docente
di antropologia culturale e antropologia psicologica all’università di Torino,
etnopsichiatra di formazione, Roberto Beneduce è fondatore dell’associazione e del centro di
ricerca Frantz Fanon e nel 1996 del Centro Clinico Fanon*, che si occupa di
salute mentale nell’ambito della popolazione migrante, qualificandosi come
servizio di Psicoterapia, Counseling e Supporto Psico-Sociale per Immigrati Rifugiati
e Vittime di Tortura
d. Qual è l'esperienza e quali sono i campi di
intervento e le sperimentazioni del centro Frantz Fanon? Puoi approfondire
inoltre le questioni relative alla chiusura del centro e alla sua prossima
riapertura
r.
Il centro Frantz Fanon nasce nel 1996
nell'ambito di un'azienda sanitaria locale, inizialmente all’interno del
settore di educazione sanitaria in seguito legato invece al dipartimento di
salute mentale. È un centro che mette in pratica ricerche, riflessioni ed
esperienze che provengono da un gruppo pluridisciplinare e pluri professionale,
all'epoca della sua nascita infatti c'erano sociologi, antropologi, oltre a
medici, psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e anche quelli che diventeranno
poi i controversi protagonisti di un nuovo modello di cura del cittadino
straniero cioè i mediatori culturali. Il centro nasce dunque nel '96, quasi 17
anni fa, sulla base di alcune intuizioni ma anche sulla base di alcuni dati:
infatti i cosiddetti immigrati irregolari, pur avendone diritto, accedono di
rado ai centri di salute mentale. Qual è il motivo? Non ci sono difficoltà
economiche, non ci sono difficoltà istituzionali, sono molto facilmente
raggiungibili e tuttavia a questi centri gli utenti stranieri sembrano non
arrivare se non di rado. A partire da questa considerazione il centro Frantz
Fanon istituisce delle pratiche di ascolto, intervento clinico, di relazione,
alimentate da una serie di ricerche e di dati che provengono dall'antropologia,
dall'etnopsichiatria clinica ma che al tempo stesso non schiacciate sul solo
profilo esotico che la dimensione culturale ha spesso finito con l'assumere
nell'ambito dell'entnopsichiatria anche italiana. La scelta del nome per il
centro "Frantz Fanon" è una scelta che è eloquente a questo riguardo
perché Fanon consente di pensare la sofferenza e la sofferenza psichica nella
sua articolazione con la storia e con i contesti, non immagina una cultura
mummificata o mineralizzata. Frantz Fanon infatti, molto prima e non meno
acutamente di quanto avrebbero fatto altri studiosi, avvia una decolonizzazione
dei saperi, una decostruzione dei saperi, in primo luogo della psichiatria
coloniale, ma anche degli altri saperi del suo tempo, la sociologia, la
filosofia, la psicoanalisi, la stessa antropologia. Tutte le scienze con le
quali Fanon si confrontava verranno smontate nel loro dispositivi di potere,
nella complicità con le ideologie dominanti. Questo significa per noi occuparsi
di utenti stranieri avendo chiaro che la loro sofferenza e il nostro intervento
clinico devono essere situati all'interno di particolari rapporti di forza
oltre che di senso.
Questa è la
prospettiva originaria del centro Fanon che in qualche modo ci protegge da
talune "derive culturaliste" ma al tempo stesso non smette di
problematizzare e di pensare quello che è la cultura, perché le nuove mode,
anche accademiche, finiscono spesso, nel giro di qualche anno, per offrire
fluttuazioni di senso contrario e dunque quando la nozione di cultura è
diventata difficile e ingombrante anche molti antropologi hanno finito per
smettere di pensarla, di interpellarla come una dimensione problematica, come è
problematica ogni appartenenza. Questo significa che del culturale bisogna
farsene qualcosa di molto più complesso, di molto più politicamente connotato e
interrogato di quanto spesso non si sia fatto, non lo si può abbandonare a
coloro che ne fanno cattivo uso, come a volte accade di vedere nel linguaggio
banalizzato, stereotipato dei media, dei servizi socio-sanitari, dove il
culturale è evocato come metafora dell'incomprensibile o spesso purtroppo
metafora di una delega a presunti esperti. L'esperienza con gli utenti
stranieri e con la sofferenza psichica, con la sofferenza nella sua
articolazione con la cultura, nella sua articolazione con gli aspetti positivi
o negativi dell'ambiente ospedaliero, ci inchioda alla responsabilità teorica
di non smettere di pensare le appartenenze culturali come sorgente di
sofferenza, di ambivalenza, in qualche caso come sorgente di senso e in ogni
caso percorso obbligato per capire qualcosa della loro condizione e qualcosa
del modo di curare queste persone. Ciò detto il percorso del centro Fanon è
stato complesso e si caratterizza per non aver mai immaginato un modello rigido
da riprodurre ma come un territorio di domande di esplorazione che non si
immaginano esauribili. In questo territorio chiaramente abbiamo visto anche la
violenza delle istituzioni, l'indifferenza delle istituzioni, per le quali in
molti casi la necessità di un intervento rigoroso a favore della persona, a
favore di un paziente, può essere negoziata o può essere ridotta a una pura
questione economica.
d. Ad un certo punto, però, è arrivata una lettera
della ASL …
r. Si, infatti
abbiamo conosciuto negli ultimi mesi una fase difficile perché per motivi molto
banali, burocratici, l'Asl ha deciso di non rinnovare l'affitto dei locali dove
era ospitato il centro Fanon e una parte del dipartimento di salute mentale.
Mentre per quest'ultimo ha trovato, con relativa facilità, una nuova
collocazione, ha colto l’occasione l'occasione per non dare risposte al lavoro
e alle esigenze di continuità del centro Fanon. Alle nostre richieste ripetute
di dirci come operare con 250 utenti - questo il numero degli utenti presi in
carico nell'ultimo anno – abbiamo trovato solo silenzio da parte delle
istituzioni, dell'azienda sanitaria, il che dal punto di vista dell'etica e
della clinica è non solo inspiegabile ma è inaccettabile perché il principio e
la continuità terapeutica impone che non si rimanga nel vago, che si diano
chiari indirizzi, orientamenti e alternative agli utenti, invece tutto ciò non
è accaduto e si è arrivati addirittura a un'interpellanza in sede di consiglio
comunale per sapere qualcosa. Questo solo per dirvi di come può diventare
indifferente il problema della salute.
La questione degli
stranieri, della cura degli stranieri e della salute mentale degli stranieri è
quindi anche un buon modello per pensare quanto spesso in questa fase sociale
la salute sia un valore molto svuotato, un valore continuamente citato ma
spesso non tradotto in realtà, e dunque in una situazione economica di
difficoltà, dove non ci sono soldi per gli italiani, non sono rare le
situazioni nelle quali si sente dire: "come possiamo pensare di occuparci
degli stranieri?" Non è nemmeno raro vedere che le aziende sanitarie
locali per servizi alla persona utilizzano gli stessi criteri di economia o di
tagli alle spese che possono essere invocati negli acquisti di mobili o di beni
di consumo o il fatto che spesso molte pratiche legate ai servizi che si
rivolgono agli utenti stranieri cadono sotto questo modello generalizzato di
valutazione dei progetti al cui interno il 70% del punteggio attribuito a un
progetto concerne unicamente l'offerta economica più bassa.Questo può sembrare un riferimento banale ma da qui si può partire per una riflessione antropologica più alta, ci da la misura di come ormai si valuta un progetto rivolto a persone sofferenze, utenti, unicamente con l'idea di offrire un servizio che sia economico, che costi poco.
Noi parliamo spesso della salute come di un diritto, io credo che questo sia un diritto, tra gli altri, tra i più esposti all’attuale situazione neoliberista, questa logica è ancora più perversa quando si intreccia a ideologie politiche che spesso considerano alcuni bisogni e alcuni soggetti come privi di rilevanza. Non credo di produrre un'interpretazione politica molto di parte se ipotizzo che il fatto che l'azienda sanitaria dove operava il centro Fanon fino a qualche tempo fa fosse gestita da un direttore sanitario, un direttore generale, un direttore amministrativo che sono stati collocati da una giunta regionale che ha come presidente un esponente di un partito come la Lega Nord, abbia qualche effetto nei casi in cui si tratta dei diritti degli stranieri, del diritto alla salute degli stranieri.
d. Quali sono le prospettive del Centro Fanon? E
quale ragionamento si sta portando avanti per garantire la continuità
dell’esperienza dopo la chiusura dello spazio della ASL?
r. Il centro Fanon
non ha mai smesso di operare perché ovviamente non abbiamo abbandonato gli
utenti, abbiamo continuato a seguirli in altri luoghi di fortuna, ad esempio
presso alcuni spazi del gruppo Abele, presso gli spazi dell'Unione Culturale di
Torino e cosi via, quindi abbiamo potuto garantire agli utenti, per quanto
possibile, una continuità. Prossimamente sarà inaugurato il centro Fanon in una
sua nuova sede a Torino di cui vi posso persino dare l'indirizzo: via S.
Francesco d'Assisi, 3. Al tempo stesso non abbiamo cessato di operare con altri
interlocutori, che si tratti della commissione territoriale per il
riconoscimento della protezione umanitaria, dell'università o di altre Asl del
territorio torinese, e vogliamo che questa esperienza rimanga comunque
all'interno del servizio pubblico. Non immaginiamo di operare come una
qualsivoglia associazione onlus del volontariato laico o religioso, intendiamo
imporre delle oggettive competenze, esperienze, riflessioni che si sono
accumulate nel corso di 17 anni, che sono riconosciute unanimemente anche al di
fuori dei confini nazionali e all'interno del servizio sanitario nazionale e
del servizio pubblico, perché credo che se ne avvantaggino e utenti e
operatori. Noi abbiamo con gli operatori una relazione molto feconda, di
scambio, di supervisione, di cogestione di casi difficili, un patrimonio che
sarebbe quantomeno sciocco decidere di cancellare.
d. L'esempio del centro Fanon è pregnante dal punto di vista della messa a critica dell’ideologia dominante rispetto al concetto stesso di salute e sanità, a partire dalla possibilità di guardare con occhi diversi l'idea stessa di diritto alla salute e di sanità pubblica, proprio mentre le politiche di austerità stanno pesantemente minando le basi della dimensione pubblica della sanità. Quali strategie di lotta possono rivelarsi utili in questa fase a tuo avviso?
Per quanto riguarda il profilo un pò più teorico, le responsabilità e le prospettive dell'etnopsichiatria e dell'antropologia medica, io ritengo che ogni qualvolta si sia in grado di produrre delle pratiche, e non solo dei saperi, in grado di rovesciare l'ordine delle cose, ogni volta che si produca un modello di salute che insieme però ripensi l'ordine delle cose, allora noi stiamo producendo un sapere autenticamente innovatore. Ho in mente chiaramente il modello celeberrimo della pedagogia della liberazione di P. Freire, ho in mente i modelli della psicologia generativa di uno psicologo iraniano il quale diceva spesso "noi ci accontentiamo di modulare risposte che rendano l'individuo in difficoltà, vulnerabile o sofferente in grado di andare avanti e sopravvivere, poco ci preoccupiamo di generare nuovi modelli di relazioni sociali o di rapporto tra istituzione e cittadini e quindi ci accontentiamo di usare al minimo i nostri motori teorici". Noi abbiamo ordini professionali, per esempio l'ordine dei medici e l'ordine degli psicologi, che potrebbero dare molto più di quanto fanno e dicono sulla situazione della salute e del diritto alla salute e per esempio potrebbero fare e dire di più in merito alle condizioni nelle quali sono lasciati gli immigrati clandestini nei C.I.E e non lo dicono nè lo fanno. Questi sono saperi che in qualche modo spendono male e poco le loro risorse, le loro conoscenze e le loro parole, io credo che anche per l'antropologia medica e l'etnopsichiatria questi sono fronti nei quali veramente si può promuovere una nuova fase nella misura in cui delle articolazioni strategiche, non solo di analisi critica dei testi e delle teorie ma anche di rapporti politici istituzionali, riescano a modificare l'ordine delle cose.
1DinamoPress 2 Anomalia Sapienza
d. L'esempio del centro Fanon è pregnante dal punto di vista della messa a critica dell’ideologia dominante rispetto al concetto stesso di salute e sanità, a partire dalla possibilità di guardare con occhi diversi l'idea stessa di diritto alla salute e di sanità pubblica, proprio mentre le politiche di austerità stanno pesantemente minando le basi della dimensione pubblica della sanità. Quali strategie di lotta possono rivelarsi utili in questa fase a tuo avviso?
r. Allora, la prima
cosa da fare è non accettare come ovvie e naturali le logiche dei tagli, dei
risparmi o della povertà delle nostre istituzioni. Non è difficile dimostrare
che queste povertà sono il prodotto di scelte politiche e che le priorità che
hanno condotto alla situazione attuale hanno dei responsabili molto ben
definiti. La prima cosa da fare è ricostruire una genealogia dei tagli e delle
responsabilità politiche che ci hanno condotto alla situazione attuale. La
seconda cosa è che un diritto non lo si riceve ma lo si esercita o lo si
impone, perché se aspettiamo che i diritti vengano riconosciuti questi saranno
sempre diritti parziali. Fanon invitava a non accettare il dono della liberazione
dal potere coloniale ma a conquistare l'indipendenza in qualunque modo, io
credo che questa metafora fanoniana ci aiuti anche a capire che oggi i soggetti
che vedono erodere i propri diritti devono essere sostenuti e credo che nello
scenario attuale i momenti in cui cittadini stranieri partecipano attivamente a
delle lotte politiche per rimuovere degli ostacoli sul loro percorso, per avere
accesso a spazi abitativi, occupando case vuote ad esempio, sono tutti piccoli
fuochi che ci mostrano come è all'interno di queste sensibilità che si
affermano i diritti e li si rendono concreti, e questo significa anche per gli
accademici una responsabilità nuova laddove si deve essere in grado di leggere
in queste dinamiche, qualcosa che io traduco nei termini di una restaurata
sovranità culturale e politica.
La salute è questo,
o è restaurata sovranità sul proprio corpo, sui propri bisogni, e quindi
sovranità significa anche esercizio di un potere, oppure rimane esposta a una
condizione di diritto molto spesso virtuale. Dico questo anche perché chi
lavora con i corpi e non si limita solo a riflettere sulle teorie sa bene che
sui corpi si continua a giocare una battaglia politica ancorché mascherata di
differenza culturale. Nostra responsabilità è riconoscere il politico nel
culturale, non dire semplicemente che il culturale sia rilevante. Faccio un
esempio molto banale perché questo sia chiaro: quando alcuni giudizi sui modi
di educare un bambino, di pettinare i capelli di una bambina, di alimentarsi,
sono all'origine di decisioni istituzionali (relative ad esempio
all'inadeguatezza di un modello educativo familiare o genitoriale perché la
cultura dell'altro non si è abbastanza "civilizzata",
"adeguata" o "adattata"), allora bisogna capire che a
partire dalla leva culturale noi dobbiamo esser in grado di riconoscere un
discorso politico, nel caso in cui invece lasciassimo scivolare nella
banalizzazione la questione culturale, non riusciremmo poi nemmeno a fare un
buon discorso politico.
d. Ultime due questioni: da una parte le
mobilitazioni contro i tagli alla sanità, anche qui a Roma delle cose
interessanti si stanno muovendo non solo all’interno degli ospedali ma anche
sul livello territoriale (palestre popolari, utenti dei servizi, comitati
territoriali, per esempio a pochi passi da questa facoltà si sta lottando per
difendere il reparto di neuropsichiatria infantile a rischio chiusura). In
Grecia invece è accaduto pochi mesi fa un altro fatto a nostro avviso
particolarmente interessante, ovvero l’occupazione e l'autogestione di un
ambulatorio, in cui si sta sviluppando un percorso che coinvolge utenti e
medici con l’obiettivo di re-immaginare e ripensare in comune il concetto di
salute, all'interno della crisi che il paese sta vivendo. Quali prospettive si
aprono anche qui in Italia? E per concludere, quali sono le prospettive e le
sfide dell'antropologia medica e dell'etnopsichiatria, alla luce anche della
discussione che si sta svolgendo in questa tre giorni di convegno della SIAM?
r. Allora rispetto
al primo caso direi rapidamente che tutte le situazioni di erosione della
sicurezza, della certezza, laddove la nostra garanzia, per usare un altro
termini a noi familiare, la garanzia delle cose fondamentali è messa in
discussione, bisogna trovare degli altri spazi, quindi inventare delle altre
alternative. Sicuramente gli esempi che hai citato ci fanno capire che si può
reagire, e lo sappiamo perché abbiamo appreso a riconoscere che laddove c'è
esercizio di potere e dominio c'è sempre resistenza. Questa è una forma di
resistenza, le persone, i gruppi, hanno possibilità non solo di sopravvivere ma
di inventare delle tattiche che consentano anche di risolvere realmente i
problemi. Va da se che queste tattiche hanno molto spesso un breve respiro,
hanno un valore eccezionale, non si generalizzano facilmente, quindi il loro
valore è un valore esemplare, ma molto resta da fare perché poi diventino
regola. Questo lo dico perché dobbiamo ricordare che spesso il cinismo delle
istituzioni o delle elite è tale che si deleghi poi a queste soluzioni eroiche
la soluzione dei problemi, questo è un rischio che va evitato, cioè il riuscire
a produrre delle forme efficaci di risoluzioni dei problemi non significa che
si debba smettere di pungolare i centri di potere, e soprattutto i centri
economici, perché si cambi rotta. Un discorso analogo potrebbe essere fatto
anche per l'insegnamento, io posso ben immaginare di inventare con i miei
studenti un corso a costo zero in termini di acquisto libro, produrre dispense
e azzerare i costi di acquisto di materiali didattico, ma questo è comunque un
elemento emergenziale, non può essere immaginato questo protocollo di emergenza
come la logica che deve funzionare.
Tutto quello a cui
stiamo assistendo è il prodotto perverso di un'intenzionale modalità di spreco
delle risorse, di assassinio dell'ambiente, di omicidio delle intelligenze, e
quindi bisogna invertire tutti questi processi, il che non è facile però non
era difficile prevederlo e ancora oggi noi assistiamo a vicende nelle quali il
paradosso è artificialmente costruito in laboratorio, quello che evoco sempre
più spesso con i miei studenti è quello di Taranto, dove, sapete bene, il
diritto alla salute, il diritto sacrosanto alla salute è messo in
contrapposizione con il diritto al lavoro. Come vedete sono questi labirinti
che i centri egemonici del potere sono bravi a produrre, a generare ed è in
questi labirinti che noi rimaniamo spesso intrappolati.Per quanto riguarda il profilo un pò più teorico, le responsabilità e le prospettive dell'etnopsichiatria e dell'antropologia medica, io ritengo che ogni qualvolta si sia in grado di produrre delle pratiche, e non solo dei saperi, in grado di rovesciare l'ordine delle cose, ogni volta che si produca un modello di salute che insieme però ripensi l'ordine delle cose, allora noi stiamo producendo un sapere autenticamente innovatore. Ho in mente chiaramente il modello celeberrimo della pedagogia della liberazione di P. Freire, ho in mente i modelli della psicologia generativa di uno psicologo iraniano il quale diceva spesso "noi ci accontentiamo di modulare risposte che rendano l'individuo in difficoltà, vulnerabile o sofferente in grado di andare avanti e sopravvivere, poco ci preoccupiamo di generare nuovi modelli di relazioni sociali o di rapporto tra istituzione e cittadini e quindi ci accontentiamo di usare al minimo i nostri motori teorici". Noi abbiamo ordini professionali, per esempio l'ordine dei medici e l'ordine degli psicologi, che potrebbero dare molto più di quanto fanno e dicono sulla situazione della salute e del diritto alla salute e per esempio potrebbero fare e dire di più in merito alle condizioni nelle quali sono lasciati gli immigrati clandestini nei C.I.E e non lo dicono nè lo fanno. Questi sono saperi che in qualche modo spendono male e poco le loro risorse, le loro conoscenze e le loro parole, io credo che anche per l'antropologia medica e l'etnopsichiatria questi sono fronti nei quali veramente si può promuovere una nuova fase nella misura in cui delle articolazioni strategiche, non solo di analisi critica dei testi e delle teorie ma anche di rapporti politici istituzionali, riescano a modificare l'ordine delle cose.
1DinamoPress 2 Anomalia Sapienza
* L’esperimento del Centro-Fanon, all’avanguardia
in Europa, è stato ospitato all’interno della ASL di Torino fino al gennaio
2013 quando, con pochissime settimane di anticipo, viene disdetto l’accordo e
il Centro si trova d’improvviso senza una sede, come denunciato nel comunicato
dell’associazione Fanon. Lo stesso centro riaprirà (comunicato di riapertura) poi autonomamente come
spiegherà Roberto Beneduce nel corso dell’intervista, l’11 marzo 2013. Questa
intervista è stata realizzata durante il convegno della SIAM (Società Italiana
di Antropologia Medica) tenutosi presso la facoltà di Lettere della Sapienza
dal 21 al 23 febbraio del 2013, convegno intitolato “Antropologia medica e
strategie per la salute” occasione estremamente stimolante in cui abbiamo
potuto incontrare Beneduce per discutere con lui del Centro Fanon e dei tagli
alla sanità interrogandoci sulle prospettive di lotta e di critica della realtà
che l'intreccio tra le mobilitazioni contro l’austerità e i tagli alla sanità
da un lato e l’approccio critico dell’antropologia medica e
dell'etnopsichiatria dall'altro ci consentono