-Francesco Maria Pezzulli -
All’origine dell’arrendevolezza dei meridionali
Prima la lotta e poi lo sviluppo capitalistico è una sequenza già raccontata, in generale e per svariati contesti particolari, in lavori di straordinaria importanza (marxisti e non) che hanno contribuito al successo teorico metodologico, operaista, che ne sta alla base
Ci sembra comunque utile, in questo numero 1 di sudcomune, ripercorrere gli aspetti centrali della sequenza in questione a proposito dei momenti chiave dello sviluppo meridionale nel secondo dopoguerra; momento nel quale, come ha scritto Carlo Vercellone nel numero 0 «il movimento di occupazione delle terre ha costituito l’epicentro di un’azione collettiva e di forme cooperative di autogoverno della produzione e di accesso alle terre, che ricordano da vicino la logica del comune».
Prima la lotta
«Melissa
e tutte le lotte per l’occupazione delle terre negli anni 49-50 segnano per il
Mezzogiorno la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova».
Questa citazione, tratta dai Quaderni Calabresi, sintetizza ciò che
avvenne in quegli anni: lo sviluppo capitalistico dopo la lotta, detto
altrimenti: la modernizzazione dopo la fine del movimento contadino, decretata
dalla reazione armata della nascente repubblica parlamentare.
Nel 1949, quando a Melissa vennero uccise tre persone e ferite una
ventina, effettivamente la “questione meridionale” era già drammatica, con le
agitazioni dei contadini, ininterrotte dal 1943, che sfociavano sempre più di
frequente nell’occupazione delle terre. Un alleggerimento della tensione ci fu
con i due decreti di Fausto Gullo che favorivano l’appropriazione delle terre e
la loro coltivazione in cooperative da parte dei contadini ancora
irreggimentati nei rapporti sociali del latifondo. Estromesso però il comunista
Gullo da Ministro dell’Agricoltura il primo provvedimento di Antonio Segni –
succedutogli nel secondo governo De Gasperi – fu quello di snaturare
politicamente i decreti del suo predecessore. A questo punto le occupazioni
ripresero con maggiore vigore e la “questione meridionale” divenne tout court la questione
dell’insubordinazione nelle campagne. Per riportare solo alcuni casi
significativi dello stato conflittuale dell’epoca basti pensare che nel periodo
cruciale, dal 1944 al 1949, vennero inflitti ai cittadini di Lavello, che
parteciparono in massa alle occupazioni di terre, oltre mille anni di carcere.
Ancora, a Minervino, nel 1945, dopo numerosi ferimenti, l’arresto di due
contadini e l’uccisione di un altro, il tenente a capo dell’operazione insieme
a venti carabinieri venne trattenuto in ostaggio dalla popolazione per una
ventina di giorni; dopo dei quali le forze dell’ordine furono costrette ad
accettare lo “scambio dei prigionieri”. Verso la fine del ciclo di lotte,
invece, nel 1949, sedici comuni delle province di Catanzaro e Cosenza decisero di
occupare delle terre. Per l’operazione erano attesi dai dirigenti del Partito
Comunista seimila contadini, che si sarebbero diretti verso i latifondi
prestabiliti: all’appuntamento si presentarono in quattordicimila. Nello stesso
anno, al tallone della penisola salentina, in quarantacinque giorni furono
occupati più di mille ettari di terra. Una visione “indimenticabile” di Paolo
Cinanni restituisce l’intensità di quelle giornate:
«Era
ancora notte quel 17 settembre, quando i dirigenti avevano chiamato i lavoratori
e le popolazioni a raccolta, in alcuni paesi al suono delle stesse campane, ma
nei più al suono delle trombe, incamminandosi, ai primi chiarori dell’alba,
verso le terre da occupare. Al sorgere del sole, dai poggi più alti si potevano
scorgere le cento colonne in movimento; man mano che arrivavano sui terreni
prescelti, esse issavano le bandiere sui pennoni più alti e iniziavano a
“picchettare” e a dividere le terre; ciascuno incominciava poi ad arare la
propria quota, non appena gli veniva “assegnata” dal “comitato”. Sulla parte
pianeggiante e sui colli intorno era ovunque un brulicar di gente che andava e
veniva, che misurava e piantava picchetti, che arava con l’asinello o zappava
in fila con gli altri familiari: una visione straordinaria, indimenticabile!»
(1)
All’apice delle lotte contadine, come accennato, l’intervento statale aumentò
il livello repressivo e poliziesco e Mario Scelba comandò ai prefetti di
intervenire duramente con la polizia verso ogni illegalità. Poche settimane
dopo i fatti di Melissa è l’ambasciatore statunitense a Roma, in una riunione
al Dipartimento di Stato americano, a indicare la rotta necessaria da seguire
nel Mezzogiorno:
«Profondamente
convinto come sono che la Riforma Fondiaria è una necessità politica per la sopravvivenza
di un governo democratico in Italia, è per me ovvio ritenerla così necessaria
da un punto di vista politico che essa andrebbe fatta anche se la produzione
rischierà una riduzione temporanea» (2)
Sei mesi dopo queste parole venne varata la Riforma Agraria in Calabria che fu
di lì a poco estesa alle altre regioni meridionali.
Poi lo sviluppo
capitalistico
La Riforma venne salutata come uno di quegli eventi liberatori che
di lì a poco avrebbe eliminato povertà e miseria. Ma le speranze e i desideri
maturati nei processi di lotta dovettero cedere il passo al realismo della
nuova società agricola. Era arrivato infatti il momento, parafrasando un famoso
discorso di De Gasperi «di trasformare il contadino in proprietario là dove non
è tale».
Questa trasformazione negli anni ’50, con l’espulsione dalle
campagne continua e massiccia, è possibile e incarna la strada democristiana
per lo sviluppo meridionale di quegli anni (3). Nei fatti, con l’eccessivo
spezzettamento dei terreni imposto dalle leggi di riforma, questa non elimina
tra i contadini – emancipati per decreto a legittimi proprietari – sofferenze e
rabbia, ora vissute sempre più frequentemente come preoccupazioni individuali e
senza rimedio alcuno. È finita l’epoca delle lotte, comincia adesso per loro
l’epoca della fuga. La Riforma Agraria promise la terra ai contadini e gliela
concesse quando questa era divenuta capitalistica, inutile come un tempo a
soddisfare i bisogni più elementari. Le “assegnazioni” furono spesso molto
ristrette e di fatto favorirono i trasferimenti. La trasformazione invocata da
De Gasperi era avvenuta: il contadino era divenuto proprietario, ma pochi di
loro divennero anche capitalisti. Riprendono pertanto i flussi migratori,
centomila l’anno, fino al 1957, pochi se confrontati con i numeri del decennio
seguente, calmierati dagli investimenti della Cassa del Mezzogiorno nelle
infrastrutture e nelle bonifiche agricole, in alcuni anni pari al 90% degli
investimenti totali dell’intervento straordinario. Negli anni ’70 si registra
un cambiamento sia nelle dimensioni che nei percorsi migratori, alle rotte
transoceaniche sono sempre più preferite quelle europee e dell’industria
nazionale che, in pieno boom economico, necessita di quote crescenti di forza
lavoro operaia ed ha nel Sud il suo esercito di riserva. Tra l’Europa e il Nord
la differenza è sostanziale, la Svizzera, il Belgio, la Francia e la Germania
sono vissute come momentanee, circoscritte alla necessità di guadagno da poter
utilizzare una volta rientrati. Partire per Torino, Milano, Genova, o in altra
città industriale, è invece un fatto definitivo. Non si pensa a un rientro,
tantomeno immediato; il contesto di partenza è criticato aspramente e molto
spesso percepito come nemico e lontano, mentre il nuovo ruolo operaio,
nonostante lo sfruttamento in fabbrica (contro il quale gli operai meridionali
lottarono vigorosamente), è vissuto come fonte di aperture sociali, di
protagonismo politico e di identificazione collettiva:
«Sono
uscito fuori e c’erano lì tanti operai e studenti davanti. C’erano davanti al
cancello tutti i compagni che parlavano della lotta. C’erano lì i compagni che
dicevano che avevo fatto bene a menare i guardioni. Che quel giorno era stata
una grossa lotta e una grossa soddisfazione. E abbiamo fatto la riunione poi e
tutte queste cose qua. Sono venuti in massa gli operai nel bar tanti che non ci
si entrava. E lì ho conosciuto anche Emilio e Adriano tutti questi compagni
qua. Eravamo tanti quella sera che si decise poi di fare le assemblee
all’università. E quello fu l’inizio delle grandi lotte alla Fiat. Che era
stato il 29 maggio quel giorno giovedì» (4)
Nel ventennio in considerazione hanno lasciato il Mezzogiorno per il Centro
Nord all’incirca quattro milioni e mezzo di persone. Tra il 1960 e il 1962,
poco prima dell’arresto del “boom”, si arriva a 300 mila partenze annue e i
saldi migratori negativi del periodo superano 2,5 milioni di partenze. Sfollate
le campagne, il processo d’accumulazione capitalistica investì in pieno il
Mezzogiorno: gli indici della produzione agricola, sempre più meccanizzata,
crebbero considerevolmente, di pari passo con il rivoluzionamento delle
tecniche produttive e dei rapporti sociali tradizionali; mentre la grande
proprietà latifondista cessa di esistere, colpita dagli espropri della Riforma
Fondiaria (5). Nel frattempo 530 nuovi stabilimenti industriali vengono
costruiti dal 1951 al 1958, quasi tutti nei settori manifatturieri. Gli operai,
nello stesso periodo aumentano di quasi 200.000 unità e i salari medi annui
passano da 280.000 a 384.000 lire. E siamo solo al principio,
l’industrializzazione vera e propria deve infatti ancora venire: ai primi anni
’60 sono presenti 580 diversi finanziamenti pubblici per l’industria
meridionale (pochi anni prima superavano di poco i 150) per un investimento
totale di 138 miliardi di lire (pochi anni prima erano appena 30 miliardi). Con
questi finanziamenti vennero costruiti altri 1.200 impianti ed ampliati oltre
1.000 stabilimenti. In questo decennio, in poche parole: l’agricoltura si è
industrializzata, le campagne sono state sfollate e le opere infrastrutturali e
industriali – per mano pubblica – iniziano ad abbondare (6). Il Mezzogiorno
tradizionale è ormai un ricordo, che il procedere dell’urbanizzazione (le città
già contengono più della metà degli abitanti del Sud) rende sempre più sbiadito
rispetto alla nuova configurazione del Mezzogiorno cittadino (7). In questo
periodo, lo sviluppo capitalistico ha così configurato la nuova formazione
socioeconomica e culturale meridionale, irriconoscibile se confrontata con
quella uscita dalla seconda guerra mondiale, fondata su un nuovo rapporto
sociale che, per istituirsi, ha dovuto prima d’ogni altra cosa – secondo le
ricette modernizzatrici di allora – sconfiggere le lotte per il comune dei contadini
facendoli emigrare, disperdendoli in ogni parte del mondo.
… e poi il piano dello
Stato
«Alla
Cassa non può essere disconosciuto il compito di assistere la formazione e
l’evoluzione dei poli di sviluppo agricoli, industriali e turistici, nei diversi
aspetti organizzativi e funzionali, ad essa devoluti proprio dal legislatore
che le imponeva di intervenire per complessi organici» (8)
Chissà cosa intendeva Gabriele Pescatore, allora Presidente della Cassa del
Mezzogiorno, «per complessi organici». Di organico, negli anni ’60, da un punto
di vista economico, pare proprio non ci sia nulla; mentre comincia a essere
chiara, nel secondo tempo dell’intervento, una sua certa razionalità politica.
Trasformate le condizioni della produzione e riproduzione sociale negli anni
’50, infatti, nel decennio seguente si trattò di gestire i problemi sociali e
politici complessivi che la trasformazione aveva imposto. L’intervento
straordinario a questo punto, particolarmente duttile nel combinare la
stabilità istituzionale con la pace sociale, venne subordinato agli interessi
di mediazione politica del principale partito di governo, cosicché divenne
sempre più ampia la forbice tra gli obiettivi dichiarati e quelli realmente
perseguiti. Non è certo un caso, come ricordava Augusto Graziani, che i poli di
sviluppo effettivi furono tre o quattro mentre sotto il profilo amministrativo,
tra aree e nuclei, ne sorsero almeno un centinaio (9). Con gli anni ’70, in
effetti, la sovradeterminazione politica del Piano di sviluppo fu progressiva e
man mano divenne totale (10); al punto che, nel 1983, a livello politico
istituzionale si prende atto dell’insostenibilità della direzione assunta e
viene deciso di terminare l’esperienza della “Cassa” (11).
Tra il primo e il secondo intervento straordinario, in altre
parole, si è consumata quella che gli scienziati sociali hanno definito “la
grande trasformazione” del Mezzogiorno, che ha avuto la Democrazia Cristiana
come attore supremo, attore che è riuscito – grazie al rapporto diretto con le
casse dello stato – a governare il Sud instaurando un sistema di clientele
orizzontali perfezionatesi man mano nel corso dei decenni. Quando si dice che
la Democrazia Cristiana è stata un partito popolare e interclassista è senza
dubbio vero anche per il Mezzogiorno, e lo strumento adottato per diventare
tale fu quello del clientelismo più becero, che ha scambiato diritti con
favori, che ha corrotto intere generazioni di meridionali “rimasti”, costretti
a vendere lo status di cittadini per acquisire quello di sudditi.
Nel periodo descritto, da un certo momento in poi, non c’è più
spazio per il notabile d’un tempo, una figura tutta interna alla società
meridionale, una sua espressione locale, che assegnava lavoro in cambio di
voti, fedeltà e ubbidienza secondo i medioevali criteri del rispetto e della
protezione. I Mediatori democristiani,
come ha efficacemente spiegato, tra gli altri, Gabriella Gribaudi, sono stati
invece dentro e fuori contemporaneamente, un anello di congiunzione utile sia
al centro che alla periferia. Sono statti uno strato sociale che ha tratto
profitto e potere personale mediando tra due entità separate come le società
locali e lo stato. I broker democristiani hanno orientato i flussi di economia
pubblica, e anche favorito la penetrazione del mercato nel Mezzogiorno senza
che si creassero squilibri destabilizzanti per la struttura sociale.
«La DC
che ha in questi anni incarnato lo Stato, ha espresso questa funzione mediatori
tra nord e sud, tra centro e società locale. L’intervento economico nel sud
scaturisce da questa doppia mediazione. I contenuti della politica nazionale,
frutto di un’intesa con il nord, la penetrazione ritenuti necessaria degli
elementi culturali e materiali della cosiddetta “civiltà industriale” vengono
mediati dai rappresentanti locali della DC: la loro funzione consiste nella
capacità di trasformare un intervento esterno estraneo alla cultura e al
tessuto economico locale, in un intervento accettabile e compreso dalla
comunità. L’efficacia della DC è consistita nel saper parlare di tecnica e di
sviluppo, offrire consumi e reddito con il linguaggio della comunità,
riferendosi ai valori della società locale» (12).
Da un certo punto di vista sono stati i soggetti principali del piano di
sviluppo, dal momento che hanno accompagnato l’intervento straordinario lungo i
mille tracciati dei trasferimenti pubblici. Sono stati soggetti economici e
politici a un tempo, hanno reso possibile, praticamente, lo scambio politico
clientelare che ha addomesticato la società meridionale per un trentennio circa
e che continua ancora oggi, mutatis
mutandis, a pesare come un incubo nella vita e nella mente dei
meridionali.
NOTE
(1) P. Cinanni, Terre
pubbliche e Mezzogiorno, Feltrinelli, Milano 1977. Cit. pag. 46.
(2) James Dunn, riunione al Dipartimento di Stato del
23/11/1949, cit. in E. Bernardi, La
Riforma Agraria in Italia e gli Stati Uniti, Il Mulino, Bologna
2005
(3) La Democrazia Cristiana fu la migliore interprete della
Riforma Agraria. Il Partito Comunista, invece, adottò una “strategia di larghe
alleanze” per gli obiettivi di Riforma che si rivelò disastrosa. Nonostante le
«riserve di combattività tra i contadini che non conoscevamo», come disse lo
stesso Togliatti, si privilegiò un «movimento per la riforma» che riuniva in sé
operai, braccianti, artigiani, contadini, piccola borghesia, professionisti,
eccetera; insomma, «tutta la popolazione», come ribadito assiduamente dai
“Comitati” costituiti dal Partito nel 1947. L’opzione gramsciana di alleare i
contadini poveri del Mezzogiorno e gli operai del Nord già all’epoca era
lettera morta, troppo distante e contraddittoria per la «via italiana al
socialismo».
(4) N. Balestrini, Vogliamo
tutto, Arnoldo Mondadori, Milano 2013. Cit. pag. 93-94. Sui
processi migratori come veicolo di lotta, vedi L. Ferrari Bravo – A.
Serafini, Stato e
sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano, Feltrinelli,
Milano 1971.
(5) In generale, nel decennio 1950 – 1960, quasi un milione di
ettari vennero suddivisi dai vari enti di riforma. Si stipularono 285 mila
passaggi di proprietà e si assegnarono circa 400 mila ettari di terre a
contadini poveri. Nello stesso periodo la Produzione Lorda Vendibile passò da
un valore di 614.682 (=100 nel ’50) ad uno di 1.122.000 (=182,5 nel ’59).
Mentre l’investimento pubblico nell’agricoltura meridionale fu mediamente il
64% dell’investimento agricolo pubblico totale, con la punta massima dell’83%
nel 1954.
(6) I dati sono tratti dal lavoro del capo del servizio
industria, artigianato, pesca, turismo ed edilizia scolastica della “Cassa”: M.
Besusso, Analisi e
prospettive dello sviluppo industriale nel Mezzogiorno, in Cassa per il Mezzogiorno. Dodici anni
(1950 – 1962), Volume V, Laterza, Bari 1962.
(7) Napoli, come area metropolitana insieme ai centri minori del
salernitano e del casertano, nei primi anni ’70 conta oltre 3,5 milioni (il 20%
della popolazione totale meridionale). Nello stesso anno Palermo raggiunge 700
mila abitanti, mentre Bari e Catania superano abbondantemente i 300 mila, e
cosi via per numerosi centri. L’approccio del Mezzogiorno cittadino è ben
rappresentato dai lavori di Francesco Compagna. Vedi, in particolare, La Politica della Città,
Laterza, Bari 1967 e Urbanizzazione
Nord e Sud, in G. Germani, a cura di, Urbanizzazione e modernizzazione,
Il Mulino, Bologna 1975.
(8) G. Pescatore, Origine
e caratteri dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno,
in Cassa per il
Mezzogiorno. Dodici anni (1950 – 1962), Volume I, Laterza, Bari
1962.
(9) Augusto Graziani, I
conti senza l’oste. Quindici anni di economia italiana, Bollati
Boringhieri, Torino 1990. Cit. pag. 161.
(10) Un riferimento indirettamente legato
alla sovradeterminazione politica del Piano di sviluppo è dato da una serie di
indicatori socioeconomici, tra i quali: tra il 1970 ed il 1989 l’occupazione
totale meridionale cresce di 900 mila unità, i due terzi delle quali sono nella
pubblica amministrazione; nella prima metà degli anni ’80 i contributi ai
settori produttivi meridionali sono circa la metà rispetto al quinquennio
precedente; la spesa per “incentivi” alle imprese è stata di 1.000 miliardi di
lire inferiore a quella del decennio precedente; il Prodotto lordo per abitante
cresce della metà rispetto a quello dei consumi privati per abitante.
(11) Con la legge 64 del 1986 le risorse
finanziarie vengono delegate ad una “Agenzia per la promozione e lo sviluppo
del Mezzogiorno” e ha inizio il secondo intervento straordinario, che non ha
fatto meglio del primo sul versante della programmazione dello sviluppo, ha
fatto solo meno avendo a disposizione minori risorse economiche.
(12) G. Gribaudi, Mediatori. Antropologia del potere
democristiano nel Mezzogiorno, Rosemberg& Sellier, Torino 1980.
Cit. pag. 22.