come non possiamo illuderci che a Mirafiori tornino
a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare che tornino i grandi
partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del consenso. Queste
fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero più le vecchie
fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si riassesta la
politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e dei suoi
soggetti
«Non può esserci democrazia
funzionante senza il canale dei partiti. Nessuna nuova o più vitale democrazia
può nascere dalla demonizzazione dei partiti». Con queste parole, pronunciate
al Teatro Toniolo di Mestre nel settembre del 2012, il Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano si è fatto interprete di un timore largamente
diffuso tra le classi dirigenti: il rapporto tra democrazie e forma-partito
sarebbe sul punto di rompersi definitivamente. A tutto svantaggio, sostiene
Napolitano, della democrazia. È davvero così? Marco Revelli insegna Scienza della politica all’Università del
Piemonte orientale e ha da poco pubblicato un libro, Finale di partito (Einaudi, pagine 138, euro 19), in cui
affronta la questione collocandola in un passaggio d’epoca ben più radicale –
il pieno ingresso in una società post industriale – senza il quale ogni “pro” e
ogni “contro” i partiti rischia di rimanere una sterile petizione di principio.
D: Una caratteristiche della nostra società è che gli individui si fidano sempre meno gli uni degli altri, perché stentano a riconoscersi. Finita l’era dell’ottimismo – ottimismo tecnologico, fede nel progresso o nel mercato – le basi materiali della fiducia si sono sgretolate e la caduta generale del legame ha inevitabilmente toccato anche il rapporto tra cittadini e partiti. È una crisi che spinge non pochi analisti a una facile equazione: più si abbassa il livello di fiducia nei partiti, più cresce la passività tra i cittadini. La crisi della fiducia sarebbe quindi il vettore di ciò che impropriamente viene chiamato “populismo” o tacciato di “antipolitica”. Lei come legge la situazione dentro questo quadro generale di défiance?
Marco Revelli: La caduta del legame di fiducia
è clamorosa e oramai conclamata. La fiducia nei partiti, in Italia, tocca
livelli parossistici e non supera il 5 per cento. Questo significa che solo un
cittadino ogni venti crede ancora nella possibilità di un’azione concretamente
democratica condotta attraverso i partiti politici.
Questa crisi di fiducia nei partiti
rischia di intaccare anche la fiducia nelle istituzioni che, relativamente al
Parlamento, si attesta su un misero 8 per cento. Comprendiamo subito che in una
democrazia parlamentare come la nostra, laddove il Parlamento dovrebbe essere
il vero sovrano, il sovrano è in realtà completamente sfiduciato. Fenomeno che
in Italia, come detto, tocca livelli parossistici, ma è generale ed esteso a
tutto l’Occidente. Negli anni Sessanta e Settanta, nonostante fossero anni
di contestazione, di lotte sociali e di conflitti, la fiducia nelle istituzioni
era altissima e toccava picchi del 70 per cento. Il mondo è cambiato ma troppo
spesso chi ragiona “di” politica e “in” politica non registra questo
cambiamento. Avverte il disagio, si accorge che le cose non funzionano ma come
se ci si fosse allontanati da un modello che prima o dopo potrebbe riprendere
funzionare: la democrazia dei partiti. Al contrario, quel modello è finito.
Finito come è finita la grande impresa: come non possiamo illuderci che a
Mirafiori tornino a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare
che tornino i grandi partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del
consenso. Queste fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero
più le vecchie fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si
riassesta la politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e
dei suoi soggetti. Soggetti che, beninteso, non scompaiono ma i partiti di oggi
hanno una parentela lontanissima con i loro progenitori. D: Negli scenari futuri è possibile quindi una prospettiva di democrazia senza partiti?
Marco Revelli: Abbiamo conosciuto
una fase specifica della democrazia dei moderni, quella della seconda metà del
Novecento. Una fase che si caratterizzava per un modello democratico il cui
protagonista principale e quasi esclusivo era il partito politico. Gramsci lo
definì «il moderno principe» e difatti il partito sembrava il soggetto
destinato a occupare quasi per intero la nostra modernità politica. In realtà,
sappiamo che la democrazia – e anche la democrazia dei moderni sorta dopo la
Rivoluzione del 1789 – è nata ben prima dei partiti. Prima esistevano
certamente gruppi di notabili, raggruppamenti di individui ma ciò che
tecnicamente chiamiamo “partito” non esisteva. Sottolineerei che persino un
pezzo di Italia liberale tardo ottocentesca non conosceva i partiti strutturati
come li abbiamo conosciuti col partito di massa. Sono stati i partiti
socialisti e i partiti cattolico-popolari che hanno introdotto quella forma
nella politica. Questo è il contesto. La fine di questo modello non
significa tout court fine della democrazia e il passaggio a
una forma autoritaria o dittatoriale Ciò a cui assistiamo non è la pura e
semplice estinzione di ogni forma di partito che lascerà spazio solo a una
terra incognita abitata da individui da un lato e istituzioni dall’altro. È
casomai una metamorfosi: i partiti non scompaiono di punto in bianco, ma
diventano una cosa diversa da ciò che avevamo in precedenza conosciuto. La
stessa cosa accadde con la fine del fordismo, ossia della grande industria
centralizzata e organizzata secondo rigidi schemi interni. La fine
dell’organizzazione fordista del lavoro non ha portato alla scomparsa delle
imprese. Imprese che, semplicemente, hanno assunto una forma e un modello di
organizzazione completamente diversi rispetto al modello fordista che prevedeva
una tutela “dalla culla alla tomba”. Ricordiamoci che c’erano scuole materne,
colonie estive, modelli di socializzazione che crescevano tutto attorno alla
grande fabbrica della città forsista. Allo stesso modo, attorno ai partiti era
tutto un fiorire di iniziative e istituzioni, diciamo così, “pedagogiche”.
C’erano addirittura le edizioni di partito –dagli Editori Riuniti alle
edizioni delle Cinque lune -, le riviste teoriche in cui si svolgevano
dibattiti di alto profilo culturale, ma soprattutto la gente frequentava le
sezioni e lì si formava. Magari si formava male, perché c’erano forme di
dogmatismo o di fideismo o di spirito gregario e conformismo. Però, pur in
questo quadro critico e spesso criticabile, il partito aveva una struttura
solida e con oligarchie ben formate. Su questo punto, osserverei che ci sono anche
studiosi che leggono la trasformazione in atto in termini positivi. Il
pubblico, secondo questa lettura, sarebbe scolarizzato, dotato di strumenti
autonomi per la formazione delle proprie opinioni e non dipende più dalla “casa
madre”. Il ruolo pedagogico del partito è stato superato e un pubblico dotato
di una maggiore autonomia critica si informa altrove, magari in rete.
D: Un secolo fa, Roberto Michels pubblicava la sua Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, il primo studio su quello che al tempo era ancora un oggetto misterioso: il partito politico. Michels, che partiva da posizioni di sinistra, ribadiva la sua convinzione che le organizzazioni fossero sottoposte a una “legge ferrea dell’oligarchia”. In sintesi: la naturale evoluzione di ogni partito politico condurrebbe da una struttura all’origine a aperta a una oligarchia. Lei dedica un capitolo del suo libro all’analisi di questa legge ferrea nel contesto post-industriale e post-fordista. Crede sia ancora attuale una lettura “élitista” del partito politico?
Marco Revelli: Michels aveva ben
presente il modello “pesante” di partito della socialdemocrazia tedesca. Un
modello plasmato sul modello organizzativo della burocrazia statale e di quella
della grande fabbrica della produzione di massa. L’analisi delle oligarchie
condotta da Michels si basava su questo dato di fatto e sulla netta distinzione
tra governanti e governati. Il rapporto oligarchico, però, molto spesso si
basava sulla fiducia dei subalterni. Una fiducia conquistata sul campo:
ricordiamoci che molti leader avevano patito l’esilio o la prigione. Oggi le
oligarchie non sono più legittimate da un rapporto di fedeltà stabile.
Esattamente come le imprese si sono ramificate e delocalizzate in filiere
lunghe nei territori e al tempo stesso si sono concentrate in alto, con vertici
globali e incontrollabili da chiunque (persino dagli azionisti, non solo dai
dipendenti), così i partiti si sono trasformati in strutture più leggere simili
a aggregati di gruppi di potere, spesso caratterizzati da logiche affaristiche,
che galleggiano su un elettorato liquido e non più caratterizzato da una
fedeltà di lungo periodo. Questo elettorato sceglie quasi giorno per
giorno a chi dare il proprio consenso, seguendo logiche sempre più mediatiche.
D: Stiamo andando quindi verso una “democrazia del pubblico”? In tal caso, possiamo davvero parlare di passività civico-politica dei cittadini o siamo anche qui ci troviamo davanti a fenomeni in evoluzione continua e asimmetrica (fenomeni che difficilmente entrano o entreranno nelle griglie concettuali in cui li si vorrebbe racchiudere)?
D: Populismo, antipolitica e, concetto che lei richiama più volte nella sua analisi, subpolitica.
D: Che cos’è, dunque, la subpolitica?
D: Grillo sembra molto avanti, rispetto a quelli che lo contestano. Al contempo è molto indietro, rispetto a dove vorremmo essere. Secondo lei è antipolitica o subpolitica nel senso da lei richiamato?
D: Movimento e adesso “comunità”. Nel suo comizio in Val di Susa, il 14 febbraio scorso, Beppe Grillo ha dichiarato infatti: «Siamo una comunità, qui c’è un sentimento». Non sembrano parole dette a caso.
D: Le apocalissi del consenso sono conseguenza di apocalissi del senso. Non abbiamo ancora capito come e se si condenseranno le molecole di questo sistema senza più legami.
D: Le sembra davvero una via praticabile? La sfiducia da cui ha preso l’avvio la nostra conversazione non rischia di travolgere anche questa speranza di una democrazia oltre i partiti?
D: Stiamo andando quindi verso una “democrazia del pubblico”? In tal caso, possiamo davvero parlare di passività civico-politica dei cittadini o siamo anche qui ci troviamo davanti a fenomeni in evoluzione continua e asimmetrica (fenomeni che difficilmente entrano o entreranno nelle griglie concettuali in cui li si vorrebbe racchiudere)?
Marco Revelli: È una lettura.
Questo pubblico è in grado di trarre da se stesso le risposte ai propri
problemi e, quindi, è anche più critico e ragiona su temi come i beni comuni,
l’ambiente, il territorio, la viabilità, i problemi etici. Un pubblico che si
forma delle proprie opinioni e poi va a vedere a quale offerta politica
indirizzarsi. Spesso, però, l’offerta politica è qualitativamente inferiore
alla domanda e la cultura dei politici di professione è inferiore a quella dei
loro elettori. Ecco allora che il rapporto si rompe e cresce una forma di
disprezzo da parte di un elettorato più consapevole nei confronti di una classe
politica più inconsapevole. C’è poi una seconda lettura, di origine francese.
Pierre Rosanvallon propone di chiamare “controdemocrazia” una democrazia
diversa da quella dei partiti, per nulla “antipolitica”, dove elettorato che
non si illude più di poter governare attraverso i propri rappresentanti cerca
di porre un argine, attestandosi su una linea difensiva. In sostanza, se non ci
possiamo più aspettare che i nostri governanti ci rappresentino, possiamo però
difenderci da loro. I politici di professione sono visti come nemici potenziali
che con le loro decisioni possono danneggiarci. È una sorta di democrazia
giudiziaria, dove i cittadini cercano una tutela giurisdizionale contro in ceto
politico di potenziali criminali. Dentro questa logica – il «dobbiamo
difenderci dai rischi che arrivano dall’alto» – c’è sicuramente un pezzo di
populismo.
D: Populismo, antipolitica e, concetto che lei richiama più volte nella sua analisi, subpolitica.
Marco Revelli: Più che di antipolitica, ci
troviamo spesso di fronte a forme nuove di pratica politica in un contesto di
democrazia mutato, proprio perché non più mediato dai partiti. Smetterei di
usare il termine in modo spregiativo, perché rischiamo di non capire nulla
rispetto ai processi in atto. subpolitica è invece un concetto introdotto
da Ulrich Beck, non per sminuire il valore di quest’altra politica, ma per
sottolinearne il carattere basilare.
D: Che cos’è, dunque, la subpolitica?
Marco Revelli: È la politica della vita, il luogo
dove si affrontano i problemi che riguardano la sopravvivenza degli uomini: i grandi
problemi etici, il problema degli stili di vita, il problema del consumo
energetico, i beni comuni. Su questi temi la politica dei partiti non ha molto
da dire. Al massimo – pensiamo al referendum sul nucleare – subisce il
problema. I recenti referendum hanno mostrato che 27 milioni di italiani sono
andati a votare fuori dagli schemi di partito, ma soprattutto hanno dimostrato
che una certa forma della politica, quella che vorrebbe ancora il partito al
centro della scena, è anacronistica e inefficace.
D: Grillo sembra molto avanti, rispetto a quelli che lo contestano. Al contempo è molto indietro, rispetto a dove vorremmo essere. Secondo lei è antipolitica o subpolitica nel senso da lei richiamato?
Marco Revelli: Grillo non è un
fenomeno folcloristico. I protagonisti della politica partitica lo trattano con
sufficienza come se fosse folclore. Grillo è un sintomo, non certo la causa
della crisi e proprio per questo va preso con estrema attenzione. Ha
sicuramente tratti populistici, ma nella prevalenza è questa politica nuova che
sgorga e cerca le sue forme, Starei attento, molto attento a questo secondo
aspetto.
D: Movimento e adesso “comunità”. Nel suo comizio in Val di Susa, il 14 febbraio scorso, Beppe Grillo ha dichiarato infatti: «Siamo una comunità, qui c’è un sentimento». Non sembrano parole dette a caso.
Marco Revelli: «Comunità», parola magica, di cui c’è
estremamente bisogno. Bisogna però intendersi su questo desiderio di comunità.
Gran parte del nostro disagio esistenziale è legato al nostro desiderio di
comunità. Una comunità terribilmente assente. Siamo spaesati perché la nostra
voglia di vivere in comune con gli altri, la nostra “comunanza” è venuta meno.
Diciamocelo sinceramente, se vogliamo andare al di là degli aspetti della
cronaca e della statistica, dobbiamo ammettere che la crisi dei partiti si
inserisce in una più generale crisi dell’Occidente, che è poi crisi del nostro
stile di vita. Crisi epocale che attraversa tutti i livelli, arrivando persino
a lambire persino la Chiesa. Una crisi che – mi e vi chiedo – non ha forse a
che fare con questo cedimento strutturale dei meccanismi di produzione di senso
condiviso? Si sono inceppati i meccanismi di produzione di un noi, nel
passaggio dalla solitudine di un “io” a alla condivisione di un “noi”.
Un’apocalisse del senso che rende vuoti tutti i troni, da quelli secolari fino
a quelli spirituali. I luoghi si sono dissolti nei flussi. È un horror vacui,
quello che ci coglie. Proprio perché si avverte che la rottura di questi
meccanismi di produzione di un senso condiviso ricade in termini di una
conflittualità molecolare. Non ci sono più conflitti che organizzano il campo,
ma una diffusa competitività aggressiva che rende inoperanti tutti i meccanismi
di decisione collettiva e ha colpito, in particolare, i partiti. Ma non solo i
partiti. Non è diverso per i sindacati, non è diverso per le imprese e non è
diverso per la Chiesa.
D: Le apocalissi del consenso sono conseguenza di apocalissi del senso. Non abbiamo ancora capito come e se si condenseranno le molecole di questo sistema senza più legami.
Marco Revelli: Non ci sono più
legami forti, solo legami deboli. La gestione dei legami deboli è di fatto un
problema, soprattutto di fronte a un’antropologia e a un’identità modificata
dai consumi. Ricordiamo che il consumismo è stato un grande virus che ha
avvelenato i pozzi, quando gli investimenti di identità si sono
trasferiti sugli stili di consumo si è scoperchiato il vaso di Pandora di tutte
le mutazioni antropologiche possibile. Con questa atomizzazione, con questo
individualismo radicale che scambia per libertà la produzione di bisogni
inutili. Questo meccanismo di scambio provoca la nostra permanente indigenza.
Siamo incapaci di soddisfare qualsiasi risposta e qualsiasi richiesta di
comunità attraverso legami. Tanto più il legame diventa debole, quanto più
cresce la micro aggressività individuale. Simone Weil parlava di sradicamento. Simone Weil diceva che chi è
sradicato, sradica. La rottura del legame riproduce un meccanismo di ostilità
molecolare.
D: Le sembra davvero una via praticabile? La sfiducia da cui ha preso l’avvio la nostra conversazione non rischia di travolgere anche questa speranza di una democrazia oltre i partiti?
Marco Revelli: La possibilità di riuscita in
positivo di questa crisi richiederebbe una condizione essenziale: che i
partiti rinuncino alla pretesa di monopolio su tutto ciò che è pubblico. Questo
monopolio, non più legittimato né giustificato, finisce per soffocare tutto ciò
che potrebbe crescere sotto o a fianco. È chiaro che la possibilità di
stare in forma virtuosa in questa transizione complicata che forse coincide con
l’uscita dal moderno, forse è una rifeudalizzazione delle nostre società in un
crepuscolo delle forme statali forti, non può prescindere da una condizione:
che tutto ciò che nasce, non venga immediatamente bruciato dallo sguardo delle
macchine politiche. Macchine onnivore che reclutano, spesso in modo
ornamentale, ciò che di virtuoso nasce nella società, lo incorporano e lo
degradano. Bisognerebbe cominciare questo difficile esercizio del rapporto
paritario fra ciò che nasce nel sociale e ciò che sta nel politico.