-E. LEONARDI / G. PISANI-
dalle note di contesto rileviamo il quadro di riferimento teorico posto sul tema del
reddito di base che mette a confronto: da un lato, il liberalismo
neocontrattualista rivisto all’interno del paradigma della giustizia rawlsiana,
dove si ammette «un “minimo sociale” fra le istituzioni della giustizia
distributiva, per bilanciare le iniquità prodotte dal mercato»; dall’altro, la visione neoperaista che rivendica la legittima appropriazione comune dei
frutti della cooperazione sociale. Il reddito primario di base incondizionato è pertanto il «dispositivo diretto alla retribuzione della vita produttiva»
Negli
ultimi anni, in Italia come in tutta Europa, è divenuta sempre più centrale la
discussione attorno al reddito di base incondizionato. L’ampio dibattito ha
riguardato innanzitutto le giustificazioni teoriche del dispositivo, che si
ispirano a modelli filosofici anche molto diversi. Riprendiamo qui brevemente –
rischiando inevitabilmente alcune semplificazioni – le posizioni delle
principali scuole filosofiche sul reddito di base, certi che la lettura delle
risposte al nostro questionario potrà chiarire i nodi cruciali del dibattito.
In
primo luogo si è affermata un’importante scuola liberale che mira inquadrare il
reddito all’interno di un modello di giustizia distributiva, sulla base delle
mutate condizioni del lavoro e della produzione. Tale discussione, stimolata in
questi anni dalla riflessione di Philippe van Parijs1, si è concentrata attorno alla definizione di cosa si
intenda per “società giusta”, entro un quadro neocontrattualista – spesso
ispirato alla teoria di John Rawls – che afferma la centralità di inclusione,
coesione e pace sociale. Com’è noto, nell’ambito della teoria rawlsiana la
società viene intesa come un sistema di cooperazione sociale il cui funzionamento
è garantito dal fatto che ciascuno contribuisca secondo il proprio ruolo,
derivante dalle capacità e dalle opportunità a disposizione. Certamente l’idea
del reddito minimo universale cozza con tale modello. Da qui la famosa
affermazione di Rawls, secondo cui “chi passasse tutto il giorno a fare surf
sulle spiagge di Malibù, dovrebbe trovare il modo di mantenersi, e non avrebbe
diritto a risorse pubbliche”2.
Rawls ammetteva un “minimo sociale” fra le istituzioni della giustizia
distributiva, per bilanciare le iniquità prodotte dal mercato3. Quest’ultimo, infatti,
non è in grado, da solo, di liberare gli individui dal bisogno. Ma si tratta di
un provvedimento eccezionale, così come la disoccupazione era, al tempo in cui
Rawls scriveva, un evento assolutamente provvisorio. Nell’ambito del
liberalismo neocontrattualista, oggi, vengono assunti i mutamenti intervenuti
nel modello di produzione e reinquadrati all’interno della teoria della
giustizia rawlsiana. Se è vero che oggi ad essere produttive sono anche le
relazioni immateriali che si sviluppano al di fuori del contratto di lavoro, è
giusto che ad essere retribuiti siano tutti coloro che partecipano alla
produzione. Il reddito universale, allora, diviene un dispositivo
imprescindibile all’interno di un quadro teorico che implica la reciprocità
come principio fondamentale della giustizia4.
Nella visione neo-operaista, il reddito di base si oppone all’appropriazione
privatistica, da parte del capitale, dei frutti della cooperazione sociale
attraverso la rendita. Il dispositivo, allora, è diretto alla retribuzione
della vita produttiva. Come scrive Antonio Negri, “quando nella produzione del
General Intellect il principale capitale fisso diviene l’uomo stesso – allora,
con questo concetto bisogna intendere una logica della cooperazione sociale
situata al di là della legge del valore […]. In tale prospettiva si situa la
lotta per l’instaurazione di un Reddito sociale garantito incondizionato e
concepito come un reddito primario, cioè non legato alla redistribuzione (come
un RMI, Reddito Minimo di Inserimento), ma all’affermazione del carattere
sempre più collettivo della produzione di valore e di ricchezza. Esso
permetterebbe di ricomporre e rafforzare il potere contrattuale dell’insieme
della forza lavoro sottraendo al capitale una parte del valore catturato dalla
rendita”5. Certamente il
reddito, all’interno di tale quadro teorico, non va inteso in senso meramente
produttivistico. La produzione di cui parla Negri è innanzitutto produzione di
soggettività, connessa con forme di vita e di autoprogettualità, più che con il
contributo economico offerto al mercato. Il reddito non consiste in un punto di
arrivo, nella mera formalizzazione di un processo di emancipazione già
avvenuto. Esso rappresenta piuttosto il primo passo nell’ambito di un
necessario processo di riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale,
che non può che passare attraverso la definizione costituente di una gestione
realmente democratica del comune. Come egli scrive, “[l]a lotta attorno al
reddito (al ‘reddito di cittadinanza’ nella fattispecie) è innanzitutto un
mezzo – un mezzo per la costruzione di un soggetto politico, di una forza
politica […] È a partire da questo passaggio, da questo uso costituente della
lotta per la definizione e il riconoscimento di un soggetto politico – è solo
risalendo da questo passaggio che sarà poi possibile aprire una lotta non
limitata alla trattazione del salario di cittadinanza, ma rivolta alla
riappropriazione del comune e alla sua gestione democratica”6. Nell’ambito del
costituzionalismo, il reddito di base viene legato al diritto all’esistenza
libera e dignitosa. Come rileva Stefano Rodotà, il reddito libera dall’angustia
della povertà ma anche dal “ricatto del lavoro”. Come egli scrive, “torna così
il riferimento all’‘esistenza libera e dignitosa’, in un sistema nel quale il
principio di solidarietà, esplicitamente affermato dell’articolo 2 della
Costituzione, può strutturare l’accesso alle risorse necessarie per il libero
sviluppo della personalità (ancora l’articolo 2) con una varietà di forme,
tutte concorrenti a quel fine”7.
Tra le critiche più frequenti al reddito di base c’è quella di sottovalutare
l’importanza del lavoro, bypassando i problemi oggi relativi all’occupazione e
alla contrattazione, stimolando l’assistenzialismo. Come scrive Laura
Pennacchi, “il reddito di cittadinanza si configura inevitabilmente come ‘compensazione
ex post’ dei disagi derivanti dalla mancanza di lavoro e non può affrontare in
termini strutturali le problematiche che la crisi globale ci pone, a partire
dalla necessità di ridisegnare l’intero modello di sviluppo”8.
1 Cfr.
P. Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, UBE, Milano 2006
2 J. Rawls, La priorità del giusto e idee
del bene, in Id., Saggi. Dalla giustizia come equità al liberalismo politico, a
cura di S. Veca, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 211 (nota 7)
3 Cfr.
J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982, p. 234
4 Cfr. C. del Bò, Basic income e teoria
liberale, in Aa.Vv, Reddito per tutti, Manifestolibri Roma 2009, p. 92
5 A. Negri, Il rapporto capitale/lavoro
nel capitalismo cognitivo, in Id., Inventare il comune, DeriveApprodi 2012, p.
199
6
Ivi, pp.185-186
7 S.
Rodotà, Solidarietà, Laterza, Roma-Bari 2014, pp.79-80
8 L. Pennacchi, Lavoro, e non reddito, di
cittadinanza, in www.sbilanciamoci.info
proponiamo le “note di contesto” della “Monographica I- Il reddito di base” curata da Leonardi e Pisani
(pubblicata su ETICA & POLITICA- Rivista di filosofia”, UNITS-2017)
(pubblicata su ETICA & POLITICA- Rivista di filosofia”, UNITS-2017)
EMANUELE LEONARDI Centro de Estudos Sociais
Università di Coimbra leonardi@ces.uc.pt
GIACOMO PISANI Dipartimento di
Giurisprudenza Università di Torino giacomopisani@hotmail.it