati
economici e sociali che “spontaneamente” vanno in tutt’altra direzione dovrebbe
essere, per quanto temerario, un obiettivo indiscutibile per qualsiasi forza
politica della sinistra.
Assumere questa dimensione come terreno di iniziativa
impone una discontinuità alla politica economica della sinistra poiché, in
presenza di un mercato del lavoro sempre più discriminatorio e aggressivo,
riprendere l’iniziativa a garanzia delle condizioni minime di vita, e quindi
della capacità contrattuale, dei “cittadini” (che comprendono chi ha
un’occupazione e chi non ce l’ha) significa proporsi di “trasformare nei fatti
il diritto all’esistenza in un diritto inalienabile e non a disposizione dei
governanti di turno” e di superare “la difficoltà politico-culturale a far
percepire il diritto alla sussistenza come un diritto umano e di cittadinanza
fondamentale”[Saraceno pag.116].
Le proposte emerse dal dibattito possono sembrare
“esili” e “astratte”, ma forse appaiono così perché si confrontano con i “forti”
e “concreti” obiettivi assunti come ineludibili dall’attuale classe dirigente.
Di questo bisogna essere consapevoli ma, considerate le prospettive sociali
imposte dall’agenda sempre più preoccupante dettata dalla produzione globale,
ciò non dovrebbe essere sufficiente per dissuadere dallo sviluppare le
riflessioni che questo e-book intende offrire. Il problema è reale e vi è
l’esigenza di proseguire nella riflessione non solo sulla strumentazione e sui
tempi più appropriati, ma soprattutto su come rendere questa prospettiva
politicamente accettabile. La decisione di raccogliere gli interventi del
dibattito ospitato da Sbilanciamoci! in questo e-book e proporne una sintesi
esprime la convinzione che la formulazione di una politica del lavoro, e non del
“mercato del lavoro”, si pone a un livello strategico per il nostro futuro.
(1) Per non appesantire l’esposizione le
citazioni alle singole posizioni si limitano prevalentemente a rinviare in
maniera generica al contributo ritenuto più significativo. L’organizzazione di
questa sintesi e il modo di interpretare i diversi contributi è stata adottata
per stimolare ulteriori sviluppi e approfondimenti del tema.
(2) La proposta è stata fatta propria da
Sel ed è riportata integralmente nell’Appendice 1 pag.150.
(3) Diversi sono gli espliciti richiami
al nostro dettato costituzionale [Amari]. Come ricorda Saraceno, il diritto
alla sussistenza e alla vita dignitosa è un diritto fondamentale
costituzionalizzato non solo a livello nazionale, ma anche dall’Unione europea.
(4) Carra richiama esplicitamente il
contributo di Gorz e l’esperienza delle 35 ore in Francia. Più diffuso è il
riferimento di Fumagalli al ruolo del capitale cognitivo nella struttura dei
rapporti di lavoro post-fordista, al quale si richiama anche Lucaroni.
(5) Sperando così di evitare quelle
“confusioni lessicali e pratiche” così diffuse nel dibattito italiano
sottolineata da Saraceno.
(6) Santini e i limiti alla
“condizionalità” nella proposta di legge popolare. Del Bò “non possono essere
le condizioni di nascita, naturali o sociali che siano, a dettare quelle che
saranno le condizioni di vita individuali di ciascuno di noi”.
(7) Gattei e il richiamo a Keynes. Sulla
difficoltà nel momento attuale Lunghini.
(8) Van Parijs per l’internalizzazione dei
benefici recati dall’integrazione europea, ma soprattutto Fumagalli e
Vercellone [pag.111] sulla rilevanza del capitale cognitivo nell’attuale modo
di produzione capitalistico. In quest’ultima versione il “reddito di
cittadinanza” o il “reddito di base incondizionato” si presentano come
strumento per favorire “la transizione verso un modello di sviluppo fondato sul
primato del non mercantile e di forme di cooperazione alternative tanto al
pubblico quanto al mercato nei loro principi di organizzazione” (Fumagalli e
Vercellone), di un passaggio a un modello di Commonfare (Lucaroni pag.102).
(9) Gallino e l’apprezzamento per
l’unificazione delle prestazioni assistenziali.
(10) Lunghini; dal quale si riprende il
termine di “valore d’uso” qui utilizzato.
(11) Non va trascurato che le attività
all’interno dei tre circuiti non esauriscono la produzione di quel capitale
cognitivo che è funzionale alla produzione di merci e che, quale economia
esterna di natura sociale, non viene finanziato dal settore delle merci che ne
beneficia.
(12) Lunghini per la promozione di
lavori immediatamente destinati alla soddisfazione dei bisogni sociali assoluti
(lavori di cura delle persone e della natura) la cui domanda i mercati del
lavoro e delle merci non registrano perché corrispondono a bisogni privi di
potere d’acquisto individuale.
fonte: www.sbilanciamoci.info.