domenica 10 giugno 2012

Assaggio de "Lo zen e l’arte della scrittura"

di Ray Bradbury
«Ogni mattina io salto giù dal letto e mi metto a camminare su un campo minato.
Il campo minato sono io.
Dopo l’esplosione, passo il resto della giornata a rimettere insieme i pezzi.
È il tuo turno, adesso. Salta!»
R.B.

Nel volume pubblicato per i tipi di DeriveApprodi  (tradotto da Paolo Nori), di  cui abbiamo preso a prestito il pezzo tratto dall’introduzione per ricordare uno dei massimi esponenti della letteratura del novecento, uno dei più grandi scrittori di fantascienza ci parla dei suoi primi dilettanteschi racconti, dell’origine dell’amore per la fantascienza e di come gli sono venute le idee più importanti per i suoi romanzi.” Le ricette che si trovano in questa «dieta dello scrittore» non sono banali consigli, ma un vero e proprio elogio della vita e dell’ostinata volontà di raccontarla. Lo zen e l’arte della scrittura è più che un manuale per aspiranti scrittori: è una celebrazione dell’atto stesso di scrivere. Incoraggia a seguire un’unica regola: i propri istinti e le proprie passioni. E mostra come il successo di uno scrittore dipenda da quanto conosca bene un unico argomento: la propria vita”.
Ray Bradbury è nato nel 1920 a Waukegan (Illinois). Tra i suoi libri più conosciuti Fahrenheit 451 e Cronache marziane. È scomparso il 6 maggio 2012
A volte sono sbalordito di come, a nove anni, ho saputo capireche ero in gabbia e sono riuscito a scappare.
Com’è possibile che quel ragazzo che ero nell’ottobre del 1929 potesse, per le critiche dei suoi compagni di quarta, strappare i suoi fumetti di Buck Rogers e un mese dopo giudicare i suoi amici dei deficienti e ricominciare a collezionarli?
Da dove venivano quel giudizio e quella forza? Che razza di processo ho sperimentato che mi portasse a dire: sto morendo. Chi mi sta uccidendo? Di cosa soffro? Qual è la cura?
Ovviamente ero capace di rispondere a tutte le domande. Diedi un nome alla malattia: il fatto di aver strappato i fumetti. Trovai la cura: rimettermi a collezionare, non importa cosa.
E lo feci. E fu ben fatto.
Ma ancora. A quell’età? Quando eravamo abituati a subire una tale pressione?
Dove ho trovato il coraggio di ribellarmi, di cambiare la mia vita, di vivere da solo?
Non voglio sopravvalutare tutto questo, ma, porca miseria, mi piace quel ragazzino di nove anni, chi accidenti fosse. Senza di lui, non sarei arrivato a scrivere l’introduzione a questi saggi.
Una parte della risposta, senz’altro, sta nel fatto che io ero così innamorato di Buck Rogers che non potevo vedere il mio amore, la mia vita, il mio eroe distrutti. È quasi semplice. Era come vedere il tuo migliore amico, amatissimo, fratello, centro della vita, sparire, o essere colpito da un fucile da caccia. Agli amici, quando vengono uccisi così, non si può evitare il funerale. Buck Rogers, ho capito, poteva conoscere una seconda vita, se gliel’avessi data. Così ho soffiato nella sua bocca e op, è saltato su e si è messo a camminare e ha detto, cosa?
Grida. Salta. Gioca. Lascia perdere questi figli di puttana. Non vivranno mai nel modo in cui vivi tu. Vai e fallo.
Solo, non ho mai detto Figli di puttana. Erano parole che non si potevano dire. Eck! era più o meno quello che mi veniva concesso. Stai al mondo!
Così ho fatto collezione di fumetti, mi sono innamorato delle fiere e delle esposizioni universali e ho cominciato a scrivere. E cosa ci insegna, mi chiederete voi, il fatto di scrivere?

Prima di tutto ci ricorda che siamo vivi, e che questo è un dono e un privilegio, e non un diritto. Dobbiamo guadagnarci la vita, una volta che ci è stata concessa. La vita chiede in cambio delle ricompense per averci concesso l’animazione.
Quindi mentre la nostra arte non può, come vorremmo potesse, liberarci dalle guerre, dalle privazioni, dall’invidia, dall’avidità, dalla vecchiaia o dalla morte, ci può rivitalizzare nel mezzo di tutto questo.
Secondariamente, vivere è sopravvivere. Ogni arte, ogni buon lavoro, naturalmente, lo è.
Non scrivere, per molti di noi, equivale a morire.
Dobbiamo armarci tutti i santi giorni, forse sapendo che la battaglia non può essere vinta del tutto, ma combattere dobbiamo, anche per poco. Il più piccolo sforzo per vincere significa, alla fine di ogni giorno, una specie di vittoria. Ricordate il pianista che disse che se non si fosse esercitato ogni giorno se ne sarebbe accorto lui, se non l’avesse fatto per due giorni se ne sarebbero accorti i critici, dopo tre giorni gli spettatori, se ne sarebbero accorti.
Questo è vero in parte per gli scrittori. Non che il vostro stile, qualsiasi esso sia, si dissolva nel giro di pochi giorni.
Ma quello che succederebbe è che il mondo vi raggiungerebbe e proverebbe a disgustarvi. Se voi non scriveste tutti i giorni, i veleni si accumulerebbero, e voi comincereste a morire, o a fare pazzie, o entrambe le cose.
Dovete essere ubriachi di scrittura, in modo che la realtà non possa distruggervi.
Perché la scrittura ammette esattamente la verità, la vita, la realtà che voi siete capaci di mangiare, bere, digerire senza iperventilare e cadere come un pesce morto nel vostro letto.
Ho imparato, nei miei viaggi, che se resto un giorno senza scrivere comincio ad agitarmi. Due giorni e mi vengono dei tremiti. Tre giorni e do segni di pazzia. Quattro e potrei benissimo essere un maiale che si rotola nel fango. Un’ora di scrittura è un tonico. Sono sulle mie gambe, corro in cerchio e strillo per avere un paio di ghette pulite.
Quindi di questo, in un modo o nell’altro, si parla in questo libro.


Prendere un pizzico di arsenico ogni mattina per poter sopravvivere fino al tramonto. Un altro pizzico di arsenico al tramonto per poter più che sopravvivere fino all’alba.
La microdose di arsenico che inghiottite adesso vi prepara a non essere avvelenati e distrutti più tardi.
Il lavoro nel mezzo della vita è questa dose. Manipolare la vita, mischiare le sfere brillanti e colorate con quelle scure, miscelare una varietà di verità. Usiamo i grandi e bei fatti dell’esistenza per unirli agli orrori che ci affliggono direttamente nelle nostre famiglie e nelle nostre amicizie, o attraverso i giornali o la televisione.
Gli orrori non devono essere negati. Chi tra di noi non ha avuto un amico morto di cancro? Qual è la famiglia un cui componente non sia stato ucciso o mutilato da un’automobile? Non ne conosco una. Nella mia stessa cerchia una zia, uno zio e un cugino, così come sei amici, sono stati distrutti da un’automobile. La lista è infinita e ci annienterebbe, se non ci opponessimo a essa creativamente.
Il che significa scrivere come cura. Non del tutto, certo. Non supererete il fatto che i vostri genitori sono in ospedale, o il vostro più grande amore all’altro mondo.
Non userò la parola «terapia», è una parola troppo pulita, troppo sterile. Io dico solo che quando la morte rallenta gli altri, voi dovete saltar su e preparare il vostro trampolino e tuffarvi di testa prima di tutto sulla vostra macchina da scrivere. I poeti e gli artisti di altri tempi, del passato remoto, sapevano tutto quello che ho scritto qui, o che metterò nei saggi che seguono. Aristotele l’ha ripetuto per secoli. L’avete ascoltato, ultimamente?
Questi saggi sono stati scritti a più riprese lungo un periodo di trent’anni, per esprimere speciali scoperte, per servire speciali bisogni. Ma non fanno che riecheggiare le stesse verità di autorivelazione esplosiva e continuo stupore su ciò che la vostra interiorità contiene se la strapazzate e la fate star zitta.
Proprio mentre scrivo queste cose, mi arriva una lettera da un giovane, sconosciuto scrittore, che dice che si metterà a vivere seguendo il mio motto, che ha trovato nel mio Toinbee Convector.
«… mentire gentilmente e provare la menzogna veritiera … tutto è infine una promessa … quello che sembra una menzogna è un bisogno sgangherato, che vorrebbe essere nato …».
E ora:
Ne ho composto uno simile per descrivere me stesso negli ultimi tempi. Può essere vostro.
Ogni mattina io salto giù dal letto e mi metto a camminare su un campo minato. Il campo minato sono io.
Dopo l’esplosione, passo il resto della giornata a rimettere insieme i pezzi.
È il tuo turno, adesso. Salta!


 Ray Bradbury, Lo zen e l’arte della scrittura. Libera il genio creativo che è in te (traduzione di Paolo Nori),DeriveApprodi, pp.128, 2012