mercoledì 26 aprile 2023

DEI DIRITTI E DELLE COSTITUZIONI

 Per un neo costituzionalismo rivoluzionario 

 -Antonio Minaldi-


>  La storia del costituzionalismo moderno corre parallela alla nascita dello Stato così come oggi lo conosciamo. L’uno senza l’altro semplicemente non avrebbero avuto esistenza. Senza il loro rapporto non si sarebbe data la modernità, almeno nei suoi aspetti istituzionali 1


     Per capire questo intrinseco rapporto tra potere politico e norme costituenti è necessario individuare nello Stato costituzionale moderno il punto d’arrivo in cui si attualizza, e compiutamente si realizza, il senso e l’arcano della legge nella sua costitutiva ed originaria ambiguità. Per un verso essa è sempre il prodotto di un atto di forza, spesso di pura violenza, che l’ha posta in essere come affermazione e imposizione di un potere dominante, che dando valore “legale” ai rapporti di forza esistenti, impone il loro pubblico riconoscimento e al contempo tende a stabilizzarli e al limite ad “eternizzarli” sottraendoli alle mutevoli dinamiche temporali. Per altro verso la legge risponde ad un bisogno di pacificazione e di comune accettazione di regole condivise che possano stabilizzare i rapporti di scambio sociale. La naturale propensione tipica dell’uomo in quanto animale politico, verso un ordine sociale costituito e fondato su un continuo processo di normazione e stabilizzazione dei comportamenti, vede un suo tratto caratteristico nel costante prodursi e riprodursi delle norme giuridiche,  che in quanto “sistema delle leggi”  modellano gli assetti sociali, riaffermando le gerarchie del comando, ma generando anche una “promessa  di protezione” dei più deboli dal puro ed indiscriminato arbitro da parte dei più potenti.

       “La giustizia è l’utile del più forte” dice il sofista Trasimaco nel primo libro della Repubblica di Platone, con riferimento a chi ha il governo della città. Ma nel Gorgia, altro dialogo del grande filosofo ateniese, Callicle sostiene che le leggi sono invenzioni della maggioranza del popolo al solo scopo di tutelarsi nei confronti dei migliori e dei più forti[2]. Trasimaco e Callicle sono in realtà entrambi schierati col partito degli aristocratici in lotta contro i sostenitori della democrazia. Non c’è contrapposizione tra le loro ipotesi, quanto piuttosto una naturale e costitutiva ambivalenza. La legge come espressione del dominio e la legge come principio garantista sono le due facce della stessa medaglia.

      Questa doppia natura della legge si svela oggi, entro le dinamiche dello Stato moderno, nel rapporto di separazione, ma di continuo interscambio, tra “l’autonomia della politica” e “l’autonomia del diritto”, che si pongono come principi d’ordine differenti ma strategicamente convergenti. Se la politica è tipicamente l’arte della decisione come espressione del comando che va oltre le regole stabilite per fare fronte alle situazioni d’emergenza, il diritto al contrario rappresenta (o almeno dovrebbe rappresentare nella sua considerazione ideale) la continuità delle regole stabilite come strumento di comprensione e di appropriazione del futuro attraverso “il già dato” della norma vigente.

       In realtà il diritto in questo suo costante riprodurre schemi interpretativi rigorosamente predeterminati non fa altro che istituzionalizzare un aspetto che è insito in ogni tipo di relazione umana. Ogni tipo di scambio sociale tra singolarità o tra moltitudini e pluralità di vario genere e composizione, è sempre il prodotto di una reciproca riconoscibilità fondata sulla comunanza di pregresse conoscenze, di comuni codici comunicativi e in senso generale, di comuni aspettative. Ogni tipo di evento relazionale fondato su forme di scambio simbolico e/o materiale, non è altro, innanzitutto nelle sue stesse premesse, che una ripetizione del già dato e del già saputo, che restano a volte impliciti o che si rendono altre volte espliciti attraverso forme più o meno rituali. In questo senso il dato reale che identifica ogni singolo scambio relazionale o atto sociale, “il nuovo” che si pone, quello che in sostanza alla fine realmente rimane, si manifesta come una sorta di minimale contenuto, un “di più” rispetto al pregresso, che continuamente si ripropone in una incessante coazione a ripetere. 

       Va tuttavia precisato che questo tipo di dinamiche che caratterizzano e fondano il legame sociale sono in genere poco percepite e poco considerate dai soggetti agenti, che di fatto le pongono in essere in modo automatico ed irriflesso. In fondo ciò che veramente conta, ciò che si avverte e che riempie di senso la “nuda vita”, è proprio il contenuto non scontato, e spesso inatteso, che si produce entro il ripetersi degli schemi che lo rendono riconoscibile e reale.

     Questo bisogno di certezze pregresse che si danno in forme e schemi stabiliti, anche di tipo simbolico e rituale, assume un aspetto ancora più significativo nelle relazioni pubbliche dove i reciproci rapporti avvengono per definizione tra “estranei”, tra soggetti cioè che non possono avvalersi degli aspetti informali e flessibili della conoscenza diretta e personale. Il pubblico è per definizione il luogo in cui le regole devono assumere il valore della universalità astratta e dunque della normazione standardizzata che si impone alla generalità dei fatti concreti. Ma anche dentro le coordinate della dimensione pubblica, politica e diritto si danno come cose correlate ma diverse e complementari.               .       

         La politica fonda il suo statuto sulla eccezionalità dello stato presente delle cose, rispetto al quale il decisionismo dell’atto libero fondato sulla forza e sull’esercizio del potere, si motiva proprio in ragione del bisogno di risolvere la presunta anomalia che si è posta, di cancellarne la devianza rispetto al riprodursi delle ragioni dell’ordine stabilito. La politica e l’autonomia del politico si fondano sul paradosso dell’eccezione che deve togliere l’eccezione. Sulla pratica della violenza legalizzata, che attraverso la norma deve normalizzare i rapporti sociali impedendo l’uso della violenza illegale. 

      Se la legge, come abbiamo visto, è sempre il prodotto di un atto di forza, essa in quanto diritto, deve legittimare il potere che l’ha posta in essere, affermandosi come principio d’ordine proiettato nel futuro, capace cioè di prevedere e dare sistemazione e senso all’insieme dei fatti empirici che si produrranno, classificandoli secondo l’ordine di tassonomie valoriali, fondate su categorie di coppie concettuali che distinguono lecito e illecito, legale e illegale, rilevanza e irrilevanza giuridica ecc. Il giudizio su ciò che ancora non è accaduto, è questa la pretesa del giuridico, che spesso in questa marcia verso il futuro si avvale di forme di sacralizzazione provenienti dall’autorità di un lontano passato o direttamente dalla mano divina che ha dato la legge.

    Va da sé che il diritto, proprio in quanto principio di regolazione di fatti futuri, non può che fondarsi su fattispecie astratte e generalizzanti e su schemi interpretativi di ordine non specifico[3] In sostanza su modelli idealtipici da consegnare alla interpretazione, spesso ondivaga e a volte non proprio neutrale della giurisprudenza. 

     In buona sostanza se ne può concludere, almeno in prima approssimazione, che oltre ogni possibile contenuto, quello che caratterizza il diritto nella sua peculiarità è la sua forma astratta e tipizzante. La sua universalità capace di ricomprendere il darsi molteplice delle specificità concrete. Da ciò derivano varie conseguenze. Ad una di esse, di valenza chiaramente negativa, abbiamo già accennato. Ci riferiamo alla capacità del diritto e della legge, dietro la loro apparente neutralità, di nascondere “la mano insanguinata dell’assassino”. Quel potere politico che mistificando spesso il proprio interesse come interesse generale, ha dato alla norma un contenuto di classe sapientemente nascosto e mistificato. In controtendenza rispetto a questa logica si porrà la pubblica rivendicazione dell’atto istitutivo originario  del costituzionalismo moderno, a partire dalle rivoluzioni del XVIII secolo, e della Rivoluzione francese in particolare. Di questo ci occuperemo ampiamente nel seguito di questo nostro lavoro. 

        Un altro fondamentale aspetto che caratterizza la specificità del giuridico (in questo caso con conseguenze e ricadute sicuramente positive sul piano storico), riguarda le peculiari caratteristiche che con lo sviluppo della normazione, specialmente attraverso le vicende della modernità, hanno riguardato il prodursi del soggetto del diritto. 

     Se l’astratta generalità è la cifra costitutiva del diritto, e se il valore determinante della pura forma  impone il “formalismo giuridico” non come caso speciale ma come destino del farsi della legge, allora il soggetto cui si riferiscono le fattispecie astratte della norma,  dovrà necessariamente avere, almeno all’interno del dettato della legge e prima della sua concreta applicazione, le stesse caratteristiche di generalità che rendono impossibile il riferimento ad una singolarità aprioristicamente individualizzabile.[4] 

      Non è un caso che come espressione di riferimento atta a qualificare il soggetto o i soggetti del diritto si usi il termine persona, indicando in questo modo l’essere umano  in sé, vale a dire nelle sue più comuni ed essenziali caratteristiche che prescindono non solo dalle specificità di ciascun individuo, ma anche da quelle contenute in concetti, sostanzialmente divisivi ed escludenti, come sesso, razza, etnia, nazionalità o altro.

        Il termine persona nella antica cultura romana, e forse ancora prima tra gli Etruschi, stava ad indicare la maschera teatrale come segno di riconoscimento della appartenenza al tratto condiviso della comunità. Mentre l’individuo si riconosce dal volto che lo rende unico e immediatamente distinguibile da qualunque altro, al contrario la maschera porta i segni della appartenenza ad un gruppo, ma in un possibile senso più estensivo e anche più proprio, può riferirsi alla intera umanità.

     L’universalità della persona contenuta nel soggetto giuridico come necessaria conseguenza della universalità della norma giuridica, porta con se la conseguenza che tutte quelle garanzie, tutele e libertà “di essere, di fare e di avere”, anche nate originariamente come concessioni del sovrano o come privilegi riservati a particolari soggetti, siano diventati nel corso della storia grazie alla spinta propulsiva della lotta di classe degli sfruttati e degli oppressi, quelli che oggi si chiamano i diritti umani, o anche  diritti inalienabili della persona. 

       I diritti sono in sostanza il prodotto dell’incontro storico tra la forma giuridica e la rivoluzione. La presa di possesso della legge da parte degli ultimi e degli sfruttati, che ha prodotto uno dei fondamentali punti della mediazione di classe su cui si fonda la modernità: il moderno costituzionalismo, nato per l’appunto nelle rivoluzioni del passato, ed in special modo con la rivoluzione francese  e le sue ripetute dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino. 

      In sostanza attraverso la Costituzione, intesa come normativa fondamentale e preminente, quel ruolo della legge come limite all’arbitrio del potere, o per dirla con Platone come “invenzione del popolo” contro ricchi e potenti, trova il suo punto di compiuta realizzazione con la definizione dei diritti universali come valori il cui rispetto si pone (almeno in teoria) come irrinunciabile.

       Per la verità è stato più volte sottolineato dai critici più radicali delle moderne società occidentali caratterizzate dal modo di produzione capitalista e da istituzioni liberal democratiche, come i cosiddetti diritti umani abbiano un riconoscimento spesso puramente formale, a cui non corrispondono reali situazioni di fatto. Questa debolezza e scarsa efficacia dei diritti, entro certi limiti, non è una condizione patologica ma strutturale. I diritti nascono in parte dall’esigenza del libero mercato capitalista di rompere i vincoli di dipendenza personale di stampo feudale, e si impongono infine come prodotto delle rivoluzioni popolari. Ma la loro effettività e reale efficacia rimane legata al mutevole darsi dei rapporti di forza. 

       Le Costituzioni in particolare sono fragili perché per potere fare sentire la propria forza nella continuità del tempo hanno bisogno di rivivere e di essere costantemente riaffermate nei contenuti delle scelte politiche, le quali comunque, in una società a dominio capitalista, non possono essere, per definizione, tendenzialmente favorevoli alle classi subalterne e sfruttate, se non in (non usuali) condizioni di particolare forza conflittuale

     La questione dei diritti riferita al soggetto giuridico che nel moderno costituzionalismo, per motivi che vedremo, assume il nome di “cittadino”, non è la sola grande innovazione prodotta dal processo rivoluzionario sul piano istituzionale. La possibilità stessa di concepire una Carta Fondamentale come fondazione di un nuovo ordine politico e sociale non si sarebbe potuta neppure pensare se accanto al sistema dei diritti non si fosse affermato il principio della “sovranità popolare” e come suo necessario presupposto il concetto stesso di “popolo” come moderna finzione giuridica.

     Il problema della attribuzione della sovranità era stata sin dalle origini dei moderni Stati nazionali una questione aperta e mai realmente risolta. Sul piano della dottrina la questione della legittimità del potere sovrano e di quali fossero le sue peculiari prerogative era stato posto, almeno nei suoi fondamenti, già alla fine del XVI° secolo nel corso delle guerre di religione che sconvolsero il suolo francese. 

      La contrapposizione principale avvenne tra J. Bobin, esponente del partito dei Politiques ed autore dei Six Livres de la République[5], e i cosiddetti Monarcomachi, che come dice il nome stesso sostenevano il diritto al tirannicidio, e il cui pensiero era sintetizzato nello scritto anonimo Vindiciae contra tyrannos[6] I termini della vicenda sono arcinoti, e se noi ci permettiamo di tornarvi è per sottolineare un aspetto spesso poco evidenziato, e che è invece centrale ai fini del nostro discorso.

      Le argomentazioni dei monarcomachi si inserivano in un dibattito che aveva attraversato l’intero medioevo e che riguardava l’ammissibilità o meno del diritto di resistenza nei confronti del sovrano il cui comportamento era ritenuto tirannico. Il dibattere verteva intorno al problema delle origini del potere, e riguardava dunque la questione della sua legittimità. Per tutti il potere regio aveva una origine sacrale e proveniva da Dio, e per tale ragione comportava il dovere di seguire i suoi comandamenti. Vi era tuttavia tra le contrapposte posizioni una sostanziale differenza. Per i sostenitori del diritto di resistenza, il sovrano doveva rispondere del suo operato di fronte alle autorità religiose ed  infine di fronte al popolo inteso come “la comunità di tutti i credenti”, che poteva destituirlo od al limite ucciderlo. Il primo a sostenere in modo chiaro questa tesi era stato Giovanni di Salisbury vissuto nel XII° secolo[7]. Per chi invece negava il diritto di resistenza il popolo doveva sempre obbedire al sovrano, che rispondeva del suo operato solo di fronte a Dio, (ipotesi già evidente in Agostino d’Ippona, vissuto addirittura tra il IV° e il V° secolo)[8].

       Bodin, tuttavia, alle argomentazioni dei monarcomachi invece di rispondere seguendo la tradizione, semplicemente “cambia discorso”.

      Il filosofo francese invece di occuparsi dell’origine del potere, e riprendendo anche, nei modi della pura astrazione teorica, l’intuizione di Macchiavelli che in termini concreti e fattuali aveva sostenuto l’autonomia dell’agire politico dai dettami della morale e della religione, ricerca le categorie fondanti e originarie che caratterizzano e identificano l’esercizio del potere, spostando in questo modo l’indagine dal sovrano, inteso nell’immediatezza della sua fisicità corporea, al concetto astratto di sovranità nella sua generica tipicità. 

     Il punto d’arrivo dell’analisi, con straordinaria capacità sintetica, si sostanzia in quattro semplici attributi che qualificano il “che cosa è” della sovranità. Essa è per definizione “una”, “perpetua”, “indivisibile” e “inalienabile”. 

       In questo modo il vecchio dibattito medievale sulle origini e sulla legittimità del potere sovrano  non soltanto viene ignorato, ma è praticamente del tutto aggirato e spiazzato. 

       Il modo con cui Bodin ha posto la questione va al cuore di tutte le problematiche che riguardano la condizione reale dello Stato moderno, e che vedono il loro principale punto d’imputazione in una sovranità che, come sintesi di tutti gli attributi individuati dal pensatore francese,  si pone come una realtà assoluta, del tutto estranea a qualunque tipo di legame con la tradizione. I valori della sacralità insita nel volere divino e il richiamo al valore della consuetudine sono superati, o comunque diventano secondari. Lo Stato moderno si pone ormai come pura volontà insita nella decisione sovrana senza alcuna altra giustificazione che non stia nel puro darsi dell’atto di potere. Una condizione di fatto senza radici profonde né giustificazioni forti, che ormai impostasi nel prodursi delle vicende storiche, appare come sospesa nel nulla e deve ora necessariamente cercare, o forse più propriamente “creare”, la sua giustificazione di legittimità[9]

       Abbiamo già anticipato come il punto d’arrivo e di soluzione delle problematiche inerenti la fondazione del potere statuale nelle condizioni della modernità, sarà trovato attraverso il moderno costituzionalismo, e specificatamente con l’imporsi del primo “costituzionalismo rivoluzionario” a partire dalla rivoluzione inglese e poi nella sua forma compiuta con la rivoluzione francese.

      Alla base del nascere delle moderne costituzioni, come accennato, sta il matrimonio, benedetto dalla forza propulsiva delle rivoluzioni popolari e di classe, tra i diritti dell’uomo, frutto delle conquiste della conflittualità sociale ma anche delle possibilità d’esistenza maturate entro la forma giuridica, con il nuovo concetto di popolo inteso come “insieme dei cittadini” e non più pensato sulla base della appartenenza religiosa. La finzione giuridica (ma  capace anche di conseguenze fattuali più o meno significative, secondo le circostanze) del soggetto che a partire dalla sua singolarità è portatore di inalienabili diritti, e che in quanto collettività diviene la finzione giuridica del popolo sovrano.

       Un processo lungo e complesso di successive acquisizioni, che per un verso si è prodotto nelle piazze e sulle barricate, ma che per altro verso è anche il frutto di un costante lavorio della dottrina politica, in particolare grazie alle teorie giusnaturaliste per quanto riguarda la configurazione dei diritti, e dell’ipotesi contrattualista per quel che concerne la nuova definizione di sovranità popolare.

      Rivoluzione e teoria si cercano e si ricorrono alle origini dello Stato moderno, lungo le vicende dell’Inghilterra del 600. Nel 1651, come è noto, si conclude la prima rivoluzione inglese, ed esattamente nello stesso anno T. Hobbes pubblica il Leviatano, unanimemente considerata la sua opera maggiore.[10] Nel testo del grande pensatore inglese il moderno concetto di popolo compare quasi come un fantasma, ma in un modo che sarà comunque fondamentale per gli ulteriori sviluppi della dottrina e per le vicende storiche che porteranno alle moderne normative costituzionali. 

      Il contesto analitico di riferimento è quello che fa capo al “contratto sociale”, che venendo posto come decisione collettiva attraverso la quale la moltitudine degli individui esce dallo stato di natura, finisce col produrre insieme alla “società civile” lo stesso soggetto collettivo (il popolo per l’appunto) che la pone in essere. Ma questo soggetto in Hobbes si da e subito scompare, in una dimensione senza tempo o perduta nel lontano passato. Il paradosso della nascita dello Stato Leviatano è infatti che esso è il prodotto non di un atto costitutivo ma di una pura rinuncia. La rinuncia unanime da parte di tutti a esercitare nel contesto sociale i diritti pienamente goduti nella condizione di natura. Un soggetto collettivo che si pone come costituente per sancire la propria impossibilità di determinarsi come soggetto costituito, e dunque come portatore di diritti e di poteri. Un sacrificio attuato in nome della propria fragilità e del bisogno di sicurezza sociale      

       Eppure la potenza di quel potere costituente collettivo, pur avendo generato una macchina statale la cui forza e il cui dominio gli restano del tutto alieni, marca ugualmente una traccia che il pensiero politico successivo volgerà in senso democratico. Così come in senso liberale saranno rivisitati quei diritti posti da Hobbes come caratteristici dello stato di natura e poi alienati nel contesto sociale, ma sempre recuperabili, anche contro l’autorità statale, nei casi estremi di necessaria salvaguardia della propria incolumità personale[11]

       Il contenuto liberale che si da in contraddittoria e ambigua trasparenza nelle pagine di Hobbes, verrà poi ripreso e portato a compimento da Locke nei Due trattati sul governo[12] pubblicati anonimi nel 1689, guarda caso anche stavolta con particolare coincidenza, lo stesso anno in cui venne promulgato il  Bill of Rights con il quale si ritiene comunemente concluso l’intero percorso della rivoluzione inglese. 

      La maggiore preoccupazione del filosofo inglese, almeno in prima battuta,  (ed in perfetta sintonia con ciò che diventerà una “ossessiva” preoccupazione di tutto il pensiero liberale), non è quella di chiarire i termini in cui si da la sovranità, ed in particolare la sovranità popolare, quanto piuttosto quella di assicurare il massimo possibile di autonomia del contesto sociale  a salvaguardia delle possibili ingerenze del potere statale. La visione di Locke, in questo senso, anticipa ampiamente la concezione hegeliana della “società civile” come luogo capace di sviluppare funzioni, e di darsi regole, del tutto autonome dal prodursi del comando statale. Nel pensatore d’oltre manica, anzi, le virtù taumaturgiche della proprietà privata assumono una particolare e forte valenza positiva e propulsiva, in perfetta sintonia con gli avvenimenti del suo tempo che nell’Inghilterra post rivoluzionaria, ponevano le condizioni della grande trasformazione che si sarebbe prodotta da lì a poco con la rivoluzione industriale. (Questo malgrado il fatto che Locke della proprietà privata non sia mai riuscito a dare una spiegazione plausibile e di “principio”, in grado di trascendere la dimensione semplicisticamente fattuale)[13]

      Possiamo considerare la rivoluzione francese come un punto d’arrivo e un punto di svolta nella storia delle Costituzioni e del costituzionalismo moderno[14]. Con la dichiarazione dei diritti e con le Carte fondamentali che si susseguono negli anni rivoluzionari viene definitivamente sancito il riconoscimento dei diritti umani come punto irrinunciabile della vita e dell’organizzazione sociale, e inoltre, in questo modo e allo stesso tempo, viene affermato il principio di legalità che impone che ogni tipo di relazione socialmente rilevante e l’insieme non solo dei diritti, ma anche degli obblighi e dei doveri debbano sempre essere regolati dalla legge e dunque subordinati ai suoi caratteri di (presupposta) generalità e non arbitrarietà. Viene anche accolto, (seppure in modo non univoco e non senza ambiguità su cui torneremo), il principio della sovranità popolare. D’altra parte però le Costituzioni dell’era rivoluzionaria rappresentano anche il raggiungimento della condizione di piena legittimazione dello Stato moderno innanzitutto rispetto all’uso della forza nell’imposizione della volontà politica centralizzata e nella costruzione di apparati di controllo dei territori sempre più complessi e spesso invasivi.

     In questo modo ed in tutta la loro complessità (e ambiguità) le Costituzioni moderne vengono a determinarsi come momenti di mediazione tra diversi (e strategicamente contrapposti) interessi di classe. D’altra parte è stato sottolineato che non c’è, e non potrebbe mai esserci, Costituzione senza Rivoluzione, ma neppure potrebbe esserci Costituzione senza Stato. La definizione di una Carta Fondamentale non è dunque altro che il prodursi, nella contingenza storica, di un patto sociale che sul (più o meno) lungo periodo non può che apparire come incerto e precario, sottoposto al continuo riproporsi delle dinamiche del conflitto sociale. A volerla dire con una certa enfasi si tratta di una sorta di armistizio tra Stato e Rivoluzione. Un punto d’arrivo che è sempre anche un punto di equilibrio instabile in cui i contenuti della Carta vengono difesi o messi in discussione a seconda delle circostanze del contendere.

       Sono esattamente queste le dinamiche storiche che seguirono la fine del periodo delle costituzioni rivoluzionarie, col prodursi di un lungo scontro per appropriarsi e reinterpretare (o anche distorcere) i contenuti e i valori che erano stati posti. 

       Con tutti limiti e le approssimazioni insite nelle periodizzazioni, potremmo definire l’Ottocento come il secolo del costituzionalismo liberale, o come è stato anche detto del  costituzionalismo statalista, a volere in questo modo significare il definitivo affermarsi a livello delle istituzioni dello Stato, del capitalismo e dei valori della società borghese, grazie anche alla riappropriazione e ad una lettura moderata e di parte dei precedenti contenuti rivoluzionari. Fermo restando il fatto che pure il XIX° secolo è caratterizzato da continue e significative rivoluzioni, e che dunque l’affermarsi definitivo della borghesia come classe dominante non nega l’esistenza di un percorso ad ostacoli, fatto di continui scontri (anche armati) e continue mediazioni, con vittorie e sconfitte sempre in qualche modo parziali.

      Questo processo di appropriazione dei contenuti rivoluzionari da parte della nuova classe dominante si pone da subito, e per ovvie ragioni proprio in Francia, e si concretizzerà presto con l’entrata in vigore nel 1804 del Code civil. Il famoso Codice napoleonico che secondo alcuni è una vera e propria Costituzione, ma che in realtà è più propriamente un insieme ordinato di norme (un codice per l’appunto) che si propone di dare effettività, e dunque concretezza fattuale, ai principi e ai valori posti nelle varie Carte degli anni della rivoluzione. 

      E’ interessante notare come questa esigenza di concretezza fu sentita anche negli anni delle barricate, e che vari tentativi furono fatti per creare un insieme compatto di norme che dessero concretezza ed effettività agli ideali rivoluzionari. Ma tutti i tentativi fallirono. E forse non a caso. La rivoluzione probabilmente non era ancora pronta a normare il complesso delle relazioni sociali a partire dai suoi valori più radicali.

     Il Codice civile accettava il principio di legalità, per cui tutto il diritto era ridotto alla sola legge, ma lo faceva normando i rapporti sociali e civili secondo le logiche e i valori della nuova classe dominante e dando una interpretazione fortemente moderata dei dibattiti e delle acquisizioni degli anni dello scontro rivoluzionario.

    Nel corso dell’ottocento il costituzionalismo si affermò ampiamente in ambito europeo, specialmente come esito dei moti del quarantotto che sancivano il definitivo ecclissarsi dello Ancien régime. Ma le nuove Costituzioni, a partire dallo Statuto albertino[15], erano Carte ottriate, poste in essere per gentile concessione del sovrano. Il loro contenuto si riferiva principalmente alla giuridificazione dei rapporti sociali e degli interessi prevalenti, e a fissare i caratteri e le regole di funzionamento dell’apparato statale. Alla garanzia dei diritti era riservato un ruolo secondario, cosa che è testimoniata anche dalla estrema flessibilità del dettato costituzionale, che ci dice della scarsa “sacralità” dei suoi contenuti fondamentali.

       Questo processo di costituzionalizzazione dello Stato liberale trova riscontro nella dottrina con la nascita, nell’ambito della giurisprudenza tedesca, del moderno concetto di Stato di diritto[16], per il quale la sovranità della legge è il solo strumento preposto alla difesa dei diritti e a proteggere i cittadini dall’invasività del potere statale. Lo Stato di diritto è di chiara matrice liberale e non democratica. Estendere il diritto di voto a coloro che non hanno proprietà e a coloro che non hanno titolo di studio significherebbe correre il rischio di trasformare la politica e la legge da strumenti di difesa del diritto, inteso come stato presente delle cose, a mezzi di sovversione sociale. 

       L’apparente facilità con cui viene accantonato nel corso dell’ottocento liberale il concetto di sovranità popolare merita un approfondimento. 

       Come abbiamo accennato il concetto era sin dal suo porsi entro le prime Costituzioni, complesso e in parte ambiguo, e la sua grande dirompenza rivoluzionaria doveva fare i conti con alcune significative debolezze costitutive. 

      Il padre della democrazia era sin da allora universalmente riconosciuto in J.J. Rousseau e nel suo Contratto sociale,[17] il cui contenuto era espresso nel concetto di “Volontà Generale” che si contrappone a quello di “volontà di tutti”. Da tempo, e in un modo divenuto ormai quasi usuale e scontato, questa dottrina è stata criticata come principio fondativo di una “democrazia totalitaria”, nell’esercizio della quale ogni spazio di dissenso da parte di minoranze e singolarità viene di fatto negato. Ai fini del nostro discorso tuttavia la cosa va vista da una angolatura in parte diversa. Il principio della volontà generale è perfettamente confacente e adeguato all’esercizio della sovranità così come si configura nelle condizioni dello Stato moderno. Come dicono H. Hardt e A. Negri “quando celebra la “volontà generale” in contrasto con la “volontà dei tutti”, Rousseau teorizza una forma di rappresentanza che ratifica il potere sovrano…..Mentre la volontà di tutti a causa della sua pluralità è nemica della sovranità, la volontà generale, unificata e indivisibile, è sovrana.” (Assemblea pag.54)[18]. Detto in altri termini: “l’assolutismo” e “il decisionismo volontaristico” espressi nel concetto di volontà generale corrispondono perfettamente a ciò che serve a definire il concetto di sovranità nel moderno Stato capitalista. Il popolo da concreta presenza rivoluzionaria si fa astratto concetto monolitico per legittimare e giustificare lo Stato, compresa l’espressione della sua forza e della sua violenza. 

     D’altra parte proprio in contemporanea, e anzi proprio agli esordi, degli eventi rivoluzionari, l’abbate di Sieyès con il suo Che cos’è il Terzo Stato? compie una precisa identificazione del terzo stato col popolo, e soprattutto di quest’ultimo con la “Nazione”, un termine di nuovo conio, ma che diventerà centrale per capire gli avvenimenti del secolo successivo. In questo modo, il popolo, che nella generica visione illuminista poteva ancora darsi con i caratteri della universalità, veniva come ripiegato entro una specifica e limitata identità i cui caratteri e i cui limiti finivano per corrispondere con quelli che si era dato, e ancora in quegli anni si stava dando, lo Stato moderno[19].

      La questione ha radici profonde che vengono da lontano. Sin dal suo nascere nel passaggio dal tardo medioevo alla origini della nostra attuale era, lo Stato moderno si è posto come costruzione di un apparato burocratico e militare di controllo sulla popolazione di un determinato territorio. Una sorta di conquista e affermazione di potere e dominio attuata, almeno agli esordi e nelle sue originarie linee costitutive, non in modo espansivo ma in una logica di chiusura,  e per via (per così dire) intensiva. Lo Stato moderno si è sempre determinato e riprodotto come Stato Nazione. In un certo senso lo Stato Popolo delle rivoluzioni, pur costringendolo alle necessarie mediazioni di classe, ha dato la possibilità allo Stato Nazione di riproporsi nell’ottocento nella veste liberale dello Stato di diritto.

      In questa lunga storia ciò che più precisamente esemplifica il processo è il termine “confine”. E’ esattamente il confine ciò che ci identifica e ci differenzia dall’altro, da colui che è semplicemente diverso, e che dunque, almeno nella logica dell’estremismo identitario (per fortuna non sempre egemone), non ha volto, o per meglio dire ha un volto senza valore, solamente perché non è il nostro volto. La logica fortemente identitaria dello Stato Nazione impone al popolo l’unicità della sua cultura, dei valori, delle credenze e delle tradizioni, della razza e del colore della pelle. Nessun popolo è mai stato dichiarato sovrano se non nella finzione dell’Occidente capitalista, e solo a patto di identificarsi con la nazione e i suoi definiti confini.

     Il costituzionalismo liberale dello Stato (nazionale) di diritto, anche e malgrado i suoi limitati e labilissimi diritti e garanzie, non ha impedito al mondo di precipitare, nella seconda metà dell’ottocento, nella tragedia della competizione per la spartizione imperialista  della terra, fino a sfociare nel nuovo secolo nel primo grande conflitto mondiale, che azzerando il passato in un inaudito vortice di distruzione e di violenza, finirà con l’aprire una nuova era nei rapporti politici e geopolitici, sociali e di classe, che determineranno una fase radicalmente nuova anche rispetto alla storia delle costituzioni e del moderno costituzionalismo.

      La storia delle Costituzioni del XX° secolo si concentra nel periodo che va dalla fine del primo conflitto mondiale ai primi anni cinquanta, in una sorta di secolo ancora più breve di quello immaginato da Hobsbawn[20]. Le Carte prodotte in questo lasso di tempo vengono spesso classificate sinteticamente come “Costituzioni democratiche”, a significare innanzitutto il fatto che una radicalizzazione delle pratiche di partecipazione dal basso sia stata una reale preoccupazione delle forze costituenti come nel caso della Costituzione della Repubblica italiana del 1948[21], ma senza che tuttavia vengano spostati i termini generali della questione, restando il principio democratico sostanzialmente legato al concetto di “sovranità popolare”, già esplicitato nel corso della rivoluzione francese, ed ora finalmente giunto a compimento, comprese tutte le ambiguità e le difficoltà che abbiamo visto. All’espressione “Costituzioni democratiche” andrebbe aggiunta quella di “Costituzioni sociali”, a sottolineare l’altro fondamentale aspetto che le caratterizza.

     All’origine di tutte le produzioni di questo periodo sta la Costituzione di Weimar del 1919. A riprova di quanto abbiamo detto il valore democratico dell’ordinamento statale posto in essere è alquanto ambiguo e contraddittorio, e forse, a volerla dire tutta, anche un po’ pasticciato, frutto probabilmente anche della fretta con cui il testo fu licenziato e delle tante mediazioni operate dalle forze costituenti[22]. Sta di fatto che accanto al suffragio universale maschile e femminile venivano previsti poteri speciali per il Capo dello Stato (nomina e licenziamento del cancelliere; scioglimento del Parlamento; misure straordinarie per ristabilire l’ordine.), tali da permettere al Presidente Hindenburg di imprimere una svolta fortemente autoritaria alla gestione del paese già nel 1930, tre anni prima dell’ascesa al potere da parte di Hitler.

      Al contrario la parte più innovativa è quella che riguarda “La vita economica” dove si afferma, tra l’altro, di volere “garantire a tutti una esistenza degna dell’uomo”(Art. 151) ed ancora più significativamente che “La proprietà obbliga. Il suo uso, oltre che al privato, deve essere rivolto al bene comune.” (Art. 153).  Sono inoltre previsti impegni concreti della mano pubblica a garanzia di quelli che verranno indicati a partire da ora come diritti sociali (diritto al reddito da lavoro, alla pensione, alla abitazione ecc.) e che daranno origine al concetto stesso di Stato sociale.

     Sul piano storico è evidente come questa inversione di tendenza sia il prodotto dell’esigenza di dovere rispondere alla rivoluzione d’ottobre e alla nascita dell’Unione Sovietica che, a prescindere da quale possa essere oggi il giudizio sugli esiti sostanzialmente fallimentari di quella esperienza, rappresentò in quel momento e per un lungo periodo, fino praticamente alla caduta del muro di Berlino, un punto di riferimento essenziale per le lotte operaie e di liberazione dei popoli, spingendo in qualche modo le forze istituzionali dell’occidente capitalista a cercare momenti di mediazioni di classe, di cui le stesse Costituzioni sociali sono una testimonianza insieme al concreto  materializzarsi delle politiche del cosiddetto compromesso keynesiano. Non è un caso che proprio all’indomani della rivoluzione russa, la Costituzione di Weimar prevedesse, oltre a quanto già detto, anche la possibilità di forme di cogestione delle unità produttive da parte delle forze del lavoro. Idea che venne poi sostanzialmente abbandonata.

     L’eredità di Weimar venne poi ripresa dalla Costituzione della Seconda Repubblica Spagnola, che ebbe vita breve e che venne travolta dall’esito della guerra civile[23], e poi soprattutto dalle Carte Fondamentali che vennero promulgate subito dopo il secondo conflitto mondiale nel cuore di una Europa che era stata sconvolta dalla guerra (Germania, Italia, ed in modo più complesso e sofferto in Francia). Carte che sono ancora oggi in vigore.[24]. 

      In particolare la Costituzione della Repubblica Italiana dopo avere ribadito all’Art. 1 il concetto di sovranità popolare e all’Art.2 “i diritti inviolabili dell’uomo”, all’Art 3 apre ai diritti sociali attraverso la formula assai particolare del “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”, che impediscono il realizzarsi di una reale uguaglianza. Una scelta che enfatizza, in un modo da considerare positivo e chiarificatore, quell’aspetto volontaristico e “ideale” di “promessa di futuro” che ogni Costituzione, ed ogni processo costituente, deve necessariamente contenere come impegno cui vincolarsi, e da consegnare possibilmente alle generazioni future. A tal proposito, in riferimento alla nostra Carta, è stata coniata l’espressione di “Costituzione programma”, che tuttavia finisce per indicare quello che è (o dovrebbe essere) un tratto peculiare e comune di ogni processo di nuova fondazione. 

     Questo breve excursus sulle Costituzioni ci permette di tornare su un punto già anticipato, ma a nostro avviso particolarmente significativo. Per quelle che sono le nostre conoscenze, possiamo dire non c’è stato mai nessun processo costituente che non sia stato figlio di un evento traumatico o comunque di una profonda cesura storica. Di fatto tutte le esperienze di processi costituenti succedutesi nella modernità sono il parto o di guerre perdute o di rivoluzioni (più o meno) vittoriose (o raramente anche solo minacciate dall’alta conflittualità sociale). Ebbene, siccome anche le guerre perdute, quando producono profonde fratture col passato, aprono di fatto dei processi rivoluzionari, se ne può dedurre una sorta di elogio dell’agire rivoluzionario come capacità di mutare il corso piatto e ripetitivo della storia di “lunga durata”[25]. Un elogio in sostanza di ciò che possiamo definire “evento catastrofico”, a patto di fare alcune doverose precisazioni. La prima è che intendiamo “catastrofe” nel senso etimologico di “voltare giù” e cioè di “rovesciare”, “rivoltare” e non nel senso comune di “disastro”. L’evento auspicabile è la rivoluzione (degli oppressi e degli sfruttati) che ribalta l’esistente, e non la guerra che è solo il prodotto distruttivo dei dominanti e della dimensione aggressiva degli Stati. La seconda precisazione è che l’idea di rivoluzione non va associata con quella di violenza come spesso si suole fare e non implica quindi inaccettabili visioni machiste o volgarmente superomistiche. 

     La Costituzione in quanto sempre, seppure in modi diversi, figlia della rivoluzione, è allora un atto di chiusura dell’evento, una forma di pacificazione e di metabolizzazione della catastrofe. Ma siccome non vi è mai stata (almeno così ci sembra e almeno fino ad ora) rivoluzione mai totalmente vittoriosa, né rivoluzione mai totalmente sconfitta, allora la Costituzione è una chiusura che non chiude, un atto di normalizzazione che non normalizza mai del tutto. In sostanza un  patto, un punto d’arrivo che è anche un punto da cui ripartire. Qualcosa da difendere contro il ritorno del passato e al tempo stesso da superare nel riproporsi della rivoluzione che guarda al futuro. 

     Se è vera la nostra ipotesi che la Costituzione è sempre il prodotto di una compromesso figlio di una rivoluzione (incompiuta), o comunque di eventi o di situazioni legati alla radicalità del conflitto sociale, allora si può comprendere perché ci possano essere processi di radicale trasformazione degli assetti politici ed istituzionali che non assumono, almeno in modo palese, i caratteri del processo costituente. E questo il caso evidente delle dittature fascista in Italia e nazista in Germania che pur avendo creato dei regimi fondati su principi e su meccanismi totalmente nuovi e in aperta frattura col passato non hanno mai assunto le forme di un processo costituente.

     La ragione dell’anti costituzionalismo delle dittature nazi fasciste sta, dal loro punto di vista, nell’idea di fondo che l’ordine sociale non può mai essere concepito come il frutto di un compromesso di classe, né si può accettare l’idea che allo Stato possa essere imposto l’obbligo di farsi garante di valori e di diritti che in qualche modo lo trascendono. Lo Stato è concepito come una entità assoluta in quanto espressione di un popolo col quale si identifica, e che è anch’esso un assoluto. Il Popolo Nazione nella sua massima espressione identitaria e monolitica. Questo Popolo-Stato-Nazione ha radici in un passato immemorabile che si riproduce nel presente ed in un futuro che non avrà fine. La democrazia come dialettica delle differenze, non ha alcun senso, perché la volontà sovrana del popolo è già sempre data nell’atto  decisorio,  senza opposizioni e senza sfumature o incertezze, prodotto dallo Stato ed infine incarnato nella sua granitica valenza unitaria nel corpo fisico del Duce o del Fuhrer.

      Nell’Italia fascista e nella Germania nazista non una sola virgola fu mutata dello Statuto Albertino o della Costituzione di Weimar, a testimoniare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, di come in specie di fronte all’esprimersi del dominio nei modi della forza e della violenza “nuda e cruda”, le Carte costituzionali mostrano infine il loro essere null’altro che parole scritte su fragili fogli di carta.

       La possibilità che una Costituzione possa rimanere formalmente vigente senza essere di fatto efficace, o mantenendo un modesto e comunque problematico livello di efficacia è, come abbiamo visto, una possibilità sempre data, che tuttavia (va precisato) vale per qualunque norma giuridica che può essere resa, come si suole dire, “dormiente” semplicemente evitando la sua applicazione. E’ un pericolo al quale non sfuggono le Costituzioni attualmente vigenti, in specie nel nostro mondo Occidentale.

     Le Costituzioni entrate in vigore nel secolo scorso, soprattutto nel secondo dopoguerra, tra le quali la Costituzione italiana, in una prima fase della loro vigenza, e segnatamente fino alla metà degli anni settanta, fino cioè al compimento dei cosiddetti “trenta gloriosi”, hanno potuto mantenere un alto livello di efficacia attuativa anche rispetto a quei diritti sociali che le caratterizzavano rispetto al passato, in ragione del compromesso di classe realizzato in quel periodo attraverso l’attuazione di significative politiche di welfare. 

     A partire dalla fine degli anni settanta con la crisi del modello sovietico e con l’esaurirsi del grande ciclo di lotte politiche e sociali iniziato negli anni sessanta, la controffensiva di classe ha portato al progressivo, e ad oggi inarrestabile, affermarsi del neoliberismo che ha infine comportato un processo che definiremmo di decostituzionalizzazione, con accantonamento delle vecchie politiche e dei vecchi ideali.

       Ancora una volta si mostra come le norme giuridiche sono facilmente aggirabili se non supportate dal sostengo di una precisa volontà politica, generata spesso dal conflitto sociale. Questo vale in special modo per le norme costituzionali della nostra epoca.

      In passato le leggi fondamentali che regolavano la vita di un popolo erano protette da ogni possibile “usura” del tempo dalla sacralità della loro origine, che veniva in genere attribuita al volere divino. Come è noto (lo diciamo come esempio) le leggi fondamentali del popolo di Israele furono consegnate da Dio a Mosè sul monte Sinai. In un passato ancora più remoto la prima normazione delle relazioni umane veniva fissata e sacralizzata attraverso la ripetizione rituale e simbolica di determinati gesti e comportamenti. In tempi recenti la definizione, per esempio, dell’attributo di “inviolabilità” riferito ai diritti umani risponde sostanzialmente alla stessa esigenza di protezione, ma come si può vedere si tratta di una sacralizzazione “laica”, una sorta di ossimoro di evidente minore efficacia rispetto al passato.

     In secondo luogo come è noto, le norme costituzionali sono affermazioni di principio, pure dichiarazioni programmatiche, che mancando di una parte sanzionatoria, hanno bisogno della normazione secondaria prodotta dal legislatore per avere forza ed essere efficaci. Sono in sostanza ciò che il diritto romano definiva Leges imperfectae. In questo modo appare del tutto chiaro come l’attuazione della norma costituzionale dipende dagli “umori” della politica e dalle possibili interpretazioni legate alle diverse sensibilità, fino al prodursi del caso limite di norme che vengono semplicemente “dimenticate”, come avvenne per esempio nel nostro paese con l’Art. 114 della Costituzione che prevedeva la nascita delle Regioni, che saranno tuttavia istituite solo all’inizio degli anni settanta.[26] 

       A difesa della Costituzione esistono in molti paesi procedure di verifica di conformità della legge ordinaria ai contenuti espressi nella Carta. Nel nostro paese questa incombenza è assolta dalla Corte Costituzionale. E’ ovvio tuttavia che tale compito non ha un contenuto puramente tecnico, e non può pertanto sottrarsi alla valutazione politica e al clima più o meno dominante in un certo momento, con tutte le difficoltà e ambiguità che una simile situazione comporta. Si tenga inoltre conto del fatto che per ragioni naturali, e spesso anche per circostanze specifiche legate alla loro storia, le norme di uno stesso ordinamento possono avere un tasso più o meno significativo di incoerenza interna e di non conformità reciproca, che si pone come ulteriore elemento di fragilità e di evidente difficoltà per chi è preposto alla interpretazione delle norme (si veda il caso già citato della Costituzione di Weimar). Tale problematica è maggiormente rilevante laddove si pretenda (come spesso avviene in sede politica) che la verifica di costituzionalità avvenga rispetto al disposto del singolo articolo senza tenere conto del senso complessivo della Carta.

       Esistono come si vede varie debolezze intrinseche e vari modi operativi su cui poter far leva per rendere inefficace una normativa costituzionale, o una sua singola parte. Va tuttavia sottolineato, a scanso di possibili equivoci, che quello che abbiamo definito come processo di decostituzionalizzazione non corrisponde affatto ad un complessivo processo di destrutturazione disordinata o nichilista dell’ordinamento in essere. Come dimostrato dalla forte coerenza e invasività delle istituzioni dei regimi dittatoriali del fascismo e del nazismo, la presenza di un forte ed unitario ordine costituito capace di imporre  comando e disciplina sociale, non ha necessariamente bisogno, neppure nella nostra epoca, di essere costituzionalizzato.

       Il problema dell’unità organica dell’ordinamento ci rimanda  immediatamente alle tesi del “formalismo giuridico” di Kelsen[27]. Una dottrina pura del diritto in cui il valore di una singola norma è dato, oltre e a prescindere da ogni possibile contenuto fattuale, dal suo essere collocata, tramite il rispetto di regole formali, entro un ordinamento unitario e gerarchico. E’ l’insieme che da senso alle sue singole parti, e l’insieme a sua volta trova la sua valenza e significanza dall’essere il prodotto derivato per successivi passaggi da una “Norma Fondamentale” che come una sorta di chiave di volta da esistenza ed unità formale e valoriale all’intero sistema giuridico. In questo modo viene anche giustificato nell’ambito della dottrina il rapporto gerarchico tra le norme costituzionali e la legge ordinaria all’interno di un sistema d’ordine unitario

       E’ noto come C. Schmitt[28] criticando Kelsen, sottolinei come l’impostazione dell’analisi formalista del diritto finisca con l’occultare quell’atto di forza originario senza il quale nessun ordinamento potrebbe essere costituito. Atto di forza e di potere che va imputato alla scelta politica come pura volontà decisionista del sovrano, inteso come “colui che decide nello stato d’emergenza”. Potremmo dire infine con una nostra sintesi: il diritto  come prodotto della scelta politica che fa della “emergenza” il suo stato di “normalità”.

     Schmitt ha ragione: senza uso della forza non ci può essere diritto. Ma è anche vero, come ci dice Kelsen, che neppure può esserci diritto senza un ordinamento costituito, formale e unitario.

       D’altra parte, se è vero che la norma fondamentale svolge la sua funzione in modo del tutto indifferente al suo contenuto, questo non significa che non abbia un contenuto, senza il quale anzi nessuna norma potrebbe essere posta. Ed allora e a rigor di logica, si potrebbe anche argomentare che se vi è una norma fondamentale e  se questa ha comunque un suo specifico contenuto, allora questo stesso contenuto non può non costituirsi se non come il contenuto fondamentale di tutto l’ordinamento. Accettando questo tipo di sfida, e con tutta la prudenza necessaria per il tipo di azzardo nel quale ci stiamo imbarcando, potremmo ora sostenere l’ipotesi che ogni ordinamento giuridico, semplicemente costituito, e meglio ancora se costituzionalizzato, ha bisogno non solo di un principio d’ordine formale, ma anche di un principio sostanziale, un valore originario, fondante e indisponibile, che ispiri l’intero sistema e gli dia un unico indirizzo di ordine “strategico” e assiologico. In sostanza, riferendosi alla Carta fondamentale, si potrebbe parlare metaforicamente di “spirito” di una Costituzione, o se si vuole di una sua “anima”, riferendosi in questo modo a quel “nocciolo duro” che da senso e valore al tutto, e ne costituisce in qualche modo l’essenza.  

      L’ipotesi di un contenuto fondamentale di ordine valoriale che lega l’intero ordinamento ci permette di precisare, che quando parliamo di processo di decostituzionalizzazione attualmente messo in atto dai poteri dominanti, in specie nel mondo occidentale, non intendiamo riferirci alla messa in discussione e alla svalorizzazione della singola norma  o del singolo articolo dell’ordinamento, quanto piuttosto al tentativo di progressiva cancellazione dell’originario spirito costituente e dell’insieme unitario dei suoi valori primari, per l’appunto ciò che possiamo definire sommariamente come contenuto fondamentale. 

       Con riferimento alla Costituzione italiana potremmo azzardare (senza pretese di definizioni esaustive o di  acquisizioni perentorie) che il suo contenuto fondamentale o valore originario, potrebbe essere espresso in questo modo: “La Repubblica come luogo di affermazione delle libertà e di crescita progressiva della democrazia e dell’uguaglianza sociale”. Ed è esattamente questo ciò che oggi viene messo in discussione in un continuo, e al momento purtroppo vincente, processo di cancellazione.

       Naturalmente la destrutturazione del vecchio ordine costituzionale e dei suoi valori è stato possibile solo attraverso l’affermarsi di un nuovo ordine fondato sul dirigismo di un imperante neoliberismo, in un quadro globale caratterizzato dal dominio della finanza e dal ricatto del debito e della guerra, e i cui riferimenti valoriali rimandano alla nuda competizione  dell’egoismo possessivo dello homo oeconomicus. Questo nuovo ordine si è costituito intorno ai suoi (dis)valori primari, senza bisogno di darsi Costituzioni, ed ha pertanto solo labili vincoli formali provenienti dal passato delle vecchie Carte dotate ormai di sempre minore efficacia, ed ha come solo limite reale quello determinato dai conflitti sociali e dagli antagonismi di classe.

       Libertà, democrazia ed uguaglianza nella loro costituzionalizzazione sono semplici finzioni giuridiche, che però  nell’immaginario collettivo hanno il valore motivazionale delle bandiere ideali in cerca di luogo. Sono dunque valori che vanno presi sul serio, e che è necessario fare rivivere nella pratica sociale dei movimenti di lotta, togliendoli se possibile dalla loro astrattezza formale.

     Difendere le Costituzioni sociali e democratiche del secolo passato facendone rivivere i contenuti e i valori originari e fondamentali è dunque cosa giusta e necessaria. Tuttavia se vogliamo muoverci in una prospettiva di più lunga durata cercando di ipotizzare la possibilità che nel futuro si sviluppi un nuovo movimento costituente in grado di rovesciare gli attuali assetti di dominio del capitalismo neoliberista, dobbiamo necessariamente andare oltre il costituzionalismo storico, di cui non possiamo non sottolineare limiti, difetti ed anche alcuni aspetti che risultano ormai improponibili.

     Anche le migliori Costituzioni nate dopo il secondo conflitto mondiale ed ispirate dall’antifascismo e dalla lotta partigiana, pur nella loro forte caratterizzazione democratica e sociale, non sono state in grado di superare i limiti insiti nel costituzionalismo moderno sin dalle sue origini.     

       Le Costituzioni storiche sono indissolubilmente legate alla nascita dello Stato moderno, di cui sono parte costitutiva (e costituente). Anche le Costituzioni del secolo scorso si fondano su un concetto di “sovranità popolare” fortemente ambiguo, che mentre per un verso sollecita l’immagine di un decisionalità plurale e dal basso, per altro verso ripropone la visione fortemente identitaria ed escludente del “cittadino” e del “confine”, insieme a quella di una “volontà” univoca, che altro non è se non la giustificazione dell’atto di potere dello Stato Nazione. Quello che abbiamo chiamato il “peccato originale” del moderno costituzionalismo non è mai stato vinto e superato.

       E’ possibile immaginare un processo costituente di nuovo tipo che vada oltre lo Stato nazionale e le sue frontiere? 

       In un suo recente scritto L. Ferrajoli[29] ipotizza la nascita di una “Costituzione della Terra” in grado di affermare in modo realmente globale e sovrannazionale l’insieme dei diritti (anche sociali) e delle libertà, ma anche capace di inglobare i nuovi diritti (penso ad esempio alle comunità LGBTQ+) e di aprirsi a nuovi valori costitutivi come per esempio quelli veramente centrali della difesa dell’ambiente e della gestione collettiva dei beni comuni fondamentali. Il noto giurista immagina così un nuovo ordine mondiale in cui gli Stati nazionali siano smilitarizzati e ridotti alla semplice funzione di governi locali, mentre la grande macchina dei diritti e delle garanzie dovrebbe fare capo alle Nazioni Unite (profondamente riformate) e a “Istituzioni globali di garanzia” col compito di occuparsi di singoli aspetti dell’interesse comune come la sanità globale, l’istruzione globale, la difesa globale dell’ambiente ecc.

       Non ci interessa entrare negli aspetti specifici di una possibile ingegneria sociale ma concordiamo con la necessità storica di un nuovo processo costituente a livello globale e transnazionale che ribalti lo stato presente delle cose. Ferrajoli ha anche ragione quando, di fronte alle critiche di utopismo, ribatte che ciò che rende difficile il cambiamento è soltanto la presenza di un dominio globale che usa ogni violenza per riprodurre se stesso. Ma a questo punto bisognerebbe fare un passo in avanti che lo studioso non fa e che noi ci permettiamo di fare, ed avere il coraggio di pensare al futuro a partire da una verità storica, chiara ma troppo spesso dimenticata, (e che è in fondo il nocciolo di tutto il nostro discorso), che ci permettiamo di ribadire ora ulteriormente: non c’è processo costituente, né nuova Costituzione senza Rivoluzione (qui volutamente con la maiuscola). 

       Se il nuovo processo costituente deve superare i limiti dello statalismo e dell’identitarismo nazionale e deve promuovere nuovi diritti e nuovi valori, la rivoluzione che sola può metterlo in moto deve essere all’altezza della situazione ed avere gli stessi caratteri. Una rivoluzione mondiale anti statalista ed anti identitaria pur nel rispetto della pari dignità di tutte le differenze. E’ questo un dovere storico che ci sta di fronte e che ci vede impegnati. Nessuno può fare previsioni sui tempi, i modi e le forme di un processo che stante alle attuali difficoltà delle forze antagoniste, potrebbe essere anche molto lungo e forse anche lontano nel tempo. Ma non ci sono alternative, perché come ha detto (più o meno) Marx, o vince la rivoluzione o perde l’intera umanità!





NOTE


[1] Sul costituzionalismo, sulla sua storia e sulle teorie interpretative segnaliamo brevemente: N. Matteucci, “Breve storia del costituzionalismo”, Marcelliana Brescia 2010. – G. Pino, “Interpretazione costituzionale e teorie della Costituzione”, Mocchi Modena 2019. – M. Fioravanti, “Rivoluzione e Costituzione”, Giappichelli Torino 2022. – M. Fioravanti, “Costituzionalismo”, Carocci Roma 2018 – R. Bin e G. Pitruzzella, “Diritto costituzionale”, Giappichelli Torino 2022.

[2] Platone, “La Repubblica”, Laterza, Roma Bari2007 – Platone, “Gorgia”, Bompiani Milano 2001.

[3] In ragione dell’astrattezza della legge si impone  innanzitutto il principio di sufficiente determinatezza che obbliga il legislatore a formulare la norma in modo da assicurare una precisa determinazione della fattispecie giuridica, tale da permettere al giudice di individuare una corrispondenza tra il fatto giudicato e il modello astratto della norma. Il principio di sufficiente determinatezza implica a sua volta il principio di tassatività, che impedisce di creare in sede giudicante “nuovi reati” per via interpretativa o per analogia. 

[4] A conferma del fatto che solo la generalità astratta della norma è compatibile con l’universalità dei diritti sta l’inammissibilità delle cosiddette leggi ad personam, che appaiono già nell’immediatezza del comune sentire come una inaccettabile violazione del principio di uguaglianza, sia che tendano a favorire, o anche a sfavorire colui a cui si riferiscono.

[5] J. Bodin, “les six livres dela République” (1576). Ed. italiana J. Bodin, “I sei libri dello Stato”, UTET Milano 1964-1997.

[6] Stephanus Junius Brutus, “Vindiciae contra tiyrannos”, Ist. Italiano Studi Filosofici  Napoli 2021 (Ed. originaria 1579)

[7] Il punto di partenza di Giovanni di Salisbury è “la teoria delle due spade”, che rappresentano il potere spirituale e il potere temporale. Entrambi i poteri appartengono alla chiesa, che tuttavia cede al principe la spada temporale. Questi ha il dovere di rispettare le leggi divine. Se ciò non avviene il sovrano si trasforma in tiranno. Mentre il principe deve essere amato, “il tiranno va addirittura ucciso”. Queste tesi sono espresse nel “Policraticus” (1154-1159) Ed. italiana: Giovanni di Salisbury, “Policraticus”, Jaca Book  Milano 1985.

[8] per Agostino d’Ippona l’ubbidienza che si deve sempre al sovrano nasce dalla distinzione tra “La città di Dio” e “La città dell’uomo”. Tutti i mali di questa terra, anche le ingiustizie del potere temporale, vengono dal peccato originale e vanno accettate come forma di espiazione. Agostino, “Le confessioni”, Bompiani Milano 2012. (stesura originaria intorno 397/400)

[9] L’assolutismo di Bodin non è tuttavia senza limiti. Il sovrano deve comunque uniformarsi alle Leges imperii, l’insieme delle norme tradizionali del regno di origine divina e naturale. Tale impostazione nasce evidentemente dal bisogno di evitare il puro arbitrio nell’esercizio della sovranità, ma resta secondaria rispetto alla capacità del filosofo francese di descrivere lo Stato moderno come fondato sul rapporto diretto sovrano popolo, con azzeramento della complessa piramide sociale tipica del medioevo.

[10] T. Hobbes, “Leviatano”, BUR Rizzoli Segrate (MI) 2011.

[11] Hobbes nega l’esistenza di un diritto di resistenza. Tuttavia, poiché la rinuncia alla libertà è avvenuta per garantire la propria sicurezza, è in qualche modo inevitabile che quando questa viene meno, il suddito si senta sciolto da qualunque obbligo nei confronti del sovrano. In Hobbes la resistenza non è un diritto ma una condizione “di fatto”. 

[12] Dei “Due trattati sul governo” il primo dedicato a confutare le tesi del “Patriarca” di R. Filmer, è  quello meno significativo ai fini del nostro discorso, ed è in genere considerato meno importante. In ed. italiana citiamo J Locke, “Il secondo trattato sul governo”, BUR Rizzoli Segrate (MI) 1998

[13] Per Locke la proprietà è un diritto naturale, ed è in particolare la titolarità del lavoro che istituisce il diritto al possesso dei beni  prodotti. In natura nessuno dovrebbe appropriarsi dei frutti del lavoro altrui, ma nella società civile tutto cambia con l’introduzione del denaro. Locke tuttavia accetta questo passaggio senza darne una giustificazione plausibile sul piano dei valori di giustizia, limitandosi a considerare l’entrata in scena dello Stato come “giudice comune” chiamato a risolvere i conflitti che la nuova situazione di diseguaglianza sociale inevitabilmente comporta.

[14] La prima “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino è del 1789. Le Costituzioni della Francia rivoluzionaria si susseguono negli anni 1791, 1793 e 1795. Particolarmente innovativa risulta essere la Costituzione del 1793 detta anche “dell’anno primo”, nella quale per la prima volta nella storia venivano previsti il suffragio universale maschile diretto, l’istituto del referendum popolare e le prime forme di diritti sociali come il diritto al lavoro e alla sussistenza. La Costituzione del 1793 tuttavia non entrò mai in vigore

[15] Lo “Statuto del Regno di Savoia”, comunemente detto “Statuto Albertino”, entrato in vigore nel 1848 a seguito dei moti rivoluzionari, era una Carta ottriata e flessibile che riconosceva i diritti di libertà e di proprietà. E’ considerata il prodotto dell’alleanza tra Corona e borghesia contro il radicalismo democratico, ricalcando in questo modo i caratteri propri delle Costituzioni dell’800. Al sovrano era riservata la nomina dei ministri, dei membri del Senato e dei magistrati. La Camera dei Deputati era eletta con suffragio maschile fortemente censitario.

[16] Sulle origini del concetto di Stato di diritto vi sono varie controversie ma è ormai certo che il primo ad usare l’espressione in modo esplicito fu il politico e giurista tedesco R. Von Mohl (1799-1875), il quale per altro era un oppositore della democrazia e della forma repubblicana. La sua idea di Stato di diritto non si poneva in continuazione col costituzionalismo rivoluzionario del 700, ma era piuttosto concepita come una evoluzione dello Stato di polizia, tipico del dispotismo illuminato, che veniva arricchito attraverso l’affermazione del principio di legalità.

[17] J.J. Rousseau, “Il contratto sociale”, Feltrinelli Milano 2014.

[18] M. Hardt e A. Negri, “Assemblea”, Salani Editore Milano 2018

[19] E.J. Sieyès, “Che cosa è il Terzo Stato?”, Gwynplaine Camerano (AN) 2016.

[20] Rispetto al periodo che indichiamo fa eccezione la Costituzione Spagnola del 1978, entrata in vigore dopo la morte di F. Franco e la caduta del suo regime dittatoriale. 

Sul conetto di secolo breve cfr. E.J. Hobsbawm, “Il secolo breve 1914-1991”, Rizzoli Segrate (MI) 2014.

[21] L’Art. 1 della Costituzione Italiana stabilisce che “la sovranità appartiene al popolo”, e poi aggiunge in modo molto canonico “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

[22] La “Costituzione del Reich tedesco” comunemente nota come Costituzione di Weimar, fu promulgata nell’agosto del 1919 dopo solo sei mesi di lavori dell’Assemblea Costituente, e mentre l’intera Germania si trovava sprofondata in un clima di aperta guerra civile. 

A proposito delle criticità riguardo ai contenuti democratici, ricordiamo che l’Art 48 affermava tra l’altro “Se la pubblica sicurezza e l’ordine sono seriamente disturbati o in pericolo all’interno del Reich tedesco, il Presidente del Reich può adottare le misure necessarie per il loro restauro, intervenendo se necessario con l’assistenza delle forze armate”.

[23] La Costituzione della Repubblica Spagnola del 1931 all’Art. 1 definiva la Spagna una “Repubblica democratica dei lavoratori”. I suoi caratteri salienti e più peculiari erano il riconoscimento delle autonomie locali, un forte anticlericalismo, la possibilità dell’esproprio della proprietà privata a fini sociali che darà origine nel 1932 alla riforma agraria. Verrà abrogata nel 1939 con l’avvento del regime franchista.

[24] La Costituzione della Repubblica Italiana entra in vigore l’1 gennaio 1948. 

La Costituzione della Repubblica Federale Tedesca è decretata nel 1949. Di quest’ultima citiamo l’Art.20 che riconosce il diritto di resistenza. (Fatto del tutto unico nella storia del costituzionalismo moderno): “Tutti i tedeschi hanno diritto alla resistenza contro chiunque intraprenda a rimuovere l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio.”

In Francia è vigente la Costituzione della Repubblica francese del 1958, anche detta della V Repubblica e fondata sul semipresidenzialismo. Si tratta di una Carta che disciplina esclusivamente l’ordinamento dello Stato. Tuttavia nel preambolo si rinvia esplicitamente ai contenuti della Dichiarazione dei Diritti  del 1789 e al preambolo della Costituzione del 1946, dove erano espressi i nuovi diritti sociali.

[25] E’ nota la svalutazione dalla “storia evenemenziale”, come storia dei grandi eventi, operata dagli annalisti francesi (M. Bloch, L. Febvre, J. Le Goff) in favore degli aspetti di “lunga durata”, allo scopo di fare emergere la presenza delle maggioranze dei senza volto a scapito dei pochi grandi personaggi. Impossibile approfondire l’argomento in questa sede. Ci limitiamo a ribadire l’importanza dell’evento straordinario. La rottura rivoluzionaria, che non azzera la continuità della storia ma le da una diversa direzione e la riqualifica conferendo un nuovo senso alle cose e ai tempi ( e agli umani che dentro la storia vivono).

[26] La creazione delle Regioni a statuto ordinario, pur prevista dalla Costituzione, fu lungamente osteggiata, in un tipico clima da guerra fredda, dalle maggioranze parlamentari a guida democristiana, onde evitare che le cosiddette “regioni rosse” cadessero nelle mai del Partito Comunista. La situazione fu sboccata con la legge n.281  del 16 maggio 1970.

[27] Il riferimento obbligato è a H. Kelsen, “La dottrina pura del diritto”, Einaudi Torino 2021 

[28] Della vasta opera del giurista tedesco ci limitiamo a citare: C. Schmitt, “Le categorie del politico”, il Mulino Bologna 2013.

[29] L. Ferrajoli, “Per la Costituzione della Terra. L’umanità al bivio”, Feltrinelli Milano 2022.