.Giovanni Di Benedetto-
L’impresa letteraria e filosofica di Raineri si colloca all’incrocio di alcune grandi narrazioni teoriche e di alcune tra le più significative tradizioni di pensiero: sono contemplate le tradizioni della marxiana critica dell’economia politica, quella del pensiero della differenza di genere, il pensiero ecologico e la psicoanalisi lacaniana. Ma anche il sapere religioso e teologico della tradizione biblica, dei Vangeli e dell’Antico Testamento; infine quello della sapienza nonviolenta di Lanza del Vasto e del suo maestro, il Mahatma Gandhi. È possibile che, in prima battuta, il libro possa provocare una sorta di spiazzamento dovuto all’utilizzazione di svariati registri stilistici; tuttavia si tratta di poca cosa se rapportata al modo profondo con cui argomenti e tematiche, anche autobiografiche, vengono affrontati.
Perché la scelta dell’autore è una scelta coraggiosa, è l’opzione di ridefinire lo spazio della politica abbandonando, o almeno facendo i conti, con quella dimensione che si riduce alla gestione del potere. C’è, infatti, nel libro, una volontà di rischiaramento e di intrepida fiducia nel futuro, di ricerca di senso che mostra, con una lucidità senza pari, quanto inutili siano i rituali a cui si è ridotta oggi la «militanza», quanta poca esperienza di vita entri nelle analisi sistemiche dei professionisti della politica, quanta violenza si portino spesso dentro i proclami di burocrati ed esperti.
Al contrario, lo scritto di Raineri ha un pregio oggigiorno molto raro nel mondo della cultura e dell’impegno civile e politico. Le sue parole costringono il lettore a pensare, come se fossero, per dirla con Hegel, espressione dello spirito del tempo appreso col pensiero. Come si diceva, la tesi principale è che l’attuale situazione del tempo storico esige un tipo di consapevolezza nuova: le crisi sistemiche, le guerre e le epidemie dicono che, oggi, è “la vita in quanto umana ad essere minacciata dalla peste” (55). Al tempo della globalizzazione capitalista si impone un tipo di minaccia che consiste nell’instaurazione di un ordine fondato sul controllo dell’economico e sul governo militare tramite la guerra: da qui la reductio ad unum, ossia “il tentativo di ridurre ad uno culture e saperi, sradicando radici e svellendo identità vecchie di millenni, per inaridirne la vita” (59). Mettere a repentaglio la condizione umana significa sottrarre a tutti il convincimento che il bene esista (64).
Seguendo una chiave di lettura psicoanalitica, Raineri sostiene che per rispondere alla rivoluzione antiautoritaria e antipatriarcale del ’68 il potere politico si è riorganizzato rinunciando alla restaurazione dell’autorità del Padre, il principio d’autorità, per assumere il discorso del capitalista fondato sul godimento senza limiti. Il potere maschile ritorna a imporre il proprio dominio, ma lo fa come potere perverso che, promettendo godimento per tutti, instaura il totalitarismo dell’oggetto. Tuttavia, il potere perverso del godimento compulsivo nega la dimensione fondamentale della condizione umana, ossia la pluralità, che si realizza nella “relazione all’altro nella sua irriducibile alterità” (99). Chi scrive è convinto che quella straordinaria esperienza sociale e collettiva che viene definita come movimento del ’68 sia stata la prosecuzione, il compimento e l’inveramento dell’azione dello Stato Sociale nel corso dei Trenta gloriosi, il periodo del Novecento di sviluppo economico e sociale che si apre con il secondo dopoguerra e si chiude con la crisi degli anni ’70. Si inaugura allora, pena l’eutanasia del capitalista, la controffensiva padronale, che ha luogo, soprattutto ma non solo, attraverso la trasformazione tecnologica della struttura produttiva, che si appropria e colonizza l’immaginario collettivo nella forma della società dello spettacolo (100). È il dispiegarsi totale del capitale nella sua forma astratta, che domina incontrastato e che impone alla società tutta il denaro come unica forma di mediazione sociale, unico tramite del rapporto sociale.
In questo quadro il combinato disposto, determinato dall’intrecciarsi di queste dimensioni parallele, la virulenza della crisi economica e sociale capitalistica e lo smottamento del principio di autorità come fondamento morale del potere, corrode le fondamenta su cui si regge l’essere comune della vita in quanto umana: da qui il prevalere della dimensione di consumo nel rapporto del soggetto col mondo (in sostituzione del lavoro), la virtualizzazione della vita e la finanziarizzazione dell’economia. Le pagine nelle quali vengono prese in esame queste questioni sono molto belle e molto profonde.
È dunque il diluvio, sostiene Raineri, il tempo della catastrofe a qualificare il contemporaneo. E per reggere al diluvio (194-195) occorre una profonda consapevolezza della gravità dei tempi, un pensiero radicale, capace, cioè, di andare alla radice delle questioni più importanti e complesse. Un sapere intorno al tempo presente, consapevole della violenza degli uomini nei confronti di altri uomini e della madre Terra. Un sapere in grado di costruire “ambiti comunitari” (201) fondati sulla reciprocità dell’essere in debito e, quindi, sulla gratitudine, la cura e l’umanità. L’autore, sulla scia dell’insegnamento della pratica femminista, “domanda un rivolgimento dell’ordine simbolico in cui sono inscritte le soggettività date” (206) e invita il lettore a prendere consapevolezza delle potenze oppressive che occorre fronteggiare e che si configurano come una vera e propria forma di vita.
È così che la dimensione della politica si riduce oggi a mera amministrazione, avendo oramai perduto quella capacità di elaborazione di una prospettiva utopica credibile e, di conseguenza, perseguibile. Scompare qualsiasi tentativo di mantenere viva la dimensione profetica dentro l’agire politico, per produrre un cambiamento significativo della condizione umana: e se occorresse cercare altrove lo spazio in cui generare una nuova potenza creativa?
Già si sente levare l’obiezione che il punto di vista politico rivolge al punto di vista etico: la creazione di ambiti comunitari potrebbe significare la fondazione di isole indifferenti al sistema di dominio o che potrebbero ingenerare un effetto di calmieramento degli effetti della crisi. Il punto è che sopravvivere al diluvio necessita di dismettere l’idea che la comunità si fondi su un’autorità depositaria del monopolio della violenza. Ci si chiede: la vita comune può esistere senza la violenza della punizione e senza l’odio per il nemico? È possibile oggi, nella congiuntura attuale, l’edificazione (207) dell’umanità comune delle mille differenze? (212).
Se è vero che il tempo presente è il tempo della crisi, che impone l’obbligo categorico di ripensare modelli esistenziali e paradigmi di pensiero, è anche vero che è necessario, per invertire la tendenza, un lavoro di lunga lena, certosino e molecolare. L’evento risolutivo è di là da venire. Da qui il bisogno profondo di impegnarsi in una nuova ricerca, in grado di aprire a una prospettiva inedita e più ampia. Il punto è ricostruire le condizioni di possibilità per rendere pensabili, e dunque praticabili, nuove forme di vita. Sono molte le questioni presenti nel testo di cui sarebbe interessante trattare analiticamente, magari prese per sé, singolarmente. Si rammenti la grande tragedia, effetto del capitalismo globalizzato, delle migrazioni e della conseguente incapacità di fare realmente i conti con l’altro, il tema dell’impossibilità degli adolescenti di aprirsi alla speranza, la questione dell’evaporazione del ruolo del padre, il tema del discorso del capitalista, la concettualizzazione arendtiana, la meditazione sul sacro e così via.
Il testo chiude con queste significative parole: “il primo passo è uscire dalle nostre case, dalle nostre comunità, essere presenti accanto a chi subisce violenza, ed insieme camminare accanto ai tanti in movimento animati da un’irriducibile sete di giustizia. Essere presenti. La presenza è ciò che occorre imparare, con un lavoro metodico su noi stessi.” (311). Pubblico e privato vanno insieme, collettivo e individuale non sono separabili. Quello dell’autore è dunque un invito pressante: Raineri ammonisce il lettore a ricordare che l’orizzonte verso il quale tendere è quello della realizzazione di comunità plurali che sappiano custodire il valore delle differenze e dell’alterità. Soprattutto, è la sollecitazione a non dismettere la ricerca su se stessi per elaborare forme di soggettività all’altezza della sfida imposta dalla catastrofe e, al contempo, a non abbandonare, entro la sfera pubblica, la strada dell’impegno collettivo.