martedì 22 marzo 2022

OLTRE LA SUSSUNZIONE FORMALE E REALE

      PRECARIETA' E GENERAL INTELLECT 

- da un saggio di Andrea Fumagalli -

Il rapporto di sfruttamento capitalistico viene descritto da Marx con due forme di sussunzione diverse: “formale” e “reale”, esito dell’evoluzione storica del capitalismo e della metamorfosi continua del rapporto capitale-lavoro. Tali due sussunzioni rimandano a due concetti diversi di plus-valore: assoluto e relativo. Secondo Marx, alla fase della sussunzione formale del lavoro al capitale corrisponde il plusvalore assoluto. Alla sussunzione reale corrisponde invece il plusvalore relativo     


Verso la sussunzione vitale del lavoro al capitale 

La fase storica della sussunzione formale corrisponde a quel periodo di capitalismo pre-industriale che giunge sino alle soglie della rivoluzione industriale e al primo capitalismo artigianale, nei quali lo sfruttamento del lavoro e la sua sottomissione al capitale si attua “sulla base di un processo lavorativo ad esso pre-esistente” . In tale contesto, il plusvalore deriva dall’estensificazione del lavoro tramite, ma non solo, il continuo allungamento dell’orario di lavoro.

Nella fase della sussunzione formale, il sistema di produzione capitalistico ha proceduto nella direzione dell’estensificazione della prestazione lavorativa affinché questa possa essere messa in misura maggiore sotto il controllo del capitale.  A tal fine, si è proceduto in due modi: prolungamento della giornata lavorativa sino al massimo limite consentito dalla necessità di garantire comunque la riproduzione della forza-lavoro e salarizzazione della quantità maggiore di lavoro possibile, in presenza delle caratteristiche produttive e delle modalità di organizzazione del lavoro storicamente possibili. Il termine salarizzazione non è altro che l’altra faccia del concetto di lavoro produttivo. Proprio perché – non dimentichiamolo – il lavoro capitalistico diviene merce forza-lavoro formalmente libera e quindi remunerata, il lavoro è produttivo solo quando da esso si estrae plus-valore . Estendere il lavoro produttivo tramite la sua salarizzazione monetaria è quindi complementare al prolungamento della giornata lavorativa. Questi due aspetti della sussunzione formale del lavoro al capitale costituiscono il punto di approdo della fase iniziale del capitalismo, punto di arrivo del processo di accumulazione originaria o primitiva .

Con il passaggio alla sussunzione reale, il processo di sfruttamento e di estrazione del plus-valore passa dalla fase dell’estensificazione a quella dell’intensificazione del processo lavorativo. In questo nuovo passaggio (dalla ”cooperazione semplice”, alla “manifattura”, sino al sistema “fabbrica”), l’operaio diventa così del tutto servo della macchina, riducendosi egli stesso a macchina che agisce senza dover pensare. E in questo ultima trasformazione che si attua il passaggio alla sussunzione reale del lavoro al capitale. L’estrazione di plusvalore (ora relativo) è così determinata dall’incremento dell’intensificazione dei ritmi, dettati dalla velocità della macchina. Tale intensificazione (che gli economisti chiamano “produttività del lavoro”) è finalizzata ad abbreviare il tempo di lavoro socialmente richiesto per la produzione di una merce, così da consentire che a parità di tempo di lavoro il volume dell’output risulti maggiore.

In altre parole, la sussunzione del lavoratore al capitale diventa reale quando avviene all’interno del processo di produzione e non più soltanto dall’esterno. Essa viene dettata dalla tecnologia e dal carattere ormai esterno al lavoratore collettivo della massa dei saperi che struttura la divisione del lavoro e permette il coordinamento della cooperazione produttiva. La costrizione al lavoro salariato non è più solo di natura monetaria, ma anche tecnologica, endogeneizzata dal progresso tecnico. In tal modo, la forza lavoro individuale del produttore, ridotta sempre più a semplice appendice viva del sistema delle macchine, “non è più di per sé di alcuna utilità quando non venga venduta al capitale” .

Il passaggio dalla sussunzione formale a quella reale modifica il rapporto tra forza-lavoro e macchine, ovvero tra lavoro vivo e morto, ovvero tra capitale costante e capitale variabile. Possiamo descrivere questo processo anche come una metamorfosi del rapporto tra sapere e lavoro.

Nella sussunzione formale, l’artigiano trasformato in operaio di mestiere salarizzato mantiene comunque il controllo, seppur parziale, della sua capacità lavorativa (know how). Ciò che gli viene alienato è il valore d’uso ma non la sua professionalità. Il capitale si valorizza così ex post. Nella sussunzione reale – che arriva al suo massimo livello con lo sviluppo dell’organizzazione tayloristica del lavoro portando all’estremo la parcellizzazione del lavoro e l’automazione della produzione – il sapere e la capacità lavorativa vengono totalmente espropriate dal capitale e inglobate nel capitale costante. Si assiste così al passaggio del sapere dal lavoro vivo al lavoro morto (delle macchine).  Il capitale tende ora a autovalorizzarsi, ma non ad autonomizzarsi. E’ sulla base di questo passaggio che si sviluppano le principali dicotomie che irrigidiscono il sistema di produzione tayloristico: in primo luogo quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e quella tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro. Da tali dicotomie si dipanano altre dicotomie, quali quella tra produzione e riproduzione/consumo, ovvero tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo (che assume, socialmente, le forme di  una divisione di genere), la cui separazione sta alla base del processo di accumulazione tayloristica sino a innervare anche la struttura sociale in modo disciplinare e, per l’appunto, rigido. La divisione del lavoro che ne deriva innerva la divisione sociale e le modalità dei processi di istruzione.

Con la dizione capitalismo bio-cognitivo si intende la produzione di ricchezza tramite la conoscenza e la relazione, più o meno cooperativa o gerarchica, grazie  all’utilizzo di quelle facoltà della prestazione lavorativa che sono definite dall’attività cognitiva e sensoriale (lavoro cognitivo-relazionale).

Essendo il cervello (come il processo di accumulazione della conoscenza) per definizione individuale, anzi elemento di definizione stessa della singola identità tramite le facoltà del linguaggio e della memoria, il lavoro cognitivo-relazionale è per sua natura poco omogeneizzabile, in quanto bioeconomico, vale a dire dipendente dalla biologia individuale. Proprio per la sua natura individuale, il lavoro cognitivo necessità di una elevata attività relazionale, come strumento per la trasmissione e la decodificazione della propria attività cerebrale e dei saperi accumulati: capacità cognitive e attività di relazione sono due facce della stessa medaglia, inscindibili una dall’altra, che stanno alla base del general intellect, ovvero intellettualità diffusa, già preconizzato da Marx nei Grundrisse. Il general intellect diventa così la nuova fonte principale di (plus)valore e perché diventi produttivo ha bisogno dunque di “spazio”, di sviluppare una rete di relazioni, altrimenti, se resta incorporato nella singola persona, diventa fine a se stesso, magari processo di valorizzazione individuale (valore d’uso) ma non valore di scambio per l’accumulazione della ricchezza, cioè “merce”. Il capitalismo bio-cognitivo è per forza reticolare, cioè è non lineare, e le gerarchie che sviluppa sono interne ai singoli nodi e tra i diversi nodi della rete, sono gerarchie complesse e spesso legate a fattori controllo sociale dello spazio all’interno del quale si sviluppa.

Infine, al ruolo della conoscenza e della relazione occorre aggiungere il crescente peso  assunto dalla (ri)produzione sociale. Ma su questo punto, non entriamo in dettagli (rimandiamo agli scritti di Cristina Morini), anche se oggi tale aspetto è forse quello che risulta più preponderante e più oggetto di valorizzazione.

Ed è proprio considerando anche la (ri)produzione sociale che entriamo così in una nuova fase della sussunzione del lavoro al capitale, dove allo stesso tempo sussunzione formale e sussunzione reale tendono a fondersi e a alimentarsi a vicenda con il risultare di trasfigurare completamente le due forme originarie di sussunzione.

Parliamo di sussunzione formale del lavoro al capitale nel momento in cui la prestazione lavorativa fa riferimento alla capacità relazionale e ai processi di apprendimento che il singolo lavoratore detiene sulla base della sua esperienza di vita, vale a dire maturati in un periodo precedente al momento del loro utilizzo ai fini della produzione di valore di scambio. L’apprendimento e la relazione nascono come valori d’uso alla fonte e, come gli utensili e le competenze manuali degli artigiani del primo periodo capitalista, vengono poi “salarizzati”, obtorto collo , e formalmente sussunti nella produzione di valore di scambio.

Il processo di valorizzazione avviene infatti sfruttando le capacità di apprendimento, di relazione, e di (ri)produzione degli esseri umani che si formano a monte prima dell’utilizzo diretto in produzione. Si tratta a tutti gli effetti di una sorta di accumulazione originaria in grado di mettere al lavoro e a valore quelle attività che nel paradigma fordista-taylorista erano improduttive. La sussunzione formale nel bio-capitalismo ha quindi come effetto l’allargamento della base di accumulazione, mettendo a lavoro l’attività di formazione, di cura, di riproduzione, di consumo, di relazione sociale e di tempo libero. Cambia il concetto di lavoro: la distinzione tra lavoro direttamente produttivo (labor), lavoro artistico e culturale (opus), attività di svago (otium) e di gioco (leisure) viene meno e tende a confluire in tempo di lavoro direttamente e indirettamente produttivo.

Parallelamente, nel capitalismo bio-cognitivo la sussunzione reale si modifica, rispetto al taylorismo, in seguito al passaggio dalle tecnologie meccaniche-ripetitive a quelle linguistico-relazionali. Dalle tecnologie statiche che aumentano la produttività e l’intensità della prestazione lavorativa tramite lo sfruttamento delle economie di scala di dimensione si passa a tecnologie dinamiche come quelle di apprendimento e di rete in grado di coniugare simultaneamente attività manuali e attività cerebro-relazionali, favorendo una nuova organizzazione più flessibile del lavoro, nella quale la fase di progettazione e la fase di esecuzione non sono più perfettamente scindibili ma sempre più interdipendenti e complementari.

Nel capitalismo bio-cognitivo, sussunzione reale e sussunzione formale sono due facce della stessa medaglia e si alimentano a vicenda. Esse, congiuntamente, danno vita ad una nuova forma di sussunzione, che possiamo definire vitale. Tale nuova forma dell’accumulazione capitalistica moderna evidenzia alcuni aspetti che sono alla base della crisi del capitalismo industriale. Si tratta di analizzare le nuove fonti della ricchezza (e dei rendimenti crescenti) nel capitalismo bio-cognitivo. Tali fonti derivano dalla crisi del modello di divisione tecnica e sociale generato dalla prima rivoluzione industriale e portato alle estreme conseguenze dal taylorismo e vengono alimentati dal  ruolo e dalla diffusione del sapere che obbedisce “ad una razionalità sociale cooperativa che sfugge alla concezione restrittiva del capitale umano” . Ne consegue che viene messo in discussione il tempo di lavoro immediato come principale e unico tempo produttivo con l’effetto che il tempo effettivo e certificato di lavoro non è più l’unica misura della produttività e l’unica garanzia di accesso al reddito. Si attua così una torsione nella tradizionale teoria del valore-lavoro verso una nuova teoria del valore, in cui il concetto di lavoro è sempre più caratterizzato dal “sapere” e si permea con il tempo di vita. Possiamo chiamare questo passaggio come la transizione verso una teoria del valore-sapere  o teoria del valore-vita , se sapere e vita tendono ad autoalimentarsi a vicenda e dove il principale capitale fisso è l’uomo “nel cui cervello risiede il sapere accumulato dalla società” .   

Quando la vita diventa forza-lavoro, il tempo di lavoro non è più misurabile in unità di misura standard (ore, giorni). La giornata lavorativa non ha più limiti, se non quelli naturali. Siamo in presenza di sussunzione formale e di estrazione di plus-valore assoluto. Quando la vita diventa forza-lavoro perché il cervello diventa macchina, ovvero “capitale fisso e capitale variabile allo stesso tempo”, l’intensificazione della prestazione lavorativa raggiunge il suo massimo: siamo così in presenza di sussunzione reale e estrazione di plus-valore relativo.

Tale combinazione delle due forme di sussunzione – che definiamo sussunzione vitale – necessita un nuovo sistema di regolazione sociale e di governance politica. Ed è qui entra in gioco, seppur ancora a livello embrionale, il Job Act.


Lo sfruttamento della sussunzione vitale: le finalità socio-economiche del Job Act

Una delle forme di controllo del mercato del lavoro è, oggi, rappresentato dalla governance dei comportamenti individuali tramite il “debito”, non più solo concetto contabile ed economico, ma dispositivo indirettamente disciplinare (e quindi di controllo sociale)  della psicologia individuale, sino a sviluppare sensi di colpa e di auto-controllo.

Un secondo processo di controllo sociale è rappresentato dalla condizione strutturale, esistenziale e generalizzata di precarietà. La condizione precaria oggi è sinonimo di incertezza, instabilità, nomadismo, ricatto e subalternità, psicologica e non, dai mezzi di sopravvivenza. E’ condizione di dipendenza che non si manifesta nel momento stesso in cui si definisce formalmente un rapporto di lavoro ma ne sta a monte e a valle. E’ questo l’obiettivo principale del Job Act. E’ condizione esistenziale totale che impone forme di auto-controllo e di auto-repressione  con risultati ancor più forti del disciplinamento diretto della fabbrica. La condizione precaria indica un’antropologia e una psicologia comportamentale che è tanto più forte quanto più il lavoro diventa cognitivo e relazionale .

Debito, da un lato, precarietà, dall’altro, sono così le due architravi principali che consentono all’attuale sussunzione vitale del bio-capitalismo cognitivo di operare.

Al fine di indurre comportamenti soggettivi in linea con il processo di sfruttamento della vita che sottostà alla sussunzione vitale è necessario, tuttavia, che vengano introdotti altri dispositivi di controllo, finalizzati alla governance delle soggettività degli individui. Qui si innesta la terza tendenza del controllo sociale, che si muove su un doppio binario: il controllo dei processi di formazione del sapere  e la creazione di immaginari individualistici ad hoc. Nel momento stesso in cui il sapere, il general intellect, diventa strategico, come base del processo di accumulazione e valorizzazione bio-capitalistica, è necessario controllarlo ma anche indirizzarlo. Tale processo può avvenire lungo due direttive fra loro complementari, finalizzate all’amministrazione delle “cose” (la prima) e al governo delle “persone”  (la seconda). Da un lato, si assiste allo sviluppo di una governance della tecnica (techne) come dispositivo di formazione che spoglia costantemente qualsiasi elemento di analisi critica e di filosofia sociale. La specializzazione tecnica crea così “ignoranza”, nel senso etimologico del termine, ovvero “non conoscenza”.  Dall’altro, a ciò si aggiunge il dispositivo del merito e del premio selettivo  individuale, mantra oramai assodato nei processi di riforma delle istituzioni formative (dall’asilo all’università), in grado di trasformare le diverse individualità messe a lavoro e a valore in soggettività individualistiche, perennemente in lotta fra loro e quindi auto-annullantesi.

Si tratta di due fattori che oggi mediaticamente, non a caso, sono prepotentemente emersi: il merito e il riconoscimento. Sono le leve di una nuova forma di dicotomia e divisione che innerva in modo subdolo il nuovo mercato del lavoro, creando le basi perché si estenda e si rafforzi la trappola della precarietà come strumento di governance e di sussunzione vitale al capitale.

A prescindere dall’attività svolta e dal contesto produttivo di riferimento, oggi il mondo del lavoro si divide tra “chi vale” e “chi non vale” (merito) e tra “chi ha successo” e “chi non ha successo” (riconoscimento). Il tutto all’interno di un processo solipsistico (e colpevolizzante) di individualizzazione della condizione lavorativa pur all’interno di un processo di cooperazione sociale. Ed è proprio tale cooperazione sociale che sempre più diventa la fonte principale dell’estrazione di un plusvalore che non viene distribuito ma semplicemente espropriato, manipolato, sotto forma di rendita.

Il capitale tende quindi ad autonomizzarsi, all’interno di un processo di auto-creazione di valore senza che necessariamente si passi attraverso la salarizzazione, ma sempre attraverso la gratuità . Questo è, in ultima istanza, l’ambizioso obiettivo (che difficilmente potrà essere raggiunto) del Job Act. Ed è su questi assi, per il momento, che il Job Act ha imposto la sua legge. Ma sino a quando?


tratto da "IL JOBS ACT O LA SUSSUNZIONE VITALE DEL LAVORO AL CAPITALE" (SudComune)