Alla base dell’indipendenza del potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato, e dunque dalla politica, sta il principio di terzietà della magistratura, in nome del quale il giudice, nel procedimento penale, è chiamato a decidere, secondo criteri di imparzialità, tra le ragioni dell’accusa, che si fondano sui diritti della comunità, rappresentata dallo Stato, di riaffermare l’ordine stabilito, e i diritti del cittadino imputato, che riguardano il principio del “giusto processo” e il rispetto dei valori della persona umana. In pratica, e in senso ideale, il giudice è chiamato a difendere la comunità dalle possibili offese prodotte dall’imputato, ed al tempo stesso deve difendere il presunto reo dai possibili soprusi messi in atto dalla comunità, o dallo Stato che la rappresenta, o pretende di rappresentarla.
In questo suo difficile compito il magistrato deve sempre partire dall’accertamento di fatti reali , che vanno poi giudicati sulla base del diritto, vale a dire sulla base di norme certe e precedentemente stabilite. E’ nell’ambito di questo processo di presa in carico di conoscenze e verità accertate (“oltre ogni ragionevole dubbio”), che si pone il problema delle responsabilità che vanno attribuite all’autore dei fatti in questione.
La scelta del termine “autore”, per designare colui che è oggetto del giudizio, non è casuale, ma ha invece una valenza fondamentale. Essa indica il fatto che, per l’appunto, in quanto “autori”, si viene giudicati “per quello che si fa” e non “per quello che si è”. Ciò che conta è il fatto e non la personalità (vera o presunta) di chi lo ha commesso. Colui a cui viene imputato un determinato reato, ancorché soggetto portatore dei diritti della persona, deve essere considerato come un “perfetto sconosciuto” fuori dall’ambito delle questioni inerenti la specificità del processo nel quale è imputato. La sua personalità non ha (o meglio non dovrebbe avere) alcuna rilevanza processuale, a meno che essa non possa costituire circostanza attenuante, secondo il principio della massimizzazione delle ragioni della difesa.
Spostare l’attenzione dai fatti agli autori è una vecchia pratica, precedente e contraria, ai principi dello Stato di diritto, che tuttavia periodicamente si ripresenta come tentazione autoritaria, e che costantemente ripropone come una sorta di questione irrisolta quella del rapporto tra un diritto a “tendenza oggettiva”, basato sulla centralità dei fatti, e un diritto a “tendenza soggettiva” basato sulla personalità di chi commette i reati.
Quello che viene messo in discussione è il ruolo storico della magistratura nel senso della sua indipendenza dalla politica e nella sua terzietà[2] Spostandosi, infatti, dall’accertamento dei fatti alla pericolosità sociale del reo, si finisce col mettere al centro della pratica giudiziaria la difesa dell’ordine sociale esistente a scapito della difesa dei diritti dell’imputato, perdendo quell’equilibrio che è la cifra costitutiva dell’esercizio del diritto. La magistratura diviene infine un organo di governo delle cose e degli uomini con finalità e modi che appartengono storicamente al controllo repressivo e alle pratiche di polizia.
In tempi moderni il ripresentarsi di queste tendenze “devianti” ha la sua data d’inizio, non a caso, in Germania durante la dittatura nazista. Nel codice penale venne introdotta allora la cosiddetta “colpa d’autore”, attraverso la quale nel determinare la colpevolezza, e la conseguente condanna, molto più che il fatto contestato, valeva la presunta personalità deviante che caratterizzava il modo d’essere dell’autore. In sostanza il fatto delittuoso veniva considerato una inevitabile conseguenza della presunta propensione a delinquere del soggetto considerato. La pericolosità sociale, valutata ovviamente secondo i parametri e le finalità della dittatura nazista, diveniva in questo modo l’unico vero criterio di giudizio dell’azione penale ai fini della emissione della sentenza[3].
La colpa d’autore nella realtà concreta della sua applicazione giudiziaria aveva ovviamente ancora un qualche labile rapporto con la dimensione dei fatti considerati e contestati. Lo stesso concetto di colpa, d’altra parte, quando riferito al soggetto specifico non può fare a meno di rimandare, in qualche modo, al generarsi di situazioni singolari. Se tuttavia si fa astrazione dalla concreta pratica giudiziaria, allora l’applicazione della colpa d’autore finirà col produrre dei veri e propri profili generali che si possono classificare come “tipi d’autore”, o meglio ancora e ancora più in generale, come “tipologie criminali”, il cui quadro complessivo designa i nemici della società e dell’ordine costituito. La cancrena sociale. La malattia inguaribile che va semplicemente eliminata e cancellata, operata e rimossa dal corpo sociale perché rappresenta un pericolo mortale a prescindere dai sintomi, rappresentati dal prodursi dei fatti specifici. In sostanza: prima si individuano i nemici dell’ordine pubblico e della convivenza civile e solo dopo si cercano le loro colpe. E se non si dovesse trovare nulla, con ancora più decisione bisogna affondare il bisturi, perché si sa che i mali più pericolosi sono quelli che non producono sintomi evidenti.
Il farsi di questi processi ha prodotto quello che notoriamente viene definito “il diritto penale del nemico”[4], che come cercheremo di mostrare, ha proprio nella storia recente del nostro paese una sua originale e significativa esemplificazione, sebbene speso in modi e forme molto subdole e che possono anche apparire lontane da una tale forma di radicalizzazione.
Precisiamo innanzitutto che con l’espressione diritto penale del nemico si intende la creazione di un vero e proprio sistema penale che agisce in modo parallelo a quello riservato alla maggioranza dei cittadini e fondato sullo Stato di diritto. Tale regime speciale è riservato ad una minoranza di soggetti ritenuti non emendabili, delle “non persone”. che vengono, prima idealmente e poi materialmente, espulsi dal contesto sociale, e verso i quali si applicano non i principi del diritto ma le pratiche stabilite dallo “stato di guerra”[5].
Come si può immaginare le conseguenze sono a dir poco catastrofiche. Innanzitutto il ritenere che possa esistere una categoria di soggetti sociali verso i quali si applicano regole ed interventi particolari che negano loro l’integrità dei diritti, significa negare in toto, e dunque per la generalità dei cittadini, l’esistenza dello Stato di diritto, il quale per avere senso ed esistenza non può che fondarsi sul valore della sua universalità.
In secondo luogo, poiché questi processi avvengono in maniera per così dire “subdola”, senza che mai né il concetto di “nemico”, né tanto meno lo stesso termine vengano codificati ed introdotti nell’ordinamento, si finisce col permettere un ampio margine di discrezionalità, sia al legislatore in sede normativa, sia al giudice a livello della applicazione delle norme in sede penale.
La storia della nascita, sotto traccia e mai dichiarata, di un diritto penale del nemico nel nostro paese è frutto di una complessa vicenda, la cui prima fase si può fare risalire al periodo che va dalla fine degli anni settanta fino ai primi anni novanta, e che culmina con la stagione stragista e gli omicidi di Falcone e Borsellino. E’ nel corso di questo periodo che la magistratura, per varie ragioni che cercheremo di capire, finisce col ricoprire un ruolo sempre più centrale nelle vicende del paese, legate alla lotta al terrorismo prima, e al contrasto al fenomeno mafioso dopo.
Come si può facilmente capire, in entrambi i casi, sia riguardo al terrorismo che riguardo alla mafia, ci si trova di fronte a quelle tipiche situazioni che possono facilmente rientrare nell’ambito delle cosiddette “condizioni emergenziali”. Quello stato di cose che da sempre è considerato il terreno più favorevole per l’affermarsi del decisionismo politico giustificato dal bisogno di governare “lo Stato d’eccezione”. E’ esattamente in queste situazioni che proprio la magistratura, dovrebbe rappresentare contro la possibilità dell’arbitrio decisionale, la difesa dello Stato di diritto. Il diritto come freno e limite all’eccezione. Il valore delle norme, innanzitutto delle norme primarie sancite dal dettato costituzionale, come capacità di delineare il recinto non superabile entro il quale si può dare la libera scelta di legislatori e governanti. Questo almeno nel perfetto “modello ideale”, che in verità, essendo esso stesso parte del sistema di governo dell’esistente e dunque di riproduzione dei reali rapporti di forza tra le classi e tra dominanti e dominati, finisce col funzionare sempre in modo molto parziale nella sua pretesa di difendere il più deboli.
Cercando ora di andare alle radici della questione così come si è determinata a casa nostra, occorrerà tornare, come abbiamo preannunciato, alla seconda metà degli anni settanta. Premettiamo doverosamente che non c’è da parte nostra alcuna pretesa di fare una accurata ricostruzione storica che non ci compete, ma solo di ricordare brevemente ciò che è utile ai fini del nostro discorso.
In quegli anni, non a caso definiti “anni di piombo”, lo Stato italiano e la classe politica che lo rappresentava, si trovavano in una grave difficoltà. Bisognava affrontare la questione terrorismo, e soprattutto evitare una possibile saldatura tra la lotta armata e le istanze portate avanti dai grandi movimenti di massa che, praticamente in modo ininterrotto a partire dalle rivolte sessantottine, agitavano il paese. L’unica possibile “vittoria incruenta” da parte dello Stato era legata alla capacità di dare risposte positive alle urgenze e alle istanze di cambiamento sociale portate avanti dai movimenti. Ma questa soluzione allo Stato, proprio in quanto “Stato”, era preclusa dalla sua natura di strumento di potere e di difesa degli interessi dominanti. Sappiamo oggi quale sarebbe stata la risposta di lungo periodo per la riaffermazione del comando capitalista, giunta a maturazione nei primi anni ottanta con l’affermarsi a livello di tutto l’Occidente del modello neo liberista. Ma intanto nell’immediatezza della situazione emergenziale che imponeva di sconfiggere la lotta armata, e non essendo in grado di proporre contenuti di mediazione alle molteplici soggettività antagoniste, non sembrava esserci soluzione, se non forse quella più immediata e irrazionale di affogare in un bagno di sangue, non solo le organizzazioni armate (cosa che forse per i governanti non sarebbe stata un problema) ma gli stessi movimenti di massa.
E’ nell’ambito di questo complesso quadro politico e sociale, che si pone il ruolo di supplenza istituzionale assunto allora dalla magistratura nella lotta contro le organizzazioni armate e le Brigate Rosse in particolare. Non saprei dire quanto sia stato un ruolo consapevolmente voluto, o quanto abbiano giocato le meccaniche legate allo stato delle cose. Quello che a noi importa è sottolineare come la risposta giudiziaria finì col confondersi con quella politica divenendo infine prevalente al punto che ancora oggi essa rappresenta il nocciolo della stessa interpretazione storica di quegli anni e di quegli avvenimenti.
Simile per alcuni versi, ma diversa per tanti altri, è la vicenda che riguarda la lotta alla mafia, divenuta una delle questioni centrali dell’Italia degli anni ottanta. In questo caso l’iniziativa parte dalla stessa magistratura, o almeno da una parte di essa, che in un modo che va giudicato lodevole, si assume la responsabilità della lotta alla criminalità organizzata e alla pervasiva rete di oppressione e controllo sociale che il malaffare mafioso aveva posto in essere, e contro il quale già dall’inizio degli anni ottanta era nato un movimento dal basso da parte della società civile[6]
Le vicende che vanno dalla nascita del pool antimafia del tribunale di Palermo fino al tragico epilogo stragista dei primi anni novanta, vedono un lento, ma infine decisivo, mutamento di postura nella dimensione delle politiche ufficiali di governo nei confronti dei fenomeni criminali di stampo mafioso. Alle alleanze e alle connivenze che fino ad allora avevano caratterizzato, in modo neppure troppo nascosto, il rapporto tra politica e mafie, si sostituisce progressivamente, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, ma poi in modo effettivamente sempre più pregnante, un distacco dalle vecchie pratiche e un contrasto che diventa spesso reale. Finalmente un decisivo passo in avanti nella riforma della politica? Una nuova consapevolezza legata al sacrificio dei giudici anti mafia? Non credo sia questo il caso!
Certo una maggiore consapevolezza della insopportabilità del crimine organizzato avvenuta a livello generale e popolare, hanno sicuramente spinto la politica a mutare atteggiamento, non fosse altro che allo scopo di darsi una ripulita e non pagare pegno. Ma in realtà c’è dell’altro.
La questione dei rapporti tra Stato e mafia, non riguarda soltanto le congiunture criminali e le scelte personali e opportunistiche di volta in volta fatte da singoli attori sociali. Il rapporto ha una precisa ragione strutturale, che a mio avviso rientra nella più vasta tematica che definirei come “statalizzazione del meridione” e che resta una delle questioni più spinose che affliggono il nostro paese sin dai tempi dell’unità d’Italia, e che una volta veniva anche detta “questione meridionale”. Anche qui dobbiamo tagliare ed “accorciare la storia” andando al nocciolo delle nostre questioni.
A partire dalla fine del secondo conflitto mondiale in un paese di confine tra i due blocchi e con il più forte Partito Comunista dell’Occidente, assicurare la pace sociale era un compito fondamentale che la classe politica a conduzione democristiana aveva il compito di assumersi. La statalizzazione del meridione, ancor più di quanto non fosse già avvenuto in passato, doveva passare attraverso un ulteriore processo di statalizzazione della mafia. Lo Stato-mafia ha caratterizzato la politica meridionale all’epoca del mondo diviso in blocchi. Alleanze tra notabili democristiani e boss per il controllo dei flussi economici e per la governance degli assetti sociali. Rapporti organici tra arma dei carabinieri e famiglie mafiose per il controllo dei territori. Tutto questo appartiene innanzitutto alla storia della politica prima che alla storia del crimine.
In seguito, con il progressivo venir meno della logica dei blocchi contrapposti, ed infine con la caduta del muro e il mutare delle relazioni internazionali, ma anche in ragione dell’esigenza di rispondere alla rinnovata coscienza popolare di opposizione ai fenomeni mafiosi, le strategie di statalizzazione del meridione hanno subito una profonda trasformazione. Accantonato lo Stato-mafia si punta ormai allo Stato-legalità, che è il modo con cui oggi la macchina del potere, non senza contraddizioni e scontri al suo interno, si è impossessata dell’originario e genuino spirito dell’antimafia per farne un nuovo strumento di controllo sociale dal notevole potenziale repressivo.
La forza delle nuove strategie di statalizzazione sta nel fatto che appare immediatamente evidente all’opinione comune come la legalità, per quanto essa pure strumento di controllo repressivo, sia comunque decisamente preferibile all’arbitrio criminale sanguinario e senza controllo delle mafie. Questo vantaggio però ha permesso allo Stato di legalità di trasformarsi in acritico statalismo e legalismo, che a partire dall’esigenza di schierare i fronti conto il nemico mafioso, usa in modo spregiudicato e non garantista le norme giuridiche, venendo meno in questo modo proprio a quei valori dello Stato di diritto che invece dovrebbero essere i motivi che rendono appetibile la legalità.
Un processo che è stato anche favorito dalla presenza nella stessa tradizione della “migliore” antimafia di una spinta non garantista e tendenzialmente giustizialista, legata alla sinistra storica italiana e al Partito Comunista in particolare. L’idea, non del tutto esplicitata e forse non del tutto consapevole, che in un’ottica di conquista riformista dello Stato, la giustizia potesse rappresentare la vendetta del povero nei confronti del ricco. Una debolezza che ha favorito la fiducia cieca nello Stato e nella sua azione repressiva con scarsa attenzione ai diritti.
La storia della lotta al “terrorismo” e al fenomeno mafioso, e il ruolo in gran parte anomalo avuto in queste vicende dalla magistratura, hanno aperto alla possibilità che una forma originale di diritto penale del nemico si potesse determinare in Italia sulla base di due fondamentali tipologie criminali: il “mafioso” e il “terrorista”. Il nemico nelle sue due versioni, le due facce della stessa medaglia, le espressioni più compiute del “criminale comune” e del “criminale politico”.
Bisogna riconoscere a questo punto che la definizione di queste due macro espressioni di tipologia criminale ha un grande potenziale di inganno propagandistico e di coinvolgimento di massa. Cosa c’è infatti di più lontano dal comune sentire del cittadino medio della mafia e dei suoi metodi, e dell’uso della violenza armata?
Si da il caso tuttavia che accettare le storture del diritto penale del nemico porta verso una china senza fine. La coesistenza dello Stato di diritto e dello Stato di guerra è difficile, al limite dell’impossibile. La guerra per sua natura nega il diritto e se non arrestata tende a divenire sempre più invasiva. Una volta che la personalità dell’autore entra come elemento di giudizio in alcune circostanze e fattispecie di reato essa tende poi ad allargarsi a tutti gli aspetti della pratica penale. Avviene così che il mafioso e il terrorista divengano l’apice e il modello di riferimento di veri e propri paradigmi categoriali, entro i quali si danno le figure dei nemici di secondo livello, i “potenziali mafiosi” (intesi qui come criminali organici) rappresentati dalle figure dei piccoli malavitosi: il ladruncolo, lo spacciatore, il truffatore ecc. E dall’altra parte “i potenziali terroristi” rappresentati dal disubbidiente o dal semplice contestatore, o da colui che viene genericamente definito come “socialmente pericoloso”. Un insieme diverso di figure il cui aspetto comune che le definisce è quello di essere in vari modi fuori dalla logica della silenziosa ubbidienza legalista e statolatra.
La centralità, ormai più che evidente, della logica del tipo d’autore entro la pratica giudiziaria porta ad una sempre maggiore compenetrazione del sistema penale col sistema carcerario. Le sentenze prodotte dai nostri tribunali sembrano avere spesso, quando emesse secondo la logica del nemico da colpire, due precisi e (quasi) esclusivi scopi: lo scopo punitivo e lo scopo preventivo. Punire e prevenire sono i nuovi mantra di un diritto senza diritti e senza stato di diritto[7].
Le norme più fortemente punitive introdotte negli ultimi anni nel nostro ordinamento, e che non a caso sono oggetto di continue discussioni, riguardano l’ergastolo ostativo e l’art. 41 bis, che istituisce le misure del carcere duro. Ciò che salta subito agli occhi anche dei non addetti ai lavori, è che tali disposizioni dovrebbero facilmente essere considerate incostituzionali. Come sia possibile conciliare la carcerazione senza fine dell’ergastolo ostativo e le forti restrizioni ai diritti della persona previste dal regime del carcere duro, con l’art. 27 della nostra Carta Fondamentale che proibisce “i trattamenti contrari al senso d’umanità” e che pone come fine della pena la rieducazione del condannato, è cosa molto difficile da capire, a prescindere dalla valutazione e dal senso che si voglia dare al contenuto del dettato costituzionale.
I sostenitori di tali provvedimenti sembrerebbero insistere molto su una logica puramente pragmatica che riguarda la comprovata efficacia delle misure in questione nella loro capacità di contrasto al crimine. Posizione molto pericolosa, come si può facilmente capire, perché se non si pone un qualche limite di principio all’ottica del risultato da ottenere, si rischia di accettare tutto in nome del “fine”, che come si sa, giustifica l’adozione di qualsiasi mezzo. Si potrebbe dire a questo punto, in modo estremo e paradossale: perché allora non la tortura?
Ciò che caratterizza in particolare queste misure estreme sembrerebbe essere la centralità della segregazione e del totale isolamento del carcerato come forma di prevenzione rafforzata. Il regime previsto dal 41 bis ha come suo fine dichiarato quello di impedire al recluso di potere continuare a comunicare con l’organizzazione criminale di appartenenza. Se questo è l’obiettivo appaiono allora del tutto inutili, e dunque semplicemente ed esclusivamente punitive, tutte le restrizioni che riguardano per esempio la limitazione degli spazi e delle ore d’aria, il divieto d’accesso libero a libri, riviste e programmi televisivi, la limitazione dei colloqui con i familiari, con i quali si comunica separati da un vetro divisorio anche quando si tratta di bambini. Qualcosa di molto simile si può dire anche dell’ergastolo ostativo, laddove si pensi che la possibilità di lasciare il carcere è stata negata anche in punto di morte a detenuti ormai incapaci di intendere e volere, rispetto ai quali non si capisce che tipo di rapporto criminale avrebbero potuto avere con i loro vecchi sodali fuori dal carcere.[8]
L’evidente incongruenza ai fini preventivi di tali misure fa pensare, non solo al prevalere di una logica fortemente punitiva, ma anche ad un intento ricattatorio. Una sorta di tortura fisica e psicologica che dovrebbe spingere il detenuto alla collaborazione. Ancora una volta la finalità pratica viene posta come assoluta, e quindi del tutto indifferente a ragioni di principio che riguardano il rispetto dei diritti umani, che in via eccezionale possono anche essere calpestati.
L’ergastolo ostativo inoltre appare in contrasto pure con la funzione retributiva della pena (anche a prescindere dal senso e dal valore che si voglia dare a quest’ultima, e da quanto essa possa essere discutibile)[9]. Se infatti la pena si misura come tempo di carcerazione, che rappresenta il modo attraverso il quale il reo paga il suo debito con la società, allora il “fine pana mai” sta a rappresentare la pretesa della l’assoluta irreparabilità del danno procurato, rispetto al quale ogni misura diviene semplicemente impossibile. Il condannato diviene così il “criminale assoluto”, per l’appunto “il nemico” come abbiamo visto, con il quale ogni “resa dei conti” è impossibile perché con lui i conti non potranno tornare mai. Il nemico va semplicemente cancellato. E’ questa esattamente la logica che sta dietro la pena di morte. L’ergastolo ostativo è la pena di morte vestita con i panni dell’ipocrisia buonista.
Sul progressivo affermarsi nel nostro sistema giudiziario del diritto penale del nemico, credo che una tappa fondamentale si sia compiuta di recente all’interno della vicenda che riguarda l’anarchico Cospisto, con l’applicazione dell’art. 285 c.p. Si tratta di un vecchio articolo del 1930, facente parte del codice Rocco, di quelli che vengono definiti dormienti, perché pur essendo vigenti in quanto parte della codificazione penale, sono di fatto caduti in disuso, almeno fintanto che qualche giudice non si ricordi di loro, che è esattamente quello che è successo per potere condannare Cospito alla pena dell’ergastolo.
L’art. 285 c.p. così recitava nella sua stesura originaria: “Chiunque allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con la morte”. La pena di morte è stata poi sostituita con l’ergastolo. Va subito notato che dei reati di strage e di saccheggio e devastazione si occupano anche l’art. 422 c.p. riguardo alla strage con pene che partono dai quindici anni per il reato solamente tentato, e l’art. 419 c.p. che così recita nella sua prima parte: “Chiunque fuori dai casi preveduti dall’articolo 285 commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni…”.
Come appare evidente siamo nella logica del diritto che mostra due facce nettamente tra loro distinte. C’è il diritto dei diritti che pone al centro il fatto che ha avuto luogo: “ Chiunque….commette fatti…”. E poi c’è il diritto senza diritti di chi va punito per le sue intenzioni, magari senza che nulla abbia avuto luogo. Anzi, più precisamente, ciò che si colpisce non è neppure l’intenzione di compiere il crimine in oggetto, quanto piuttosto il mettere in atto un qualsiasi fatto, in sé non necessariamente illecito, che sia “diretto a portare” al possibile compiersi dell’atto criminoso. Insomma anche un volantino, una dichiarazione, un semplice reato d’opinione. Inoltre il dovere giudicare un fatto non in sé, ma semplicemente come prodromico di qualcosa d’altro, presenta una oggettiva difficoltà nello stabilire la catena delle intensioni, lasciando una assoluta libertà interpretativa al giudice, il quale inevitabilmente sarà guidato dalle proprie personali idee ed opinioni, come d’altra parte sempre avviane quando l’oggetto del giudizio è l’uomo e non le sue azioni.
Sorprendente è inoltre la notevole differenza nella entità della pena. Da otto a quindici anni per chi commette fatti di devastazione o saccheggio e addirittura l’ergastolo secco per chi agisce in modo da spingere verso il compimento di tali atti. In questo caso ciò che fa realmente la differenza nell’enfatizzare l’intenzione punitiva massimizzando la pena, è l’incipit del già citato art. 285, che indica di valutare la colpa rispetto al sussistere dello scopo di “attentare alla sicurezza dello Stato”. La parola Stato ricorre poi in maniera quasi ossessiva anche nella successiva precisazione, apparentemente del tutto inutile, che il possibile reato deve essere pensato come da realizzare “nel territorio dello Stato o in una parte di esso”. La finalità della norma è dunque quella di tutelare la personalità dello Stato come bene giuridico. Un terreno minato che presuppone la pericolosa libertà del giudizio politico che finisce con l’essere implicito, ma essenziale, nella possibile sentenza di colpevolezza, e che in ragione del valore puramente prodromico del reato ipotizzato, potrebbe facilmente risolversi nella contestazione di semplici reati d’opinione.
Eravamo sul finire degli anni settanta, quando in un clima di grandi contestazioni al limite della rivolta popolare, decine di migliaia di manifestanti, diciamo anzi centinaia di migliaia, affollavano le piazze d’Italia lanciando slogan fortemente antagonisti del tipo “Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia!” oppure “Il potere sta sulla canna del fucile!”. Ebbene, a volere esagerare e dando una interpretazione estrema ma pur sempre giuridicamente e logicamente plausibile della norma, sulla base del disposto dell’art. 285 tutte quelle folle potrebbero essere oggi in carcere con una condanna all’ergastolo.
E’ evidente che il nostro è un paradosso, e che a nessuno dei difensori dello Stato sarebbe mai venuto in mente in quei giorni di ricorrere a nulla di simile. Eppure sottolineare la pur astratta possibilità della applicazione estrema della norma, e quindi metterne in risalto la grande elasticità e possibile duttilità di impiego, ci dice di quanto politica e non strettamente giuridica sia la scelta di metterla in campo o di lasciarla dormiente, (ma sempre pronta all’uso), dentro le pieghe dell’ordinamento. Quello che ieri non si poteva, e non aveva senso fare, lo si può fare oggi in condizioni, e con rapporti di forza, molto diversi.
E’ come se, all’atto della nascita della Repubblica, la novella Democrazia, invece di cancellare una norma fascista, se la sia voluta tenere di riserva, pronta per colpire “il nemico” quando le circostanze lo avessero reso possibile o necessario, fingendo di stare sempre dentro le regole dello Stato di diritto.
All’interno della funzione repressiva, come sua parte e in qualche modo come suo compimento, vanno considerate poi le cosiddette misure preventive, ormai divenute sempre più centrali nelle pratiche giudiziarie.
Di fronte alle ragioni della prevenzione non si può neppure parlare di un rovesciamento dell’ordine delle priorità tra autore e fatto illecito. Ormai siamo oltre! Semplicemente perché il fatto criminoso non è mai avvenuto. Banalmente non esiste, e dunque e ovviamente, non può neppure esistere un autore. La stessa logica della colpa d’autore e del tipo d’autore che conducono ad una classificazione delle tipologie criminali tarate sulla tipizzazione dei fatti illeciti, viene superata in una banale “tipologia della devianza”, che ha come riferimento costitutivo la pura e semplice incontestabilità e immodificabilità dell’ordine sociale esistente. Uno dei valori fondamentali del diritto penale e dello Stato di diritto secondo il quale nullum crimen, nulla poena sine culpa viene clamorosamente disatteso. La pena non è più conseguenza del crimine, ma lo precede e lo previene. La colpa è connaturata alla personalità deviante del soggetto (o più semplicemente al solo fatto del suo non essere allineato) e non ha bisogno di manifestarsi nella concretezza dei fatti.
Nella messa in opera delle misure preventive la magistratura tradisce il suo ruolo costitutivo che, almeno in una dimensione ideale, dovrebbe vederla come soggetto riequilibratore e riparatore del danno socialmente procurato in un’ottica, che secondo le ipotesi del riformismo più avanzato, dovrebbe tendere alla pacificazione tra le parti e alla riconciliazione tra le soggettività coinvolte in fatti illeciti o anomali e l’intera comunità. Al contrario la logica insita nelle misure di prevenzione fa del giudice il guardiano e il garante di un meccanismo d’ordine, repressivo ed imposto dall’alto, fondato sul principio della fedeltà al sistema che ricorda molto il ruolo dei tribunali speciali dei regimi dittatoriali, di fronte ai quali il presunto, e spesso immaginario, nemico della comunità sociale, si materializzava nell’immediatezza del nemico del regime da isolare e mandare al confino.
Nella logica e nella pratica delle misure preventive la figura del nemico viene subdolamente dilatata. Al centro dell’attenzione non è più tanto il mafioso o il terrorista, i quali come abbiamo visto vengono fatti oggetto di misure dal forte contenuto punitivo (ergastolo ostativo, carcere duro ecc.). Il bersaglio della misura preventiva è piuttosto colui che è sospettato di essere o potere divenire “l’amico del nemico”, il fiancheggiatore nella sua espressione più compiuta, ma anche soltanto colui che non viene giudicato abbastanza saldo nei suoi propositi, colui che non si mostra abbastanza “nemico del nemico”, o che magari ha soltanto la pessima abitudine di avere dubbi o farsi troppe domande. . Nell’ambito del contrasto alle mafie, le misure preventive avendo tra gli obiettivi prioritari quello di sottrarre al crimine organizzato i patrimoni illecitamente acquisiti, finiscono spesso col sequestrare, e poi definitivamente confiscare, i beni di cittadini (spesso imprenditori) che in sede penale sono stati completamente assolti da qualunque connivenza con le organizzazioni mafiose, e che anzi vengono a volte riconosciuti anche come vittime. Altre volte quando il bene è costituito da una azienda, capita che questa viene restituita dopo il suo fallimento, senza alcun risarcimento.[10]
In primo luogo agisce probabilmente un pregiudizio non confessato, e forse nemmeno del tutto consapevole, che se una azienda o una qualche attività economica riesce ad avere successo, o anche solo a sopravvivere senza particolari affanni in una terra martoriata dal malaffare mafioso, vuol dire che una qualche complicità deve comunque sussistere. Un sillogismo del tutto arbitrario che diventa senza dimostrazione verità nelle aule di tribunale.
In secondo luogo l’esigenza della lotta senza quartiere e senza regole contro il nemico, produce l’impellenza, anche questa forse non del tutto consapevole, di sottrarre la preda succulenta dalle grinfie del predatore. In pratica e fuor di metafora, si tende a colpire l’attività di successo per impedire che divenga oggetto delle inevitabili attenzioni del crimine organizzato. Detto per inciso: questa colpa (senza colpe) dei soggetti che subiscono i sequestri senza essere mafiosi, a me ricorda le donne che negli anni sessanta venivano accusate di provocare molestatori e stupratori mostrandosi in minigonna.
Le misure di prevenzione che invece tendono a colpire le opinioni politiche e la disubbidienza civile si muovono su un terreno che non riguarda i beni materiali, quanto piuttosto i processi di soggettivizzazione. La relativa debolezza dei movimenti di massa e dell’opposizione sociale, in una perfetta logica di guerra, piuttosto che spingere verso una maggiore tolleranza, hanno moltiplicato le misure di prevenzione di stampo poliziesco ed enfatizzato il loro contenuto afflittivo. Il dissenso è visto con sospetto. La protesta è poco tollerata. La disubbidienza civile non è ammessa. Le misure preventive piuttosto che intervenire su (immaginate) emergenze, tendono sostanzialmente a normalizzare, con ulteriore accanimento, una situazione sociale già ampiamente normalizzata.
Le misure di prevenzione, ormai sempre più invasive e fuori controllo, per potere rientrare entro il recinto dello Stato di diritto andrebbero minimizzate e rigorosamente normate in senso restrittivo. In linea generale andrebbe affermato il principio che le misure di prevenzione (tipicamente la carcerazione preventiva) vanno deliberate esclusivamente entro, ed in funzione, del processo penale e della sua procedura. La loro vigenza ed efficacia deve inoltre essere regolata da norme di natura generale che ne fissano in maniera perentoria, certa e prestabilita i limiti temporali e che prevedano il giusto risarcimento in caso di assoluzione dell’imputato, o di accertata inutilità o incongruenza delle stesse.
Ribadiamo in conclusione che questo prevalere delle finalità punitive e di prevenzione sociale nell’azione giudiziaria, allontanano sempre di più la magistratura dai suoi originari scopi istituzionali. Anche all’interno del tradizionale ruolo di dominio e di controllo dell’ordine sociale svolto dall’ordinamento statale, la magistratura, in quanto garante dello Stato di diritto e delle norme costituzionali, come abbiamo visto, dovrebbe svolgere almeno in teoria un ruolo di mediazione istituzionale e di limite da opporre al decisionismo politico. Oggi tuttavia le esigenze del governo della complessità sociale e delle stratificazioni di classe, impongono una normalizzazione dello Stato d’eccezione fino a renderlo permanente, riducendo sempre di più lo Stato di diritto ad una pura questione formale. In questa nuova realtà la magistratura, o forse e per meglio dire la casta dei giudici, ha ormai quasi del tutto azzerato la sua distanza dalla politica e si è fatta essa stessa soggetto politico attivo, e in parte capace anche di decisionalità indipendente.
La divisione dei poteri in pratica non esiste quasi più. Il potere è sempre più uno solo e parla una sola lingua. E non sembra essere la lingua dei diritti, né tanto meno la lingua degli oppressi, quanto piuttosto quella degli oppressori.
NOTE
[1] Sullo stato del nostro sistema penale e sulla sua deriva giustizialista basterà citare alcuni dati tratti da un articolo di Luigi Ferrajoli pubblicato sul Manifesto del 2 marzo 2023.
Pare che la criminalità negli ultimi trent’anni sia letteralmente crollata. Si è passati dai 1938 omicidi del 1991 ai 309 del 2022 (addirittura 271 nel 2021). Ebbene, nello stesso periodo, a fronte della diminuzione di quasi sette volte del peggiore dei crimini: il procurare la morte, la massima delle pene prevista nel nostro ordinamento, vale a dire l’ergastolo è più che quadruplicato passando dai 408 casi del 1992 agli attuali1859, di cui i due terzi - esattamente 1267 – in regime “ostativo”. Malgrado anche le altre più comuni tipologie di reato siano in forte calo, sempre dal 1991 ad oggi, il numero totale dei reclusi è quasi raddoppiato passando da 31.053 agli attuali 56.158. Numeri senza alcuna apparente giustificazione.
[2] La ricerca di un equilibrio dei poteri che garantisse contro possibili derive despotiche è stata una preoccupazione che ha attraversato il pensiero politico sin dal suo nascere, dalla politeia di Aristotele alla teoria della costituzione mista di Polibio. In epoca moderna il punto d’arrivo della dottrina è notoriamente considera la divisione dei poteri così come descritta da Montesquieu nel suo Spirito delle leggi. Da notare che la impostazione del filosofo francese è chiaramente ispirata al sistema anglosassone in cui uno dei compiti centrali del magistrato che giustificava la sua autonomia era quello della difesa del suddito/cittadino dai possibili soprusi del potere.
[3] “La colpa d’autore” che qualcuno ha definito anche “colpa per la condotta di vita” (Mezger) produsse effetti terribili nella Germania nazista. Emblematico il caso di Roland Freisler, presidente del tribunale del popolo, che tra l’agosto1942 e il febbraio del 1945 condannò a morte 5200 oppositori del regime. Pare che perfino Martin Bormann, segretario di Hitler, lo considerasse un pazzo invasato. (fonte L.M. Blasi “La colpa d’autore”, sul sito “statominimo.it”).
[4] “Il diritto penale del nemico” (Feindstrafrecht) è una teoria elaborata da Gunter Jakobs in due interventi del 1985 e del 1999. Sull’argomento rimandiamo a M. Donini e M. Papa (a cura di), Diritto penale del nemico: un dibattito internazionale, Milano 2007 e A. Gamberini e R. Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna 2007.
[5] Con l’espressione “Stato di guerra” ci si riferisce alla condizione originaria della belligeranza, prima e a prescindere dalla applicazione delle norme del diritto bellico, consistenti fondamentalmente nelle quattro convenzioni di Ginevra che riconoscono al nemico lo status di soggetto portatore di diritti.
[6] A seguito della cosiddetta seconda guerra di mafia che imperversò a Palermo nei primi anni ottanta con circa 600 omicidi, tra cui diversi esponenti politici ed uomini delle istituzioni, si determinò nella città un ampio fiorire di movimenti spontanei di reazione e di rifiuto e contrasto alle pratiche e alla cultura mafiosa, che portò nella seconda metà del decennio alla cosiddetta “primavera di Palermo”. Parallelamente, anche se non senza reciproche incomprensioni, la lotta alle mafie si avvalse del lavoro del pool antimafia costituito presso il tribunale di Palermo sotto la guida di Antonino Caponnetto, che porto al maxiprocesso contro Cosa nostra con 460 imputati e conclusosi con 19 ergastoli e un totale di 2665 anni di reclusione.
[7] La prima limitazione alla crudeltà delle pene nel diritto moderno si deve con ogni probabilità al Bill of Rights inglese del 1689. Il concetto è poi ripreso dall’ottavo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, cosa che non ha impedito a quel paese di praticare la pena di morte fino ai nostri giorni. Oggi l’art.5 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU e L’art. 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, adottando un testo quasi letteralmente identico proibiscono la tortura insieme a “trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Purtroppo i concetti di inumano e di degradante appaiono generici e si prestano a molteplici interpretazioni, secondo i modelli culturali di riferimento.
[8] Sono noti i casi dei boss mafiosi Riina e Provenzano lasciati morire in carcere quando non erano in grado di nuocere in alcun modo. Sul caso Provenzano c’è stata anche una condanna, datata 2018, della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che ha ritenuto l’Italia colpevole di avere prolungato il regime del 41 bis oltre le necessità.
[9] Secondo la teoria retributiva della pena la sanzione deve punire il colpevole con un tipo di afflizione proporzionata al male provocato, in genere calcolata col tempo di carcerazione. In opposizione a tale approccio in tempi recenti si è andata sempre più affermando tra militanti e studiosi, la concezione della giustizia riparativa che si fonda sull’obbligo, per l’autore del reato, di mettere in atto azioni tendenti a rimediare al danno procurato alle vittime, ed in senso più ampio all’intera comunità.
[10] Alla base dei provvedimenti di sequestro e confisca dei beni sta la legge Rognoni-La Torre che ha introdotto il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e la procedura di confisca “delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o che ne costituiscono l’impiego”. Oggi la confisca dei beni è regolata dall’art. 24 del Codice antimafia secondo il quale “Il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è istaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza…”. E’ stato fatto osservare che in tal modo è stato totalmente invertito il principio dell’onere della prova, che di norma spetta all’accusa. Ma l’obiezione può essere formalmente aggirata grazie all’art 29 dello stesso codice antimafia che letteralmente dispone: “L’azione di prevenzione può essere esercitata anche indipendentemente dall’esercizio dell’azione penale”. E’ questo il vero punto dolente di tutta la normativa, poiché il puro valore amministrativo e non penale dei provvedimenti di prevenzione, a prescindere dal loro contenuto penalizzante e afflittivo, permette un livello probatorio estremamente basso ed un altrettanto basso livello di garanzie per i destinatari dei provvedimenti. In sostanza è possibile punire senza accertamenti, al punto che le misure di prevenzione, fondate sulla logica del sospetto, stanno sostituendo il processo penale, sbarazzandosi delle complicazioni prodotte dalle tutele costituzionali. I numeri anche in questo caso sono impressionanti: i beni interessati alle misure di prevenzione sono ad oggi 215.995 dei quali 81.913 sono quelli confiscati (fonte: Banca centrale del ministero della Giustizia). “il volume dei sequestri in Italia risulta cinquanta volte maggiore di quello dei restanti 19 paesi dell’eurozona..[le confische]..addirittura centotrentatré volte”
(A. Barbano su “Il Foglio” del 6\3\23)