fra nuovi autoritarismi e diritto internazionale– Fabio Simonato –
Un autore che ha affrontato il tema della generale torsione autoritaria dello stato avvalendosi anche degli strumenti introdotti da Pasukanis è Antonio Negri. Scopo principale del testo Rileggendo Pasukanis è contrastare le letture “revisioniste”[1] – caratterizzate come “istituzionali, privatistiche e sociologiche”[2] – del giurista russo per riattivarne l’attitudine rivoluzionaria. Queste interpretazioni vorrebbero Pasukanis fautore di uno “sviluppo rettilineo ed istituzionale”[3] del diritto pubblico sulla base dello scambio commerciale (e quindi del diritto privato), uno sviluppo sostanzialmente pacificato in cui le contraddizioni inerenti alla forma stessa della merce e del diritto sono obliate. Ciò porta inevitabilmente ad un addomesticamento della radicalità rivoluzionaria propria dell’opera di Pasukanis, radicalità che va ricerca nel “nesso fra scambio nel mondo delle merci e capitale complessivo, – autorità, comando dello Stato”[4]. La semplice fondazione “piana” dell’ordine statuale rispetto a quello privatistico non coglie la potenzialità rivoluzionaria che si annida nella contraddizione fra organizzazione del lavoro per mezzo del diritto privato e il comando autoritario su di esso per mezzo dell’azione coercitiva dello stato. L’esposizione di questa antinomia immanente e necessaria alla forma giuridica è per Negri il vero nucleo sovversivo dell’opera di Pasukanis. Le categorie del diritto “soggetto contratto proprietà processo” che “sembrano darsi nella continuità di un processo formativo e istituzionale”[5] sono in realtà collocate in un divenire colmo di discontinuità e contraddizioni che tenta di mistificare lo sfruttamento capitalistico. Lo scambio non è qui considerato come lo scambio commerciale tout court ma lo specifico scambio fra capitale e forza lavoro che “vive ormai solo dentro la dinamica dello sfruttamento”[6]. Il diritto va quindi considerato come la forma autoritativa che si innesta sulla relazione salariale. L’indagine negriana si muove interamente sul piano della contraddizione fra diritto privato (l’organizzazione) e diritto pubblico (il comando) e sul piano della conflittualità di classe nel dipanarsi di questa antinomia: nell’opera del giurista russo lo stato e l’ordinamento giuridico non devono essere sovrapposti, il primo sorge sì dal secondo ma non ne costituisce la totalità. Il nucleo centrale della impostazione di Pasukanis è per Negri “l’irriducibilità dello Stato al diritto, e contemporaneamente il nesso dialettico strettissimo che li stringe” [7]. È qui che viene raggiunta la piena radicalità del discorso marxiano.
La lettura del teorico padovano ha ampio fondamento: Pasukanis rileva più volte l’insolubile tensione fra l’ordinamento coercitivo dello stato e l’ordinamento giuridico. Lo stato come organizzatore del dominio di classe (e come difensore dei confini) è impermeabile alla “interpretazione giuridica”, che invece è consustanziale allo stato come garante dello scambio mercantile. Questi due momenti dello stato sono inconciliabili: “ogni teoria giuridica che voglia ricomprendere tutte le funzioni appare quindi sempre inadeguata” destinata a fornire “una interpretazione ideologica, e quindi alterata della realtà” [8]. Tale contraddizione pone su poli inavvicinabili il rapporto di dominio e “l’orizzontalità dei rapporti fra liberi proprietari”[9]: la mistificazione ideologica si costituisce proprio come il tentativo di farli convivere.
La contraddizione fra organizzazione e comando non si dà però come statica e immobile, occorre osservarla in movimento, nel suo sviluppo storico. Qui emerge la tendenza “dell’esasperazione della contraddizione che il diritto embrionalmente controlla e mistifica”[10]. Seguendo lo sviluppo storico dello sfruttamento capitalistico si può osservare il divenire della relazione contraddittoria fra organizzazione e comando che finisce con l’autonomizzazione del secondo. La contraddizione portante della relazione giuridica va quindi studiata tramite la “storia del processo dello sfruttamento e delle forze di classe entro questo processo”[11]. Negri ripercorre quindi i capitoli centrali de Il capitale, indagando lo snodo fra plusvalore assoluto e plusvalore relativo: è in questa seconda fase che il capitale “si impadronisce di tutte le condizioni di produttività” e “rivoluziona da cima a fondo i processi tecnici del lavoro e i raggruppamenti sociali”[12]: ciò implica che la dimensione coattiva del comando si fa interna alla organizzazione del lavoro. Il diritto, quindi, teso fra organizzazione “pacifica” del lavoro e comando violento, comincia ad affermarsi nella fase in cui si rende necessaria la riarticolazione del processo produttivo funzionale all’estrazione di plusvalore relativo; è la fase in cui non è più possibile un semplice aumento della giornata lavorativa ma si rende fondamentale la contrazione del tempo di lavoro necessario, abbassando il costo dei beni di prima necessità che “riproducono” la forza lavoro. È la fase della “sussunzione reale”, in cui il capitale comincia a plasmare concretamente l’organizzazione del processo produttivo, non semplicemente mettendo a regime di lavoro salariato le forme artigianali precapitalistiche. Si impone quindi la fase della cooperazione, in cui la coazione è necessaria allo stesso funzionamento della forza-lavoro organizzata all’interno del processo produttivo, “l’ordine del capitalista sul luogo di produzione diventa indispensabile come l’ordine generale sul campo di battaglia”[13], e della manifattura che “non si limita ad assoggettare l’operaio[…] ma crea fra gli stessi operai una scala gerarchica”[14]. Il diritto, quindi, viene posto direttamente in contatto con l’opera di disciplinamento della forza-lavoro all’interno della fabbrica. Da questa esposizione sembrerebbe che “la dialettica di organizzazione e comando” giunga all’identità[15], ma è proprio qui che Negri introduce la variabile fondamentale per la lettura operaista del testo di Pasukanis: l’antagonismo di classe, vero attore “tendenziale”, che determina di volta in volta la riarticolazione fra organizzazione e comando. Così al massimo grado di assoggettamento segue naturaliter il massimo grado di antagonismo e la configurazione della forma diritto come mistificata simbiosi di organizzazione e comando entra in crisi: ciò che prima era apparentemente unitario “esplode nella contraddizione”[16]. A fronte dell’antagonismo diffuso e della concentrazione del capitale le ragioni del comando cominciano a valere in quanto tali, il diritto “finisce col identificarsi nel mero comando – egemonia del diritto pubblico”, emerge lo Stato come fautore “di una ragione politica di organizzazione e perpetuazione del comando che deve ormai arbitrariamente e forzosamente dominare ogni ragione di scambio, ogni finzione di legittimità giuridica”[17]. Negri, quindi, vede in Pasukanis un attento osservatore della dinamica tendenziale in cui l’antagonismo connaturato allo sviluppo capitalistico spinge all’autonomizzarsi del comando, che fuoriesce da ogni giustificazione giuridica per finire col trovare la validità unicamente in sé stesso. “Lo stato come fattore di forza” diviene la “correzione” che il capitale deve operare alla struttura giuridica una volta che è esso è minacciato dalla lotta di classe: “quanto meno stabile diventò il dominio della borghesia, tanto più compromettente divenne tale aggiustamento e tanto più velocemente lo ‘Stato di diritto’ si delineò come un’ombra incorporea” [18]. La radicalità dell’analisi di Pasukanis va però misurata rispetto al tema della transizione verso il comunismo, tema che, come abbiamo visto, si era dissolto nello sviluppo dell’ortodossia sovietica. Ed è qui che il discorso del giurista russo va incontro a “un equivoco e un limite”, che è quello del socialismo come mera “socializzazione della proprietà”[19]. La transizione socialista non si porrebbe il problema dell’abolizione della legge del valore-lavoro come concreta scaturigine della proprietà capitalistica: la lotta per Negri va condotta necessariamente contro il lavoro salariato in sé. La semplice proprietà statale dei mezzi di produzione non è la condizione per l’estinzione dell’ordinamento giuridico:
“la transizione può essere solo uno spazio di lotta, un processo di estraniazione proletaria interpretato dalla lotta contro ogni forma di concretizzazione istituzionale dei rapporti di forza fra le classi a confronto” impossibile quindi ogni “uso alternativo del diritto che possa sostituirsi a questo processo.”[20]
La complessa lettura di Negri verrà ripresa in seguito da Giso Amendola per provare a sciogliere alcune impasse del dibattito radicale intorno ai commons. La questione si colloca all’interno della problematizzazione della difficile convivenza proposta da P. Dardot e C. Laval fra le nuove pratiche di istituzione dei beni comuni e la prassi rivoluzionaria. In tale visione quest’ultima finisce col caratterizzarsi come “trasformazione radicale dell’intera società” e contemporaneamente “produzione di istituzioni singolari nel presente”[21], proponendo di superare in qualche misura la cesura fra posizioni rivoluzionarie e riformiste. All’interno di questo quadro, fra rivoluzione e “invenzione di altre istituzioni”[22] si ripropone in un contesto teorico mutato la questione fondamentale dell’utilizzabilità del diritto in un percorso di emancipazione che si vuole anche rivoluzionario. L’autore osserva come la pratica istituente legata alla produzione di commons come fonte di una giuridicità alternativa e “autonoma dal monopolio pubblico delle fonti di produzione del diritto”[23] sia entrata nel lessico dei movimenti che hanno seguito la crisi finanziaria del 2008, in particolare Occupy Wall Street. È quasi naturale in questo contesto il ricorso a Pasukanis per interrogare la possibilità di un “diritto altro” che possa essere strumento diretto di una trasformazione radicale e che non venga immediatamente recuperato all’interno dei “dispositivi neoliberali”. La risposta, all’interno del testo di Amendola, non è così scontata come potrebbe apparire: anche se il giurista sovietico è certamente il più radicale fautore dell’impossibilità di qualsivoglia diritto proletario l’autore ritiene che un’analisi corretta possa farci “rivedere l’idea di un’opposizione netta tra ‘ estinzione del diritto’ e ‘invenzioni di nuove forme di diritto’”[24]. In Pasukanis rimarrebbe aperta quindi la possibilità di pensare a nuove forme di istituzioni radicalmente altre rispetto a quelle capitalistiche. Secondo Amendola permane la possibilità di un “diritto del comune”. È in questa cornice che viene ripresa la rilettura negriana di Pasukanis, centrata sulla contraddizione fra organizzazione e comando e l’azione soggettiva che in essa si muove. È nella lotta di classe che va cercata la soluzione al quesito iniziale, quando essa “costringe il comando a emergere in tutta la sua radicale esternalità rispetto alla logica dello scambio” [25] e rompe ogni possibilità di ricomposizione giuridica, sia anche lo stato socialista, come abbiamo visto “la proprietà sociale è solo un altro modo di organizzare lo sfruttamento”[26]. La lotta di classe è la messa in atto dell’estinzione del diritto. Qui per Amendola si incontra il limite della prospettiva del teorico russo: il processo di estinzione del diritto sarebbe posto unicamente come momento “destituente e distruttivo”, non più all’altezza delle mutate condizioni oggettive. La lotta di classe e l’estinzione del diritto vanno quindi ripensate nel contesto della cognitivizzazione della produzione in cui i soggetti non sono più semplicemente le figure del processo di circolazione delle merci ma i “nodi di una produzione socializzata e cooperativa”[27]. Per questa prospettiva, mutuata anche dalle opere tarde di Negri e Hardt, la produzione sociale sarebbe già pienamente dispiegata ed autonoma e il capitale, non svolgendo più un ruolo direttivo e organizzativo si limiterebbe ad appropriarsi in modo parassitario dei prodotti del lavoro vivo autonomamente organizzato[28]. Questi prodotti sono ora caratterizzati come comune che quindi costituisce “tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale”[29], il frutto della produzione “biopolitica”, ovvero della messa a valore della vita in quanto tale. La lotta sociale acquisirebbe i contorni di un “esodo istituente”[30], cioè di azione tesa a sottrarre il comune dalla logica estrattiva e parassitaria del capitale. È qui che per Amendola si incontra la possibilità del superamento sia di una logica meramente destituente, sia di quelle posizioni che vedono la prassi istituente dei commons solo come pratica riformista di costruzione di spazi “interstiziali, tra il pubblico e il privato”, tesi al mero rinnovamento delle istituzioni esistenti. Il punto è quello di far convivere questi ultimi con un processo di riappropriazione della produzione sociale complessiva in cui “la creazione di beni comuni […] viene utilizzata per produrre il piano complessivo del comune”[31]. In questo senso la produzione del “diritto del comune” si pone come diretta forma di produzione di contropotere e fondamento di legittimazione di istituzioni che si pongano al di fuori del dualismo fra pubblico e privato, come forme di riappropriazione di una cooperazione sociale ormai pienamente sviluppata e non più necessitante mediazioni giuridico-statuali. “Così intesi, il diritto del comune e l’estinzione del diritto sono due aspetti della trasformazione rivoluzionaria”, il secondo considerato come momento distruttivo delle istituzioni dello sfruttamento mentre il primo come momento di “produzione di un più alto livello di cooperazione, di invenzione di contropoteri duraturi, sebbene sempre parziali e aperti alla trasformazione”[32].
Un altro possibile utilizzo delle teorie di Pasukanis ci viene illustrato dallo scrittore e teorico britannico China Mieville, che tramite l’analisi della forma giuridica condotta dal giurista russo tenta di costruire una teoria del diritto internazionale di stampo marxista. Il testo, Between Equal Rigths[33], si inserisce nel dibattito riguardo lo statuto stesso del diritto internazionale, tentando di risolvere l’impasse determinata dall’assenza di un’autorità centralizzata (in questo caso sovranazionale) che promulghi il diritto. La questione riguardo la possibilità di pensare il diritto senza il riferimento alla sovranità statuale come autrice di esso rimanda inevitabilmente all’opera di Pasukanis, grazie a cui Mieville cerca di illuminare il problema. L’autore ritiene inoltre che questo confronto possa risolvere alcune aporie all’interno della Teoria generale del diritto e il marxismo provvedendo a chiarificare alcuni passaggi della stessa, correggendo l’impostazione del giurista sovietico e rendendola compatibile con le mutate condizioni oggettive del capitalismo globale. È proprio da queste “correzioni” che muove l’esposizione di Mieville. Il teorico inglese si trova ad argomentare contro l’accusa di inattualità rivolta al teorico russo: le tesi di Pasukanis sarebbero sì valide per il sistema capitalistico della prima metà dell’800, legato alla proprietà individuale del capitale e il laissez-faire, ma non sarebbero adeguate a descrivere il fenomeno giuridico come esso si configura a seguito dello sviluppo del capitalismo industriale e monopolistico che vedrebbe sorgere la proprietà collettiva e un maggior grado di intervento statale-amministrativo nel mondo economico, inficiando di fatto la considerazione eminentemente privatistica del diritto da parte del autore russo. Il capitale nel passaggio verso la grande industria di fine Ottocento avrebbe subito dei cambiamenti strutturali che renderebbero anacronistiche le tesi esposte ne La Teoria generale del diritto e il marxismo. Di tutt’altro avviso è Mieville che ritiene che, sebbene Pasukanis non rilevi concretamente questi mutamenti occorsi alla struttura oggettiva del capitale, i lineamenti fondamentali della sua teoria siano perfettamente estensibili agli sviluppi del modo di produzione capitalistico. In questo senso il tramontare del proprietario di impresa non è la fine del soggetto giuridico privato, ma la sua estensione a organizzazione collettive di proprietari. Queste, assieme alle prime forme di organizzazione operaia e alla contrattazione collettiva, determinano “un cambio nelle unità atomiche della relazione giuridica sulla base della relazione fra merci all’interno dello sviluppo dell’industrializzazione di massa e alla mercificazione della forza lavoro”[34]. Con lo sviluppo verso il capitalismo industriale si rende necessario anche un maggior intervento amministrativo, che Mieville non considera – dall’interno della teoria di Pasukanis – come antitetico al diritto ma come espressione pubblica della forma giuridica in mutate condizioni produttive. Ciò è determinato dall’incapacità delle leggi esistenti di intervenire adeguatamente nel tessuto sociale sfaldato dalle rinnovate condizioni del lavoro: la legge amministrativa è “il necessario, particolaristico e politico corollario della astratta formalità della forma giuridica”[35]. Questa opera tramite la riconduzione di casi particolari all’astratta uguaglianza formale e giuridica.
Per Mieville questa descrizione del fenomeno politico-giuridico può essere usata anche nell’ambito delle relazioni internazionali allo scopo di superare l’impasse legata all’autorità sovranazionale: tramite l’anti-normativismo di Pasukanis si è in grado di liberarsi delle aporie che caratterizzano la scienza giuridica internazionale. Per il teorico russo è il rapporto fra soggetti a costituire la reale relazione giuridica, non l’ordinamento giuridico normativo riconducibile all’autorità terza e impersonale rispetto ai soggetti. Egli stesso cita il diritto internazionale come forma che “non conosce una coercizione organizzata esterna”[36]. Quest’ultima segue il rapporto e serve per dare una garanzia e stabilità esterna alla disputa giuridica effettiva, ma il rapporto giuridico esiste anche al di fuori di essa: “il fatto che questo tipo di rapporti giuridici non garantiti ovviamente non si distinguano per stabilità non ci consente però di negarne l’esistenza”[37]. Il diritto internazionale come relazione fra soggetti eguali – gli stati nazionali – privi di un ordinamento giuridico superiore non è quindi estranea al diritto, ma partecipe della stessa forma giuridica del diritto domestico, ovvero quella che inerisce al diritto come rapporto fra soggetti proprietari finalizzata allo scambio commerciale. Il diritto internazionale sarebbe storicamente precedente a quello domestico, dovendo mediare i rapporti di mercato al di fuori della comunità e sorgerebbe anzi proprio in virtù della mancanza di un’autorità coercitiva esterna che possa garantire in qualche modo lo svolgimento dei contratti: “lo sviluppo del diritto come sistema è stato evocato non dai requisiti dello stato ma dalle condizioni necessarie per le relazioni commerciali fra le tribù che non erano soggette alla stessa sfera di autorità”[38]. Le prime relazioni “proto-internazionali” fra diverse comunità avrebbero quindi mimato quelli che sarebbero poi diventati i rapporti fra individui in una società capitalistica. Ovviamente il diritto internazionale si sviluppa con pienezza solo nel momento in cui si afferma lo stato moderno come attore principale all’interno delle relazioni extra-domestiche, ma sostiene Mieville sulla scorta di Pasukanis, la forma particolare di questo rapporto esiste già. Così “lo stato è centrale nello sviluppo del diritto, sia domestico che internazionale, ma non per la forma giuridica di per sé”[39].
Appare chiaro che il diritto internazionale così caratterizzato, come rapporto fra soggetti formalmente eguali senza un’autorità sovrana garante, va si connata come un rapporto innervato dai rapporti di forza effettivi. Come già sosteneva Marx ne Il Capitale “fra eguali diritti decide la forza”. A ciò serve anche la riarticolazione del rapporto merce-soggetti-violenza operata da Mieville, la quale rende possibile una interpretazione del diritto internazionale fondata sulla forza coattiva dei singoli attori in campo: “se ‘mio’ implica la forza in grado di impedire che la mia proprietà diventi ‘tua’ il furto diviene il fallimento di quella capacità di esercitare la forza e il successo della capacità di qualcun’altro”[40]. La violenza nell’ambito delle relazioni internazionali rimane però particolaristica, ovvero legata agli interessi di parte del soggetto che la esercita, non assume invece il carattere universalistico che ha l’azione coercitiva dello stato all’interno del diritto domestico. “Quando non ci sono ‘forza sociali regolative’ la coercizione rimane immanente ai partecipanti [della contesa]”[41] la relazione giuridica è quindi determinata solo dalle effettive capacità coercitive dei singoli partecipanti. Proprio per questo le relazioni sul piano internazionale mantengono anche un carattere privatistico: il piano del pubblico e del privato non sono qui nettamente distinguibili perché il diritto internazionale si presenta ad un tempo “astratto e particolaristico – pubblico e privato”[42]. La maggior forza coercitiva in quest’ambito implica la capacità di interpretazione del diritto, la possibilità di determinare se un comportamento sul piano internazionale sia legale o meno. Non esistendo un monopolio generale della forza in grado di stabilire un ordinamento giuridico stabile la legalità di certi atti rimane indeterminabile se astratta dai rapporti di forza che la sostengono, “tutto ciò che si può stabilire è se in una particolare congiuntura concreta la rappresaglia o qualsiasi altra attività viene di fatto trattata come illegale”[43]. Questa interpretazione della legalità è possibile solo sulla base di una concezione anti-normativistica che non veda il diritto come mero insieme di norme, ma come rapporto fra soggetti formalmente eguali e proprietari (in questo caso la proprietà è quella del territorio effettivo dello stato), la legalità è quindi ricacciata sul piano della contingenza e determinata dai rapporti di forza che si dipanano storicamente volta per volta. Le contraddizioni che questa concezione genera e l’impossibilità di stabilire una forma di legalità fissa astratta dai rapporti di potere, non sono difetti della teoria ma registrazioni sul piano teoretico dell’immanente contraddittorietà della forma giuridica stessa.
Note
[1] Il riferimento è probabilmente rivolto alle ricerche svolte da U. Cerroni e R. Guastini negli anni ‘70, in particolare il contributo di quest’ultimo La ‘teoria generale del diritto’ in URSS. Dalla coscienza giuridica rivoluzionaria alla legalità̀ socialista.
[2] A. Negri, Rileggendo Pasukanis, in Id. La forma Stato, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2012, p. 220.
[3] Ivi, p. 221.
[4] Ivi, p. 221.
[5] Ivi, p. 222.
[6] Ibid.
[7] A. Negri, La forma stato, p. 245.
[8] E. Pasukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, trad. it. di U. Cerroni, De Donato, Bari, 1975.
[9] G. Amendola, Estinzione del diritto o diritto del comune? Pashukanis e la Rivoluzione, in “Euronomade”, 2018, http://www.euronomade.info/?p=10208, visitato l’ultima volta in data: 17/09/2021.
[10] A. Negri, La forma stato, p. 228.
[11] Ivi, p. 230.
[12] Ivi, p. 232.
[13] K. Marx, Il capitale, I, trad. it. di Bruno Maffi, UTET, Torino, 1974, p. 455.
[14] Ivi,p. 490.
[15] A. Negri, La forma stato, p. 245.
[16] Ivi, p. 238.
[17] Ibid.
[18] E. Pasukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, p. 160.
[19] A. Negri, La forma stato, p. 256.
[20] Ivi, p. 260.
[21] G. Amendola, Estinzione del diritto o diritto del comune? Cit.
[22] Ibid.
[23] Ibid.
[24] G. Amendola, Estinzione del diritto o diritto del comune? Cit.
[25] Ibid.
[26] Ibid.
[27] Ibid.
[28] P. Maltese, D. Mariscalco, Lineamenti del comune, Machina, 2021, https://www.machina-deriveapprodi.com/post/lineamenti-del-comune, visitato l’ultima volta in data: 18/09/2021.
[29] A. Negri, M. Hardt, Comune, Rizzoli, Milano, 2010, p. 8.
[30] P. Maltese, D. Marescalco, Lineamenti del comune Cit.
[31] G. Amendola, Estinzione del diritto o diritto del comune? Cit.
[32] Ibid.
[33] C. Mieville, Between Equal Rights, Brill, Leiden, 2005.
[34] Trad. da C. Mieville, Between Equal Rights, p. 109.
[35] Ivi, p. 111.
[36] E. Pasukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, p. 101.
[37] Ivi, p.101.
[38] Trad. da E. Pasukanis, Selected Writings, p. 69.
[39] Trad. da C. Mieville, Between Equal Rights, p. 132.
[40] Ivi, p. 134.
[41] Ivi, p. 136.
[42] Ivi, p. 137.
Trad. da C. Mieville, Between Equal Rights, p. 143.
fonte:effimera
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