venerdì 31 dicembre 2021

IL COMUNE A CIELO APERTO

- Ninni Cirrincione -    Considerazioni sul  

 Buen Vivir della Vale do Capao - 

C’è in Brasile un luogo abitato da giovani con lunghi capelli rasta, magliette colorate, pantaloni alla zuava, chitarre in spalla. Fanno venire alla mente Scott Mc Kenzie quando cantava "If you’re going to San Francisco"; ma anche "Easy Rider", i cortei studenteschi, i pullmini wolkswagen e tanti simboli della pace       

 

Questo luogo è Capao nella regione della Chapada Diamantina, stato di Bahia. Attorno si apre la Vale do Capau. Ci vive mio figlio che non vedevo da due anni a causa del covid. Tuttavia le immagini anni ’60 non si sovrappongono perfettamente alla realtà del luogo. Questi giovani, fra i 20 e i 40 anni, sono ormai la parte prevalente della popolazione della valle, più dei nativi. Hanno lasciato il nord e il sud dell’America, e l’ Europa, in cerca della  naturalezza dei luoghi e delle persone. Perché qui la gente è tranquilla, ti sorride, ti saluta a ogni ora del giorno, anche se non ti conosce.

La Vila è il centro della Vale do Capao. Grande quanto una piazza delle nostre città, ha al centro un gazebo di cemento in cui stanno un centinaio di persone che conversano, si fanno festa, fanno musica con i tamburi, ballano e qualche volta danzano la capoeira. Si vedono i neonati aggrappati al seno delle madri -perché qui non esiste l’allattamento artificiale- e i bambini più grandi che girano a grappoli come parte di un’ unica famiglia, correndo fra le bancarelle di pietre lavorate, bracciali, spille, cuoio, incensi, tenute aperte dai loro genitori.  Ma  solo la domenica, giornata della feira alla quale tutti vogliono essere presenti.

A un quarto d’ora dalla Vila c’è un tendone da circo dove gli artisti di strada fanno spettacoli di acrobazia, giocoleria  e di clown. Qui ho conosciuto Bianca, una ragazza palermitana laureata in psicologia che dopo aver abbandonato l’Italia con un difficile allenamento si è messa a fare l’acrobata. Di storie come quella di Bianca ce ne sono molte. Giovani che hanno lasciato una laurea o un diploma per vivere accanto la natura e gli animali; che abitano case piccole ed essenziali; che hanno dimenticato abbigliamenti da vetrina, preferendo spesso camminare a piedi nudi.

Con la Vila finiscono anche le strade pavimentate. iù avanti solo terra battuta, fangosa se piove, secca e polverosa sotto il sole. Strade che prendono la forma di buche, avvallamenti, canali scavati dall’acqua piovana. Le piogge sono tante e abbondanti. Allora il mezzo di trasporto più facile da usare è una motocicletta, leggera tipo cross. Quando c’è un dosso o un avvallamento la regola è “accelera e non fermarti” solo così puoi tenere in piedi la moto senza cadere; i piedi, a destra e a sinistra, fanno il resto. 

Tutt’a torno per una decina di chilometri le case hanno un pezzo di bosco a giro. Ma fino a quando non ci sei davanti, quello che vedi è solo bosco con alti eucalipti. Il paesaggio è stupefacente. Verde a perdita d’occhio; corsi  d’acqua e cascate fra cui la Cachoeira Fumaçia, la più alta di tutto il Brasile. Molte delle come sono luoghi di meditazione e di osservazione degli astri.  Fra tutte, la cima del Morroso è la più maestosa. Si erge a fungo sulla valle e lascia incantati con i suoi fianchi alti e a precipizio.

Nella campagna ci vivono piccoli gruppi familiari, alcuni facenti parte di comunità buddiste o religiose. Un ragazzo nordamericano mi dice di fare meditazione rivolto al sole al tramonto e di immergendosi nell’acqua color ambra di un ruscello. L’acqua fortemente ferrosa, qui, pensano che dia energia come energia danno i sassi di quarzo che affiorano dal terreno. 

E'  mentre penso a tutto questo che ho deciso di chiamarla “comune a cielo aperto”: “comune” perché le persone qui hanno modi di pensare e stili di vita simili - sono colorati, portano bracciali e collanine, usano vecchi pullmini volkswagen ed hanno dappertutto simboli della pace;  “a cielo aperto” perché non ci sono confini, non ci sono regole per entrare nel gruppo ma se si pensa di vivere con quello stile di vita, semplicemente si allarga la “comune”.

Poi mi prende la solita domanda: ma sono di sinistra o no?

Bel problema. Loro si autodefiniscono semplicemente “alternativi”. Ma alternativi a ché e  perché? Perché  camminano a piedi nudi, perché hanno rasta, o per come abbracciano e sorridono agli altri? Però mi ci vuole poco ad accorgermi che nessuno di loro si circonda di tecnologie, segue mode dell’abbigliamento, riempie le case di elettrodomestici. 

Certo non è la battaglia finale per sconfiggere una vita borghese.

Mentre mi trovavo là leggevo “I dieci giorni che sconvolsero il mondo” di John Reed e poi una nota sugli intellettuali organici secondo Antonio Gramsci. E questo mi convinceva di più che a non voler essere borghese è un percorso tutto in salita. 

Ma una cosa è certa: qui il consumismo non arriva perché non interessa a nessuno. Ed è un gran bel vedere che non ci sono vetrine abbuffate di specchietti e lucette per tanta tecnologia e telefoni cellulari e l’ultimo profumo di Armani. Quando insegnavo, a inizio di ogni anno facevo vedere un cartone animato: “la storia delle cose” che efficacemente spiega perché il consumismo entra nelle nostre viscere e i danni che fa ad ognuno di noi ed al pianeta (se non l’avete visto utilizzerete bene 20 minuti della vostra vita a farlo ora).

E così il cerchio si chiude. Di "destra" o di "sinistra"? Non è questa la domanda. Di sicuro, mi rispondo che, se c’è un posto, anche piccolo, dove la gente non si preoccupa di cambiare ogni anno il cellulare, il PC, le scarpe alla moda, l’arredamento di casa… a me sta bene così. Anche se gli abitanti di questo posto non dicono di essere comunisti, non sanno parlare di neoliberismo o di imperialismo, e via discorrendo. Loro forse sono più vicini a Greta, anche se non scenderanno in piazza.

Avevo già detto, appena arrivato, che da loro  il pensiero politico non circola,… forse. Se domandi di Bolsonaro o di Lula, non sperare di intavolare discussioni.

È questa la vera differenza con quei movimenti hippie e alternativi di cui inconsapevolmente  sono  eredi. Fra chitarre e spinelli, girava allora la cultura antimilitarista e alternativa degli anni ‘60 e ’70. Ora – sono certo  nessuno di loro ne sa parlare, anche se sulle chitarre disegnano cerchi col simbolo di pace.

Potrebbero finire anche qui le mie considerazioni sulle persone e i luoghi che ho conosciuto a CapaoPerò, a ritroso, le mie riflessioni hanno una  prospettiva più ampia: sugli abitanti della Valle, sulla loro filosofia di vita, che sicuramente ha un filo conduttore con gli anni ’60 e la protesta pacifista contro la guerra in Vietnam, e sul fatto che sono pochi a parlarne; perché qui il tuo modo di vivere lo conduci e basta, senza farci conferenze addosso. 

E certamente perché avevo il tempo libero del vacanziero e perché avevo la curiosità di capire - e anche perché volevo provare il nuovo strumento di scrittura che mi hanno regalato -  ho fatto 4 o 5 brevi interviste filmate durante una domenica di feira. Domandavo se il genere di vita condiviso praticamente da tutti soddisfa o se si sente il desiderio di altro ancora. Le risposte sono state univoche. Quelle e quelli con cui ho parlato, venuti dal Brasile o dall’Argentina, o dalla Francia, si trovano qui per la natura, per la semplicità della vita, per l’armonia del paesaggio, per il senso di fraternità che si respira. «Non c’è niente che ci manca. Quello che abbiamo è già quello che chiediamo».

Molti passano il tempo in meditazione, a sentire l’aura dell’acqua ferrosa e del quarzo che qui affiora nelle rocce. Altri sono così presi dal bosco che li circonda, che stanno anche settimane senza uscire di casa. E poi c’è una comunità al cui interno si trova una rocca impennata che dicono sia una montagna sacra. Figuriamoci se si allontanano da lì per andare a bere una birra alla Vila. Io comunque non sono entrato in queste dimore.

Più facile è stato diventare amico di un argentino che  fabbrica incensi che qui vanno a ruba.

Altri lavorano il legno con la passione e l’attenzione di chi tocca una creatura vivente; altri ancora coltivano la terra e allevano animali ricevendone contentezza ed energia. Alcuni dicono di arrivare qui per “vedere” come si vive…” e quasi sempre restano.

Il denaro che circola è quello essenziale e spesso gli scambi si fanno con il baratto.

Essenziali sono anche le case: piccole e senza intonaci con pavimenti in cemento o pietre, in  nessuna delle quali ho visto mai una televisione o una radio o un giradischi: la musica proviene, caso mai da un cellulare o da un tablet.

I bambini giocano con bambole di stoffa, macchinine sgangherate, e nessun mostro dei cartoni animati giapponesi. Se non bastasse, il resto sembra una parodia del nostro american way of life imperante nell’occidente civilizzato. Tutto qui è più piccolo, più esile, più microscopico: poco ferro, poco metallo cromato e tanta plastica, ma sottile che si può rompere solo a toccarla. Questo ha a che fare, è vero, con l’industria brasiliana, ma qui nessuno se ne lamenta.

Io che Cuba ce l’ho nella mente, nel cuore e nell’anima, ogni volta che la rivedo, noto il desiderio di emulazione crescente soprattutto negli adolescenti per tutto ciò che è occidentale e soprattutto made in U.S. Certo, è l’effetto di Tele Martì, la TV statunitense che trasmette dalla Florida diffondendo il virus del consumismo[1]. Cuba ha ancora la capacità di sbarrare il passo al gigante neocapitalista e i cubani hanno la capacità di avvertirne il lezzo. Ma devo ammettere che molti giovani, quelle chimere le vogliono, e le cercano. Qui nessuna freccia della pubblicità centrerebbe il cuore di questa gente. Ma, alla fine, mi dico che è pur vero che riunire assieme tanti virtuosi su una popolazione di 3000 persone circa, quante ne fa la valle, è più facile che misurarsi con un intero popolo.

E comunque, ripeto, questo “anticapitalismo” di base non è un ideologia, piuttosto il risultato di comportamenti spontaneamente condivisi. Di fatto è una comunità anticonsumista, per la difesa del pianeta, per il contatto con la natura, la tranquillità, il paesaggio, la mitezza dei rapporti umani. Ma non è una scuola di pensiero.

Un'altra domanda che mi sono posto, è se c’è un filo che unisce questi giovani con il nostro passato e il nostro presente: siamo come loro o siamo stati come loro?

Io credo di si. E vado indietro nel tempo nel tempo, alla metà degli anni ’60, quelli che preparavano il ’68.

La nostra generazione è stata la prima a non essere nata negli anni della seconda guerra mondiale, mentre i nostri genitori c’erano da bambini o da adolescenti o da soldati, e magari da partigiani. Però ci siamo ritrovati immersi, senza saperlo, nella subcultura della guerra fredda. Io stesso a casa mia trovavo i numeri di Selezione del Reader’s Digest a cui mio padre annualmente si abbonava.

E venne il giorno in cui sentimmo il bisogno di fare un salto avanti, di liberarci dagli stereotipi che cominciavano a pesarci. Volevamo pensare con la nostra testa e stavamo scaldando i motori delle nostre idee e dei nostri sentimenti. Da un lato cercavamo strade nuove che non ci obbligassero a pensare che i comunisti mangiavano i bambini, e che l’aquila americana fosse il simbolo della libertà; ma allo stesso tempo anche l’ U.R.S.S. diveniva ingombrante per i carrarmati in Ungheria -che non potevo ricordare perché avevo due anni- e per quelli in  Cecoslovacchia che ricordavo bene perché avevo 14 anni. io avevo già cominciato a manifestare contro la guerra nel Viet-Nam e a convincermi che gli USA in quella parte del mondo non dovevano proprio starci.

Allora non parlavamo solo di guerre, e così ci accorgevamo che sotto i nostri occhi stava nascendo una controcultura, antagonista a quella ufficiale e tradizionalista tanto cara alla D.C.

In Inghilterra spuntavano i Beatles e i Rolling Stones. Ai loro concerti interveniva spesso duramente la polizia per trattenere orde di ragazzi che avevano solo la colpa di disobbedire ai loro genitori mettendo la minigonna o portando i capelli lunghi. Gli insegnanti e i preti chiudevano il cerchio dell’ ordine da rispettare. E in Italia già si muovevano Don Milani e Danilo Dolci.

E naturalmente anche il mondo dell’arte guardava a questi inizi di rivolta. Oltre la Pop Art, voglio ricordare il Living Theatre che passò pure da Palermo. E poi il Jazz che io però non seguivo. Una sola parola indica tutto questo crogiolo che cuoceva a fuoco lento: creatività.

Creatività che non restava ferma negli ambiti artistici ed intellettuali ma che arrivava fino ai giovani delle scuole. E così circolava “Lettera a una professoressa” e si diffondono capelli lunghi e jeans acquistati nei mercatini di strada.

Quella creatività pervase giovani a migliaia, a centinaia di migliaia –c’eravamo anche noi- quando cominciarono a diventare movimenti e poi organizzazioni e partiti.

I più cominciavano a seguire la politica e il sociale senza perdere quella parte di creatività che chiedeva solo di uscire da dentro di noi. Cominciammo a riunirci nelle case con le chitarre per cantare le canzoni di De André e di Guccini. Altri sceglievano un percorso più intimistico e personalistico partendo per l’India, e non solo. Furono gli anni dei pullmini volkswagen e dell’autostop per girare il mondo.

     Ma la cultura trasgressiva e libertaria si incrociò spesso con quella antisistemica e rivoluzionaria fino a fondersi in alcune organizzazioni politiche come L.C. dal cui cappello a cilindri uscì fuori il Macondo di Mauro Rostagno. Ormai non erano più solo gli hippies a fare paura alla società borghese, ai partiti moderati e cattolici –e anche a buona parte del P.C.I.- ma movimenti di dimensioni mondiali e, naturalmente, ciò faceva paura pure ai governi della Casa Bianca. Il ’68 era ormai esploso incontenibile, lasciandosi accompagnare, come fa una cometa, dalla scia di cultura antagonista e trasgressiva che arrivò pure ai grandi raduni rock.

     E qui fermo le mie riflessioni iniziate per l’inatteso rivedere in giro, a Capao, di tanti simboli, tanti colori, tante collanine e orecchini, magliette e altro che già vedemmo sul finire degli anni ‘60. La stessa sorpresa che ti coglie quando arrivando a L’Havana vedi circolare tante Cadillac e Chevrolet degli anni ’50 con assoluta normalità, come se il tempo si fosse fermato.  

     L’ultimissima riflessione va a quel PALERMO FESTIVAL POP del 1970, tanto avversato e tenuto sotto scacco mentre già andava in onda, e ancor oggi chiuso in una cassaforte del silenzio perché risultò più trasgressivo e antisistemico di quanto si potesse immaginare. Basti dire che la RAI riprese tutto ma non ha trasmesso mai niente. Negli archivi RAI c’è tutto il festival, ma a differenza di Woodstock e di Isle of Wight nessuno ha voluto mai farne un film.

Tutta colpa di un imprevisto nudo integrale del cantante inglese Arthur Brown, arrestato mentre ancora cantava? O dell’improvviso blocco dell’amplificazione quando Franco Trincale intonò “Nixon boia”? No. Penso invece che quello che avvenne dopo sotto il palco fu come un referendum: chi voleva difendere il pudore, la religione, la famiglia, da una parte; e chi voleva decidere da se se un nudo –anche se non richiesto- fosse offensivo senza scomodare tanta ipocrisia, dall’altra. L’azione pericolosa in quel momento era che quel pubblico non era solo composto da studenti e operai, ma da gente di ogni provenienza e che fra quelli che fischiavano la polizia, molti erano delle borgate palermitane, erano famiglie semplici andate lì non per contestare, ma per ascoltare musica nuova che la TV e Radio di Stato non trasmetteva: e di fronte al braccio duro della legge trovarono più giusto mettersi dalla parte di chi voleva cambiare le regole della vita sociale e domani… forse della politica.

    Credo che  possiamo parlarne insieme di queste cose. A partire da questo evento palermitano del 1970 ed alla riscoperta della creatività che, mi pare, avremmo ancora bisogno di recuperare.


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