domenica 21 ottobre 2012

Sinistra libertaria e “governi popolari: diversi ponti, non pochi precipizi

di Pablo Stafanoni

questo pezzo è parte di una riflessione più complessa su Argentina, Bolivia, Ecuador e Venezuela, già pubblicata su Movimento operaio a cui rimandiamo per l’ulteriore approfondimento. La nostra estrapolazione di seguito proposta riteniamo sia utile al lettore perché offre un quadro critico della situazione politica sudamericana e consente l’individuazione dei nodi da affrontare per una discussione sulla possibile agenda alternativa al nazionalismo e all’indigenismo in atto egemoni nei processi istituzionali latinoamericani

Una prima constatazione dell’attuale processo di cambiamento su scala sudamericana dopo l’egemonia neoliberista – specie durante gli anni Novanta – è che i regimi considerati più radicali, sia dalle sinistre sia dalle destre, sono quelli il cui avvento al potere è avvenuto grazie a organizzazioni politiche non provenienti dal troncone delle sinistre tradizionali (Venezuela, Ecuador e Bolivia), mentre quelli provenienti da una tradizione di sinistra sono quelli considerati “moderati” (Brasile, Uruguay ed anche Cile). Vale perciò la pena di soffermarci su questo, cercando di avanzare alcune ipotesi preliminari.

1. La radicalità dei processi sudamericani non dipende soltanto dalle scommesse ideologiche dei governi (“carnivori” o “vegetariani”, per dirla con Álvaro Vargas Llosa), ma da una serie di precedenti traiettorie politiche e istituzionali, inclusi i livelli di sfiducia politica. Per questo è esploso il sistema dei partiti e lo stesso sistema politico è stato messo in discussione come una democrazia elitaria escludente (Bolivia, Venezuela ed Ecuador) e sono nate richieste di rifondazione del paese, riflesse nella convocazione di Assemblee costituenti. Tra le altre cose, queste si proponevano di farla finita con il “colonialismo interno” che, nel caso di Bolivia ed Ecuador (ma anche in Venezuela), escludeva materialmente e simbolicamente le maggioranze indigene, afro o meticcie.

2. La sinistra organizzata pervenuta al potere (il Partito dei Lavoratori brasiliano, il Fronte Ampio uruguayano e una parte del Partito socialista cileno, ai quali potremmo aggiungere ora il FMLN salvadoregno) ha subito direttamente l’impatto della crisi post-1989, che è sfociata in genere nell’approfondirsi della transizione verso il centrosinistra (uno sviluppo già parzialmente avviato in America Latina durante i processi di restaurazione democratica negli anni Ottanta, sospinto tra l’altro dall’autocritica sulla violenza negli anni Settanta). Lo stesso non è avvenuto, o è avvenuto in minor misura, per le sinistre più deboli e sparse, che hanno cercato una zattera di salvataggio nel nazionalismo e nell’indigenismo (il paese reale), come pure nell’antimperialismo. Questo forniva loro nuove fonti di radicalizzazione ideologica: la difesa della patria, la rivendicazione degli indigeni, il rifiuto della partitocrazia… L’elemento principale della rifondazione è che adesso “c’è patria per tutti”, l’asse dell’anti-neoliberismo.

3. Se, infatti, osserviamo con maggior dettaglio i processi più “radicali”, se ne può ricavare che la fonte della loro radicalità derivi dalla matrice nazionalista: antimperialismo, polarizzazione tra popolo e oligarchia, nazionalizzazioni, ricambio dei gruppi dirigenti al potere, ecc., e se è tornato all’ordine del giorno il socialismo (“del secolo XXI”), esso continua a essere concepito come l’approfondimento lineare del nazionalismo (non a caso, né Chávez, né Evo, né Correa sono soliti parlare di lotta di classe). In larga misura, inoltre, per la stessa natura “estrattivista” delle economie venezuelana, ecuadoriana e boliviana, entra in gioco una sorta di socialismo o nazionalismo geologico. La novità è, comunque, che il nuovo nazionalismo non pencola più tra la destra e la sinistra (come Vargas, Perón o Paz Estenssoro) ed è scomparso il suo risvolto anticomunista; in realtà, c’è un forte legame geopolitico/affettivo con il regime cubano.
Se osserviamo le sensibilità etico/morali, non è difficile avvertire che questi processi non solo mancano di radicalità, ma possono essere (perlomeno gli strati dirigenti) apertamente conservatori per quanto riguarda i diritti riproduttivi o quelli delle cosiddette minoranze sessuali e di genere. Un caso a parte è il kirchnerismo, che ha fatto di questi vessilli progressisti uno degli assi delle sue politiche, mostrando la pressoché infinita capacità del peronismo di assorbire le rivendicazioni e richieste più disparate e, in questo caso, estranee alla sua storia, anche quella più recente.

4. Il crinale sinistra/destra si trova ora, inoltre, a confronto non solo con la tradizione nazional-popolare (che propone l’alleanza nazionale interclassista, anche se ormai questa terminologia è desueta), ma con l’indigenismo e con svariate letture post e de-coloniali subalterne, che propongono come discrimine alternativo modernità/spirito coloniale vs. decolonizzazione/“visione alternativa”. È quel che accade in Bolivia ed Ecuador, dove la presenza maggioritaria o significativa di indigeni consente di costruire una serie di letture in termini di alterità radicale, che mettono in discussione con un’influenza nell’accademia statunitense la modernità/spirito coloniale. Per Mignolo, ad esempio, parlare di una “sinistra indigena” per contraddistinguere il Movimento al Socialismo di Evo Morales è una dimostrazione di “imperialismo di sinistra”, e per l’intellettuale aymara e dirigente dell’opposizione Simón Yampara, chi parla ancora di sinistra e di destra continua ad avere nel cervello il “chip coloniale”.


Non c’è dubbio che in paesi come la Bolivia una parte della sinistra abbia avuto atteggiamenti coloniali nei confronti degli indigeni. Il problema è che, se la lettura in termini di sinistra/destra non riesce a cogliere tutti gli elementi in gioco degli attuali processi di cambiamento, il minimo che si possa obiettare è che impostare le cose in termini di modernità/decolonializzazione non semplifica precisamente le cose, anzi aggiunge un’altra serie di problemi, soprattutto se prescindiamo da quel che i protagonisti dicono di se stessi e aggiungiamo alle interviste ai portavoce osservazioni di campo, dense descrizioni e persino note etnografiche sui subalterni realmente esistenti.

5. In realtà, il problema della validità del termine sinistra non si riferisce alla sua capacità di segnare un grosso spartiacque del campo politico contro la destra (anche se i nuovi governi popolari hanno certamente riattivato una lettura delle polemiche esistenti in quei termini). La sua potenzialità è connessa a obiettivi più limitati, ma non meno forti: un’agenda di sinistra può porre in discussione temi che non affronteranno né il nazionalismo né l’indigenismo, in vista della trasformazione democratica radicale della società. Oltre alla citata agenda anticonservatrice sul piano etico-morale, la sinistra dovrebbe riprendere letture economico-sociali del conflitto sociale che le concezioni binarie del nazionalismo leggono semplicemente in termini politici (o con la rivoluzione o contro di essa). Lo stesso vale per discussioni su eventuali articolazioni Stato/mercato – che gli indigenisti riducono a versioni volgarizzate della complementarità e i nazionalisti a letture politicistiche (imprenditori “patriottici” o “anti-patriottici”, ad esempio) o a illusioni sviluppiste di matrice “anni Cinquanta”! Su questo, occorre un vero e proprio bilancio critico delle esperienze del socialismo reale, che comprenda anche la vicenda cubana. Azzerare la pertinenza della validità del termine “sinistra” suole spesso dar vita al silenzio su questa agenda, che è invece nevralgica quando c’è da pensare il cambiamento politico, sociale e culturale.

Alla luce degli attuali processi, non si tratta di rivendicare il privilegio ontologico della sinistra su altre matrici e tradizioni, ma di pensare una possibile articolazione tra sinistra, nazionalismo popolare e democratico e indianismo/decolonizzazione per riflettere su un progetto di emancipazione che spieghi e si batta contro una pluralità di oppressioni. Questo non ha nulla di particolarmente nuovo: la novità è comunque che non si tratta ormai solo di un dibattito teorico di fronte a un pubblico accademico, ma di una discussione che determina concrete prese di posizione di fronte ai governi “popolari” realmente esistenti.