- Stathis Kouvélakis - Tenere insieme tutte le estremità
ricostruire un sindacalismo di lotta di classe Un bilancio della sequenza di mobilitazione sociale di gennaio-febbraio 2023 contro la riforma delle pensioni
Stathis Kouvélakis:Siamo alla vigilia della seconda sequenza del movimento [l’indomani ci sarebbe stato il primo sciopero generale di marzo, NdT]. Vorrei cominciare ritornando al periodo precedente, prima di tutto nel tuo settore, la SNCF [Società nazionale delle ferrovie francesi, NdT]. Qual è il tuo bilancio delle cinque giornate di mobilitazione di gennaio e febbraio? Quali sono i punti forti e i punti deboli del movimento? Quali sono gli elementi nuovi, se ce ne sono, rispetto alle mobilitazioni precedenti?
Laurent Brun: Il punto di forza è ovviamente il livello di mobilitazione, che è molto alto, in tutti i settori, anche nella dirigenza e persino nell'alta dirigenza. Il punto più problematico è l’indebolimento della partecipazione allo sciopero nel corso delle giornate di azione. Ciò non significa un abbandono della battaglia, ma dipende piuttosto da un’usura delle sequenze di sciopero occasionali. Certo, una parte dei salariati non sentono questa usura perché è il loro primo grande conflitto. Ma per la maggior parte dei ferrovieri, il moltiplicarsi di giornate isolate, dopo un po’, comincia ad essere un po’ troppo. Nonostante ciò, eravamo oltre il 30% della partecipazione, un livello simile a quello delle migliori giornate d’azione classiche. Alla prima giornata d’azione si era al 50% contando tutti i settori, il che vuol dire dall’80 al 90% per i dipendenti operativi e 30% per i dirigenti. Sono numeri altissimi.
Detto ciò, come CGT [Confederazione generale del lavoro, NdT] ferrovieri, ci siamo posti fin dall’inizio la questione dell’allargamento della mobilitazione, al di là di ciò che proponeva l’intersindacale della SNCF. Questa intersindacale si è basata fin dall'inizio sul quadro interprofessionale a livello confederale, in particolare a causa della CFDT [Confederazione francese democratica del lavoro, NdT], che non voleva assolutamente andare oltre questo quadro, almeno in un primo momento.
Quanto a noi, abbiamo cercato di riprodurre ciò che avevamo fatto nel 2018, ovvero non fermarci ad una giornata isolata, ma optare ogni volta per due o tre giorni di sciopero. In realtà, ciò non è stato compreso. Tranne i militanti, nessuno ci ha seguito. Credo che i colleghi avessero ben presente il fatto che eravamo in giornate di testimonianza, per cui un'azione del genere era valida solo se inserita nel quadro interprofessionale delle giornate occasionali. Ora stiamo passando alla seconda sequenza e siamo riusciti a convincerli che dobbiamo passare ad uno sciopero rinnovabile.
Un elemento importante nel bilancio della prima sequenza è che ci sono molti più settori mobilitati rispetto al 2019. Questa volta abbiamo veramente la sensazione di un movimento ancorato nella popolazione. Ciò dà forza perché permette di superare il trauma del 2019. Durante quel movimento, la mobilitazione dei ferrovieri era durata due mesi e mezzo, e abbiamo comunque avuto l’impressione di essere un po’ soli. Ciò non era proprio vero perché al nostro fianco c’erano la RATP [Ente Autonomo dei trasporti parigini, NdT], un po’ di professori, poi l’energia e un po’ di porti e di moli. Ma non dava comunque l’impressione di un movimento ampio. Inoltre, ciò ci è costato caro perché, da alcuni anni, la politica della direzione SNCF è di concentrare le giornate di sciopero sulle paghe. Concretamente, nel 2019, abbiamo avuto due mesi senza salario, il che ha fatto male.
SK: Come si presenta il movimento “dal basso” ovvero alla base nei luoghi di lavoro? In particolare qual è la tua valutazione della dinamica delle Assemblee Generali (AG)?
LB: Purtroppo non si può parlare di dinamica a livello delle AG, non è adatto a questo movimento. È un fenomeno che constatiamo da quatto, cinque o sei anni. Ci sono sempre meno ferrovieri che partecipano alle AG, probabilmente perché credono che la strategia venga decisa a livello nazionale e che, di conseguenza, pronunciarsi a livello locale sia un atto puramente formale. Ma questo non è l’unico motivo, c’è anche l’effetto dei social network. Non necessariamente si discute nelle AG, piuttosto si raccolgono informazioni e si hanno degli scambi sui social network.
È un vero problema per noi. Prima di tutto, perché meno persone ci sono alle AG, più incertezza c’è sulla strategia da adottare. Anche se molte cose sono effettivamente decise a livello nazionale, le AG permettono di valutare le grandi tendenze. Quando vediamo crollare la partecipazione, sappiamo che bisogna pensare ad altre tattiche, per rilanciare il movimento o farlo atterrare, in funzione dei dibattiti che emergono nelle AG.
Inoltre, usiamo le AG per pianificare le azioni. Abbiamo l’abitudine di dire che gli scioperanti devono essere attivi ogni giorno. Decidiamo le azioni su base quotidiana, che si tratti di blocchi dei caselli, di blocchi di aziende, delle distribuzioni di opuscoli, interpellanze di deputati, interpellanze della direzione della SNCF. Il paradosso è che abbiamo meno persone nelle AG e di più nelle manifestazioni.
Non credo che il problema sia solo nostro. La questione che si pone è sapere come portare avanti il dibattito e qual è un buon contesto per farlo. Ci poniamo, ad esempio, molte domande sulle consultazioni interne. Tradizionalmente, non eravamo molto favorevoli. Partivamo dal principio secondo cui la consultazione consiste innanzitutto nell’attivarsi nel sindacato, partecipare alla discussione, e, base a ciò, ognuno poi orienta il proprio posizionamento. Ovviamente c’è poi bisogno di una consultazione, ma prima di tutto c’è bisogno di un dibattito.
SK: Quando parli di consultazione intendi le vostre interne?
LB: Sì, ora stiamo pensando sempre di più di creare delle procedure di voto interno. Gli strumenti di cui disponiamo ormai permettono di farlo molto facilmente, anche senza dibattito preliminare. Tuttavia, bisogna trovare delle leve affinché i nostri iscritti restino attori dell’organizzazione in modo massiccio. Sappiamo che appena non appena si verificherà riduzione del coinvolgimento dei militanti, noi andremo in difficoltà. Bisogna riflettere su questo, ma ciò va ben oltre il contesto di questo conflitto.
SK: Un’altra questione che si pone è forse quella del livello in cui ha luogo il dibattito, di un modo più decentralizzato che ponga l’accento sul contesto locale.
LB: nella nostra federazione abbiamo deciso di conservare un’organizzazione geografica locale. Con 306 sindacati locali, abbiamo già lo spazio per poter accogliere le e i salariati. Ma l’azienda SNCF non è più strutturata in questo modo, il che crea nuove difficoltà. Noi ci sforziamo di mantenere ad ogni costo il legame tra, ad esempio, un ferroviere della rete viaria e un macchinista, ma ciò diventa molto complicato perché ci sono interessi divergenti. Non si hanno gli stessi capi e non si ha più la stessa organizzazione del lavoro.
SK: È proprio questa la domanda che volevo farti. Il processo di spacchettamento della SNCF messo in atto dai successivi governi non crea delle difficoltà strutturali per l’azione e la mobilitazione sindacale?
LB: Sì, certamente. Il fatto di mantenere l’organizzazione geografica, con una scala regionale e locale, ci permette di essere molto efficaci per alcune azioni, in particolare per lo sciopero rinnovabile: siamo tutti in sciopero assieme, la barriera della mia attività e della mia azienda non c’è più. Invece, nel quotidiano, sulle questioni istituzionali ed in parte su quelle rivendicative ciò diventa più complicato. Quando non avete più a che fare capo locale ma con quello dell’asse TGV, se non si ha una struttura sindacale che permette di interpellare il capo di quell’asse è un problema. Bisogna quindi trovare una forma di coordinamento che permetta di rispondere ai cambiamenti ma, allo stesso tempo, non vogliamo modellarci in quel modo perché rischieremmo di isolare i e le salariate le une dalle altre e di istituzionalizzarci. Bisogna essere onesti, siamo un po’ come il culo tra due sedie.
La strategia dell’intersindacale: punti di forza e limiti
SK: Ritorniamo alla strategia dell’intersindacale a livello confederale. Ne hai già parlato osservando che il fatto che la scelta di molte giornate d’azione molto distanziate tra loro, una settimana almeno tra le prime tre, non ha permesso il radicamento della mobilitazione nel tempo. Ci si scontra con un problema che abbiamo già visto durante il movimento precedente, specialmente nel 2010, quando questo tipo di strategia è stata messa in atto. L’impressione che si ha è che a livello di intersindacale la strategia adottata durante la prima sequenza è quella della CFDT. Laurent Berger è stato molto chiaro: si tratta essenzialmente di mirare alle manifestazioni di massa, non all’organizzazione di scioperi, e di fare pressione sui dibattiti parlamentari e sul governo. Secondo te è una scelta che ha dato risultati?
LB: Sono abbastanza combattuto sulla questione. A mio avviso ci sono due funzioni nelle azioni che faremo. Da un lato, ciò che chiamo la funzione democratica: crediamo che sia il numero delle persone per strada che impressiona effettivamente il potere e che lo riorienta nelle sue scelte. La funzione democratica può produrre risultati in certi momenti e su alcune questioni. Ma c’è anche la funzione che si basa sul rapporto di forza. Siamo sicuri sul numero di persone, ma anche e soprattutto sulla capacità di blocco dell’economia. Penso che, nella popolazione, la nozione di rapporto di forza sia molto ridotta. È quindi, probabilmente, nel nostro interesse mirare all’inizio a delle forme di azione che permettano la testimonianza perché ciò corrisponde all’aspettativa di molti dipendenti, e ciò ci permette di avere delle grandi manifestazioni e mobilitazioni.
In un primo momento, questa opzione è quindi una cosa buona. Invece, ciò che la CFDT ovviamente non farà e che dovrebbe essere l’obiettivo della CGT, è di far prendere coscienza del fatto che questa strategia ha un limite. L’attuale governo, lo vediamo ogni giorno, se ne frega del buon senso. Se ne frega degli argomenti economici o demografici, come se ne frega anche degli argomenti democratici. Per fare un esempio, io non ero favorevole alla richiesta di referendum che è stata fatta dai deputati in parlamento, perché penso che siano i e le salariate a dover determinare l’evoluzione dei loro diritti, specialmente in materia di protezione salariale. Un referendum significa che tutti si esprimono su ciò che vivono i e le salariate e questo non lo trovo giusto. Al limite, se il referendum avesse avuto luogo, avrebbe potuto funzionare come una sorta di giudice di pace. Ma abbiamo visto che il governo ha fatto di tutto per impedire che si tenesse.
Non è quindi una questione di far “loro comprendere” le cose. Le hanno comprese perfettamente. Difendono un campo e lo difenderanno finché non li costringeremo a cambiare posizione. Il nostro ruolo è di spiegare questo, di mostrarlo ogni giorno. Bisogna quindi dire ai salariati : avete manifestato molto il vostro malcontento, pensavate che il numero sarebbe bastato a far piegare l’assemblea nazionale o lo stato. Avete però capito che lo stato ha una natura completamente diversa dalla natura democratica che immaginavate. Voi capite bene, quindi, che i soli ad avere adesso un potere reale sono i e le salariate attraverso la loro azione.
Quando si capisce che il parlamento non rappresenta il popolo, si pensa spesso che bisogna aspettare le prossime elezioni. Ma le prossime elezioni si terranno dopo un certo tempo e non è questo che bloccherà la riforma. In alternativa, si ammette che i e le sole che conservano oggi una leva sono i e le salariate, perché se queste smettono di produrre, ciò colpirà direttamente l’economia. Questo ci dà una leva di intervento e sta a noi sviluppare questo ragionamento. Se da questo conflitto, indipendentemente dal risultato, emerge una presa di coscienza supplementare di questo principio, avremo fatto allora un considerevole progresso.
Questo non è esattamente ciò su cui si è lavorato, perché su questo punto si pone la questione dell'unità sindacale. Quando si è in questa posizione, bisogna essere in grado di scuotere le altre organizzazioni. È ciò che tenta di fare la CGT, poiché Philppe Martinez chiede la prosecuzione degli scioperi a livello nazionale. Credo che ne guadagneremmo se andassimo più lontano e se spiegassimo che ci sono limiti oggettivi a ciò che stiamo facendo.
SK: Si ha l’impressione che nel modo in cui funziona l’intersindacale – anche se ciò è in parte conseguenza del modo parziale in cui la copertura mediatica funziona e come ha sempre funzionato – sia la CFDT che, in fin dei conti, imposta il tono e che la CGT e le altre organizzazioni seguano. È anche la tua impressione?
LB : Bisogna dire che la CFDT è la prima organizzazione sindacale in termini di rappresentatività. Certo, non è affatto la prima nelle mobilitazioni, ma lo è nell’ordine protocollare, si può dire. Non sorprende quindi che sia al timone. Dopotutto, in effetti, è la loro strategia che si è imposta all’inizio. Ma vedo comunque una svolta nell’ultimo periodo. Quando la CGT porta la questione del rinnovo [degli scioperi, NdT], si capisce che Berger non lo vuole ma che, allo stesso tempo, non può impedirlo. All’inizio, ci aveva provato e ciò aveva bloccato un certo numero di cose, ma ora non può più rifiutare. La richiesta di rinnovo si espande, compreso tra i suoi. Nel mio settore, se la CFDT ferrovieri si è unita al movimento, è perché non si possono più mettere ai margini di tutto. L’80% delle e dei loro iscritti ha votato a favore del rinnovo.
Direi che è dibattuto, ma c’è una battaglia di leadership, è ovvio. E questa battaglia non è scontata.
Sul dibattito all’Assemblea e la linea LFI [partito politico La France Insoumise, NdT]
SK: Ritorneremo sulla strategia dell’intersindacale nella sequenza che sta iniziando, ma vorrei prima parlare di ciò che è successo in parlamento, o piuttosto della questione che è stata al centro di una contrapposizione tra i dirigenti delle principali confederazioni, Berger e Martinez, da una parte, e una parte della sinistra, ovvero essenzialmente la France Insoumise, dall’altra. Bisognava o meno accelerare la discussione, ovvero ritirare gli emendamenti per permettere un voto sull’articolo sette? Mi è difficile capire quello che potrebbe guadagnare la mobilitazione da un voto sull’articolo sette, un voto che, stando alle posizioni dei deputati del gruppo Les Républicains (LR), si sarebbe risolto a vantaggio del campo di Macron. Qual è la tua posizione su questa questione?
LB: Ho già risposto su questo nei media. Andare al voto sull’articolo sette, se è per ottenere un voto contro, è importante, sì. Se è per ritrovarsi un voto a favore, ciò non ha strettamente nessun interesse. Soprattutto dopo l’esperienza di voto del primo articolo del progetto di legge. D’accordo, l’articolo due, sull’index senior, non è passato, ma è marginale, e il rifiuto è il risultato di un concorso di circostanze. Ma l’articolo uno, che è sulla soppressione dei regimi speciali per l’energia, è un punto assolutamente centrale per la Banca di Francia, la RATP e per un certo numero di altri settori. Considerare solo l’articolo sette come importante è una sciocchezza. Tutta questa legge è uno schifo.
Non vedo quindi l’interesse di andare al voto dell’articolo sette, a meno che non sia per ottenere un suo rifiuto. All’inizio poteva succedere, alcuni deputati di LR o di Marcron sembravano cedere. Molto rapidamente abbiamo visto che tutte queste persone rientravano nei ranghi, dunque non c’era molto da fare. Inoltre, bisogna discutere la strategia da seguire nei dibattiti in parlamento. Ho sempre visto il caos quando si trattava di leggi che non volevamo essere approvate. Mi ricordo il mio primo conflitto nel 2003, è il mio primo ricordo perché mi interessavo poco a quel che succedeva in parlamento. L’unica cosa che mi ha toccato è quando i deputati comunisti si sono messi a cantare, perfino a gridare, l’Internazionale durante i dibattiti. In effetti, questo casino era piuttosto felice.
Come sai, non sono uno strenuo sostenitore del LFI. Ma non direi che LFI sia il responsabile del casino. Innanzitutto perché ho visto che anche il governo lo ha sfruttato parecchio. Inoltre, in fondo, qual era il problema di aggiungere due o tre settimane in più di dibattito per andare in fondo alla discussione degli emendamenti?
Sequenza due: come radicare ed estendere il movimento?
SK: Domani comincia una nuova sequenza. Il clima generale è che non ne usciremo se non si alza il livello. Ma cosa vuole dire questo concretamente? Ho sentito Laurent Berger su France Inter stamattina [6 marzo; Laurent Berger è il segretario generale della Confederazione Democratica Francese del Lavoro, NdT]. Parla del 7 marzo come di una semplice “giornata d’azione” e continua a chiedere manifestazioni. Ha ripetuto la sua opposizione allo sciopero rinnovabile, benché in modo indiretto, e ha chiesto “altri tipi di mobilitazione”. Si è ugualmente pronunciato contro il blocco dell’economia. In totale, non si ha l’impressione che la sua strategia sia cambiata molto. Per te, cosa vuol dire alzare il livello? Nella SNCF come si organizza lo sciopero rinnovabile? E soprattutto come andare oltre, per allargare il movimento?
LB: Riguardo a Berger, la sua posizione non ha niente di sorprendente. Si posizionerà sempre in modo ostile ad un’altra strategia, poiché la CFDT si presenta come il sindacato della discussione con il governo, il sindacato “responsabile”. Secondo noi, la politica del paese, considerando che non esiste la democrazia, non segue la volontà del popolo poiché vediamo che, malgrado l’opposizione del 70% della popolazione, il governo continua. Sono quindi i capitalisti a decidere e il loro problema principale sono i risultati finanziari delle aziende. Se vogliono la riforma delle pensioni è perché vogliono strangolare la protezione sociale. Quando c’è un deficit, si diminuiscono i diritti dei salariati, quando c’è un surplus, si riducono i contributi a carico dei datori di lavoro. Si taglia da una parte e poi dall’altra, per ridurre il salario ed aumentare lo sfruttamento del lavoro.
Loro sono in questa logica, noi militanti ne abbiamo consapevolezza. Stando così le cose, dal momento che sono loro a decidere, sono loro che bisogna colpire. E per colpirli, bisogna rifarsi sulla loro ossessione, il profitto. Non ci sono 36 soluzioni: bisogna bloccare il lavoro, paralizzare la produzione in modo sufficiente affinché il profitto non si realizzi più. Ecco cosa vuol dire alzare il livello. Siamo persuasi che se il movimento prende un’ampiezza sufficiente, il padronato fischierà la fine della ricreazione e dirà al governo “ora rientrate nei ranghi perché la situazione comincia a costarci caro”.
Come fare? In effetti, non sono i cosiddetti “settori strategici” che devono bloccare l’economia. Questi settori strategici hanno un effetto trainante. La SNCF e la RATP sono il trasporto quotidiano. Le raffinerie e l’energia sono la stessa cosa. Quindi, quando siamo in sciopero rinnovabile, si vede immediatamente e i media non smettono di parlare di noi.
SK: Sì, i media ne parlano per isolarvi dal resto dei salariati e della popolazione, per riportare l’opinione contro di voi brandendo i disagi creati dallo sciopero dei “settori strategici”.
LB: È l’intera battaglia che dobbiamo vincere e spesso si tratta di una battaglia interna. Bisogna dire che non ci deve essere sciopero per delega. Non ci sono salariati e salariate che possono fare lo sciopero e quelle e quelli che non possono. Tutte e tutti possono fare lo sciopero. Ovviamente, non è sempre la maggioranza a farla nelle aziende. La questione è quella del loro contributo al movimento nel suo insieme. In un’azienda privata, per esempio nella metallurgia o nella chimica, se dal 10 al 15% dei e delle salariate si batte, bisognerà evidentemente essere più forti, più potenti. Ma in un contesto di movimento d’insieme, ciò che conta è il loro contributo al rallentamento dell’economia.
Bisogna arrivare a far passare questo messaggio. Nei nostri settori, non abbiamo come ruolo quello di bloccare l’economia ma di trainare gli altri. Dopotutto, non possiamo bloccare l’economia. La ferrovia rappresenta il 10% dei trasporti dei viaggiatori e il 9% dei trasporti delle merci. L’epoca in cui trasportava il 60% delle merci e in cui bastava starnutire per paralizzare l’economia è finita.
SK: Cinque federazioni della CGT – porti e moli, SNCF, chimica, miniere ed energia, vetro e ceramica – hanno deciso di coordinarsi per chiedere lo sciopero rinnovabile. Qual è il senso di questa iniziativa coordinata?
LB: È la lezione appresa dal movimento del 2019. Nel 2019, ad eccezione della federazione vetro e ceramica, erano sostanzialmente quelle stesse federazioni ad essere in prima linea nella battaglia. Ma si è saliti al fronte uno ad uno e ci si è fatti uccidere uno dopo l’altro. Certo, si è tenuto sufficientemente a lungo perché alla fine il progetto delle pensioni a punti fosse ritirato. Inoltre, per fortuna da questo punto di vista, è arrivato il Covid.
Questa volta, quindi, ci si è detti che bisogna coordinarsi su due cose. Primo, non si annunciano delle grandi promesse. È meglio che un settore annunci una sola azienda in sciopero rinnovabile e che poi questo si concretizza, piuttosto che annunci lo sciopero generale e che non succeda niente. La prima richiesta dei nostri e delle nostre salariate è “non vogliamo essere isolate, non vogliamo essere soli”.
È un fenomeno che riguarda tutti i settori, anche quelli militanti. Chiedete ad un o una militante se bisogna fare lo sciopero. Prima riflessione, si guarderà attorno. Se non ci sono segnali positivi, risponderà di no. Se dei segnali emergono, la stessa persona vi dirà una settimana dopo: “perché non siamo partiti la settimana scorsa?”. C’è questo effetto traino. È in parte l’effetto dei social network ma è anche legato alla disorganizzazione, alla depoliticizzazione, è anche conseguenza dell’indebolimento del movimento operaio.
Abbiamo quindi lavorato per costruire le cose in modo concreto, per fare dei comunicati condivisi, per mostrare ai colleghi che non erano delle promesse assurde. C’è un aspetto di coordinamento e di motivazione che ha ugualmente permesso di estendere l’iniziativa. Il prossimo comunicato lo faremo con la federazione delle costruzioni e quella del commercio. Altri settori meritano di stare in questa iniziativa perché hanno ugualmente chiesto il rinnovo. L’ultima tappa è stata quella della riunione dei nostri segretari di sindacato. Per dimostrare che faremo un cambio di direzione, non basta che i cinque segretari di federazione facciano dei comunicati o degli appelli condivisi. Nel 2019, 29 federazioni della CGT lanciavano appelli al rinnovo dello sciopero, alcuni dei quali venivano archiviati subito, o che comunque non hanno prodotto nessun effetto.
Questa volta abbiamo agito in modo diverso. L’apice del nostro lavoro di coordinazione è stata la riunione dei segretari di sindacato il 2 marzo. Più di 550 segretari e segretarie, venendo da cinque federazioni, si sono riunite nel patio della sede di Montreuil. I compagni e le compagne hanno visto fisicamente l’impegno degli altri e quindi sono ripartiti motivati. Ovviamente ciò non basta, perché bisogna convincere i colleghi. Ma il coordinamento nella lotta è fondamentale. È ciò che era mancato moltissimo nel 2019, e anche oggi sarebbe stato necessario iniziare prima per anticipare le cose.
SK: Si può credere che le grandi manifestazioni abbiano un effetto di traino e di diffusione del movimento nei diversi settori. Ma sicuramente non basterà. Penso soprattutto al settore privato che rappresenta la grande sfida per questa mobilitazione come lo è stato per tutti i movimenti degli ultimi decenni. Quali sono le modalità che potrebbero allargare la lotta ad altri settori del lavoro salariato ma anche a settori non salariati, penso in particolare ai giovani?
LB: Alla SNCF, non abbiamo posto limiti alle forme di lotta perché la nostra organizzazione della produzione è piuttosto adatta [a tale varietà di modalità d’azione]. Facciamo l’esempio degli scioperi rinnovabili di una durata di 24 ore con i rinnovi decisi dalle AG. Uno stop di un’ora, per noi, ha troppo poco impatto. Invece in altri settori, in base alle realtà di produzione, può essere il contrario. Un’ora di stop può bloccare tutta la catena di produzione a lungo.
Bisogna tener conto di ciò che le e i salariati sono disposti a fare. La questione del rinnovo può prendere tutte le forme desiderate dai e dalle salariate. Ci sono dei settori che partiranno subito per diversi giorni. I compagni del settore vetro e ceramica ci hanno detto che, da loro, una volta stoppata la produzione, questa si fermerà almeno per tre, quattro o cinque giorni. In altri settori succederà in modo diverso ed è altrettanto positivo. L’obiettivo è avere il maggior impatto possibile sull’economia.
Al di là dei salariati, si pone oggi con forza la questione del movimento studentesco. Guardando ai conflitti degli ultimi anni, è ciò che ci è mancato molto. È ciò che avrebbe potuto fare la differenza, non per colpire l’economia, ma in termini di simbologia politica, di rapporti di forza nel loro insieme.
SK: È ciò che aveva permesso di vincere nel 2006, nel movimento contro il CPE [contratto di primo impiego, NdT], anche senza sciopero rinnovabile.
LB: è vero, ma bisogna anche considerare il fatto che l’impatto del CPE sull’economia, e la posta in gioco per i capitalisti, era meno importante. Nel movimento del 2003, che ho vissuto, le e gli studenti erano estremamente numerosi ed è stato molto importante, sia per le manifestazioni che per la simbologia. Quando avete contro di voi il mondo del lavoro e i giovani, per il potere diventa complicato gestire la situazione.
SK: Da ciò deriva l’attitudine molto repressiva del potere e dei rettori di università.
LB: È per questo che chiudono direttamente le università. Si tratta di una forma di serrata, serrata universitaria. Noi, del movimento degli operai, ci siamo battuti per impedirlo. La strategia dei padroni, innanzitutto, è stata quella di reprimere gli scioperi, ma in seguito era di chiudere le fabbriche affinché i e le lavoratrici non si potessero organizzare. Ci si è dovuti battere contro le serrate delle aziende ora bisogna condurre la battaglia per mantenere aperte le università.
Espandere le rivendicazioni, porre la questione del lavoro
SK: Durante questa mobilitazione, incentrata ovviamente sulla riforma delle pensioni, abbiamo visto emergere altre rivendicazioni. La questione salariale ovviamente, che era già in cima alle priorità delle mobilitazioni dell’autunno scorso e che è legata all’esplosione del costo della vita e all’inflazione, e anche la questione delle condizioni di lavoro. Ma c’è anche la questione del senso e del contenuto del lavoro. Le persone capiscono che portare l’età pensionabile da 62 a 64 anni vuol dire passare due anni in più della propria vita in un lavoro che diventa usurante, stressante, faticoso, che viene svolto in condizioni degradanti, con una pressione manageriale e padronale che aumenta. Nella società si sente che questa questione del lavoro, del suo senso e del suo contenuto si pone in maniera importante. Come può il sindacalismo fare propria questa questione?
LB: Dall’inizio abbiamo detto che bisognerà portare le rivendicazioni sulle riforme, non semplicemente il ritiro della riforma ma anche il ritorno dell’età pensionabile a 60 anni. Dal nostro punto di vista, parliamo di due misure supplementari. Innanzitutto, nei mestieri con una mortalità verificata superiore alla norma, attestata dalle statistiche, bisogna introdurre la possibilità di andare in pensione a 55 anni e, all’interno di queste misure, per i lavori più faticosi bisogna andarci ancora prima. Sappiamo che c’è un impatto sulla salute, sull’aspettativa di vita. Bisogna quindi prevenire piuttosto che fare ciò che propone il governo, ovvero partire solo una volta che si è invalidi e non più sfruttabili. Dall’inizio abbiamo anche detto che bisogna legare la questione dell’azienda alle misure interprofessionali. È qualcosa che non siamo riusciti a fare nel 2019. Allora i colleghi ci dicevano “no, lavoriamo sulle pensioni e basta”. Alla fine del conflitto, ci hanno detto “il lavoro, siamo stufi. Ci siamo sbattuti per due mesi e mezzo per la mobilitazione per le pensioni, ora non ritorniamo subito al conflitto per le rivendicazioni d’azienda”.
Questa volta abbiamo agito in modo diverso. Abbiamo detto: “abbiamo delle rivendicazioni sulle pensioni e sappiamo che costano. Ritornare a 60 anni, poter andare in pensione a 55 o 50 anni, costa un occhio della testa. Finanziare ciò vuol dire creare dei posti di lavoro da noi, aumentare i salari da noi”. Lo rivendichiamo in modo interprofessionale ma, concretamente, nella nostra azienda, contribuiremo a creare posti di lavoro necessari e a ottenere salari aggiuntivi per finanziare questa parte dello sforzo collettivo. Questo modo di presentare le cose ha l’aria di essere accolto bene almeno per il momento.
SK: D’accordo, ma parlavo anche dell’intensificazione del lavoro e della degradazione del suo contenuto e delle condizioni nel quale viene svolto. Nel settore privato, molto chiaramente, ma anche nel settore pubblico, che sempre di più è gestito come il privato, si osserva un’intensificazione del lavoro, una pressione che i e le salariate sentono sempre di più. Si sente anche una relativa difficoltà del movimento sindacale a fare propria la questione. La domanda di creazione di posti di lavoro è senza dubbio un elemento di risposta, ma è sufficiente? Non bisogna completarlo con un potere di intervento delle e dei salariati nelle condizioni di lavoro, della gestione del tempo di lavoro, dei ritmi e dell’organizzazione del lavoro, per rimettere in discussione la logica manageriale e capitalista?
LB: È chiaro che la questione dell’impiego è immediatamente legata a quella delle condizioni di lavoro. Per rallentare i turni e diminuire il tempo di lavoro bisogna creare degli impieghi se si vuole mantenere la stessa produzione. Ma, effettivamente, non c’è solo questo, siamo anche interpellati sul contenuto del lavoro. Forse è una questione che riguarda soprattutto il pubblico più che il privato, perché c’erano delle funzioni legate al principio del servizio pubblico. Tutte queste funzioni, che non sono orientate al profitto, vengono progressivamente liquidate. Erano queste funzioni che, in un certo senso, davano nobiltà al lavoro. Quando c’è un crollo dei diritti sociali e un peggioramento delle condizioni di lavoro, è la nobiltà del lavoro che sparisce.
E un sentimento che sta crescendo molto, tra i giovani in particolare, per cui è una cosa che cerchiamo di evidenziare. Ma è molto complicato. Ci vorrebbe un livello di consapevolezza e di organizzazione molto più elevata di oggi per riuscire a trattare tutte le questioni nello stesso tempo.
Credo, ad esempio, che quando si parla di potere d’acquisto bisognerebbe rimettere al centro della discussione la questione dei servizi pubblici e soprattutto del servizio pubblico dell’energia. Oggi i problemi del potere d’acquisto, della chiusura delle piccole e medie aziende, sono essenzialmente legati all’aumento del costo dell’energia. Risolveremmo una gran parte del problema uscendo dal cosiddetto mercato europeo dell’energia e realizzando qualcosa di coerente, basato sui costi della produzione.
Noi sappiamo che le questioni sono legate. Ma sviluppare la consapevolezza tra i salariati è più complicato. Siamo ad esempio sicuri che quest’anno la SNCF vuole liquidare un certo numero di cose. La Commissione europea ha lanciato una procedura contro il trasporto ferroviario, il che condurrà alla sua liquidazione o almeno alla drastica riduzione del volume del trasporto ferroviario, il che va completamente contro ai discorsi sull’ambiente. Di fatti, ce n’è solo per il “mercato libero”, il resto è tutta una pantomima.
C’è anche la ristrutturazione della holding SNCF perché questa struttura raggruppa molti servizi, che una volta si chiamavano servizi integratori, quelli che servono a tutte le aziende. Sono proprio questi servizi che ora vengono liquidati per farne una holding puramente finanziaria, come quella di qualsiasi gruppo capitalista. Noi parliamo di piano Borne-Farandou, che è un vero e proprio piano di liquidazione del servizio pubblico ferroviario.
Cerchiamo quindi di portare la battaglia su questo fronte, ma è più difficile. Vediamo che una parte delle organizzazioni sindacali non vogliono intervenire su questo terreno, perché sono spontaneiste. Quando saranno spinte dalla base, quando noi avremo fatto abbastanza lavoro, esse prenderanno in mano la questione. Ma al momento ci sono solo le pensioni, nient’altro.
SK: “Tenere tutti i fronti”: questa sarebbe la definizione di un sindacalismo di lotta e anche di lotta di classe?
LB: Sì, è ovvio. In questo periodo, bisogna ancorare la mobilitazione nell’azienda, portare le rivendicazioni dell’azienda e lavorare a livello interprofessionale per espandere l’inserimento del sindacato nelle aziende. Una grande difficoltà, in particolare nel privato, è che, se in teoria è vero che tutti possono fare sciopero, nella pratica però se non c’è un minimo di organizzazione, non succede molto. Bisognerebbe lavorare su questa direzione, promuovere il lavoro di inserimento nelle aziende.
Ma bisognerebbe anche che ci occupassimo delle questioni politiche, del servizio pubblico e oltre. Bisognerebbe creare dei legami con la politica per lavorare sulla prospettiva politica. Bisognerebbe creare dei legami a livello internazionale perché ci sono dei conflitti, delle lotte. C’è la situazione della Grecia con il tragico incidente ferroviario, i conflitti in Inghilterra, con cui l’intersezione è molto facile.
Noi ferrovieri siamo abbastanza ben organizzati, quindi resistiamo. Ma anche per noi è difficile. Bisognerebbe ricostruire le organizzazioni di massa, il principio dell’autonomia dei militanti. Questo è la rifondazione del sindacalismo.
SK: Un grande cantiere!
LB: È un grande cantiere. Ma là, nella lotta, possiamo avanzare.