mercoledì 14 ottobre 2020

LIBERTÀ E REPRESSIONE

 -Antonio Minaldi-

   PRAGMATISMO E UTOPIA

MANIPOLAZIONE E CONTROLLO SOCIALE


La mancanza di una prospettiva globale limita aspettative e speranze dentro un orizzonte già dato, ma chi dal fallimento del socialismo reale non vuole rassegnarsi al capitalismo e alle sue libertà “monche”, da dove deve ricominciare?    

1.    

libertà tra pragmatismo e utopia

La pandemia di coronavirus ha riaperto in tutto il mondo il  dibattito su l’antichissima, e mai risolta, questione di che cosa sia la libertà, e in che modo gli uomini hanno diritto di goderne all’interno delle relazioni sociali e delle relazioni di potere. D’altra parte, da sempre, e a prescindere da ciò che si intenda concretamente per libertà, la possibilità stessa della sua esistenza è stata messa in discussione proprio in tutte quelle contingenze storiche caratterizzate da situazioni di emergenza e di eccezionalità. Si sa, ad esempio, come lo stesso termine “dittatura”, che è comunemente considerato come l’esatto opposto della libertà, nasca dalla nota istituzione romana, che veniva attivata solo in caso di grave pericolo per la sopravvivenza dello Stato, sospendendo tutti i meccanismi istituzionali per dare i pieni poteri ad un solo uomo. Ancora nel secolo passato a partire dai regimi fascista e nazista la nascita delle peggiori esperienze dittatoriali appare sempre correlata a situazioni eccezionali di estrema incertezza sociale come, per l’appunto, quelle createsi in Europa a seguito del primo conflitto mondiale.

Ciò che oggi appare più sorprendente è il fatto che le piazze mobilitate in nome della libertà perduta, siano state spesso monopolizzate da forze di destra, se non dichiaratamente neo-fasciste. La conseguenza (ma forse anche la causa) di tale paradosso è stata spessoun inneggiare ad una libertà intesa come puro arbitrio dell’agire rivendicato come puro diritto in sé, e dunque del tutto avulso da qualunque confronto o giustificazione discorsiva che non fosse il puro negazionismo o l’esaltazione del diritto alla protesta in quanto tale.

Bisogna, a questo punto, riprendere le fila del discorso. Il concetto di libertà, entro il quale si argomentano i discorsi del senso comune, quello per cui generalmente anche ci si batte e si avanzano rivendicazioni, è storicamente quello sancito dalle garanzie dello Stato di diritto e formalizzato in senso giuridico dalle “libertà” costituzionalizzate. La sua storia è antica. Le sue formule risalgono al XVIII° secolo, alle dichiarazioni delle rivoluzioni francese e americana, ma la sua origine è ancora più lontana e affonda le sue radici nella autonomia del soggetto libero come condizione essenziale allo sviluppo della modernità borghese e capitalista.

Libero  è, per definizione, il soggetto che agisce nel mercato secondo una logica individualista, egoistica e possessiva dell’uno contro tutti. Un “atomo sociale” che si presuppone libero in quanto capace di scelte razionali, volte a massimizzare i propri interessi e il proprio “successo” nell’agone della società di mercato, intesa come un grande campo di battaglia, in cui la sola logica che presiede le relazioni socialiè quella di tipo contrattuale, fondata sull’incontro casuale degli interessi e che, per ciò stesso, deve vincere ogni resistenza e subordinare a sé ogni altra possibile forma di socialità (parentale, affettiva, amicale, comunitaria, solidaristica).

Va da sé che il modello dello “individuo competitivo”, per potere essere realmente fondamento del funzionamento del sistema, deve avere un’altra caratteristica essenziale: gli attori del gioco devono essere caratterizzati da una diseguaglianza di partenza che non può e non deve essere soppressa. Nel capitalismo industriale, per esempio, alla libertà di scelta del capitalista su come investire il proprio denaro corrisponde la libertà di scelta, in realtà solo apparente, del lavoratore su come e dove vendere la propria forza lavoro. (Si noti, di sfuggita, come tale libertà di scelta del “proletario” è stata talmente enfatizzata da alcuni economisti, da considerare la disoccupazione come una condizione volontaria).

La logica di questa libertà “assoggettata” diventa compiuto paradigma teorico, probabilmente, nell’opera degli economisti  marginalisti. L’essere sociale è di fatto ridotto all’homo oeconomicus. Un atomo sociale, responsabile, nella sua solitudine, di essere imprenditore di se stesso. La sua condizione di partenza, come abbiamo già detto, non conta. La sua origine è misteriosa e non indagabile, quasi “metafisica”, e non socialmente e storicamente determinata. Che si sia ricco o povero, maschio o femmina, bianco o nero, ciò che si è va portato come il fardello di un ineludibile destino e fatto valere al meglio in quel campo di battaglia che è la vita. La competizione nella logica di mercato è tutto, e non può esservi pietà per i vinti!

Le libertà così come oggi le conosciamo, così come sono scritte nelle nostre Costituzioni, come le viviamo e per il posto che occupano nel nostro immaginario, sono il prodotto di un processo storico dai due volti, tra loro paradossalmente dissonanti. Per un verso esse sono figlie di un lungo processo di liberazione, spesso animato da grandi idealità rivoluzionarie, che ha il merito di avere infranto i vincoli gerarchici di subordinazione personale su cui si basava la società feudale, e con lei tutte le società di tipo tradizionale. L’affermazione del principio di uguaglianza di fronte alla legge e di uguale godimento delle libertà fondamentali è divenuto ormai irreversibile, almeno nella considerazione delle moltitudini del mondo occidentale. Il che significa che, malgrado si tratti di valori il cui riconoscimento giuridico spesso si scontra con la realtà di fatto, esse restano punto di riferimento ideale e irrinunciabile per qualunque percorso di libertà o di liberazione.

Per altro verso però, il fatto che le moderne “libertà”  hanno a fondamento della loro origine, e sono per così dire ontogeneticamente forgiate,  sui caratteri del mercato capitalista e sullo sviluppo delle sue vicende storiche, fa si che dette libertà portino impresso il marchio di un loro doppio peccato originario:  “L’individualismo competitivo”  e la condizione di “diseguaglianza sociale” dell’individuo nella società borghese. Per questo , io credo giustamente, sono considerate “formali”. Esse in fondo si limitano a fissare le regole del gioco; delimitano cioè il campo di battaglia entro il quale si svolge la competizione.

Ci si può chiedere a questo punto se gli attuali standard di libertà fissati in genere nella normativa costituzionale dei paesi cosiddetti liberal-democratici, rappresentino dei valori oltre i quali non si può, o non si è capaci, di andare, oppure se è possibile avere aspettative e speranze di futuro che vadano oltre la logica individualista e ristretta della società a comando di capitale.

In effetti le lotte sociali e i movimenti di liberazione pongono costantemente esigenze e bisogni che sono proiettati oltre l’esistente, e che hanno pure ottenuto parziali conquiste, o quanto meno portato all’attenzione generale nuove problematiche. Pensiamo in particolare ai diritti sociali (scuola, sanità, ecc.), anche detti diritti di seconda generazione, entrati a far parte della normativa costituzionale di molti Stati a partire dal secondo dopoguerra, ma poi largamente disattesi a partire dagli anni 70 con la crisi del compromesso keynesiano e con l’affermarsi del neo-liberismo. Oppure pensiamo al dibattito intorno ai diritti solidaristi o di terza generazione (lotte ambientaliste, per la qualità della vita ecc.) che aldilà di ipocriti riconoscimenti, sono fortemente osteggiati praticamente da tutti i governi del pianeta.

Credo che tutti i movimenti e tutte le ipotesi che cercano di coniugare il tema delle libertà con quello dell’uguaglianza sociale e della solidarietà si trovino oggi a scontare il completo fallimento di tutte le ipotesi rivoluzionarie, socialiste e comuniste, che avevano nutrito le speranze e l’immaginario di intere generazioni nel secolo passato. La mancanza di una prospettiva globale limita aspettative e speranze dentro un orizzonte già dato.

D’altra parte va sottolineato come sia proprio sul tema della libertà che il socialismo reale e il comunismo storico sono clamorosamente scivolati. I diritti di libertà, tacciati come borghesi e come solo “formali”, sono stati sempre sottovalutati (anche Marx non vi dedica grande attenzione) ed infine soppressi nel momento della presa del potere. Non si è capito che essi non andavano cancellati, ma caso mai andavano “superati”. Intendiamo qui nel senso hegeliano di superare, che sta per “andare oltre” e al tempo stesso “realizzare” e “inverare”. In altre parole, se il limite delle libertà “storiche” era quello di essere fondate su logiche individualistiche, una società che si pretende ugualitaria e solidaristica, avrebbe dovuto, in teoria, riscattarle e realizzarle nella loro pienezza.  Ma forse, proprio credendo che questo realizzarsi della libertà fosse qualcosa di automatico, si è pensato che l’uguaglianza sociale era la sola cosa per cui occorreva battersi, e che la libertà ne seguisse come una sorta di attributo naturale. Errore gravissimo che tra l’altro  ha portato ad una sorta di ugualitarismo piatto, senza alcuna ricchezza né pluralismo, con una continua umiliazione delle singolarità, trasformando così un sogno di liberazione in orribili dittature.

Ma chi dal fallimento del socialismo reale non vuole rassegnarsi al capitalismo e alle sue libertà “monche”, da dove deve ricominciare?

Credo innanzitutto che le libertà non vadano solo rivendicate, ma che vadano soprattutto praticate. Praticare le libertà con la “mente” e con il “corpo”. Essere presenti e sodali in ogni luogo ed occasione in cui si esprime l’antagonismo sociale, la voglia di libertà e di liberazione, la resistenza sia attiva che passiva, essere contro e “praticare il rifiuto” nei confronti di ogni forma di sfruttamento e di assoggettamento, essere dentro le cose così come sono con le loro grandezze e con le loro miserie. Ma al tempo stesso essere oltre,  pensare aldilà del pensabile, rivalutare il meglio della “ideologia” e ritornare ai grandi valori ideali della nostra storia, riscoprire  la responsabilità verso di sé come responsabilità verso “l’altro”.

Se posso esprimere tutto questo con un apparente ossimoro concettuale, della nostra pratica di libertà, (che è insieme militanza politica, dimensione esistenziale e complesso di relazioni social) oserei dire che essa deve essere fondata su un atteggiamento che costantemente cerca di coniugare un estremo PRAGMATISMO con una forte propensione alla UTOPIA.

Piedi per terra e sguardo che cerca lontano.

 


2.

repressione e controllo sociale

In genere quando si affronta il tema della libertà, in relazione alla sua effettiva possibilità d’esercizio da parte dei cittadini e delle moltitudini, per esempio in un singolo paese o in determinate situazioni concrete come possono essere le situazioni emergenziali, più o meno vere o presunte, ciò che si prende in considerazione sono due aspetti, tra loro in relazione.

Da una parte vi è la condizione minima perché un discorso sulle libertà concretamente esercitabili, ed esercitate, possa essere preso in considerazione. Ci riferiamo al fatto che, nella condizione data di un singolo Stato, le garanzie di libertà della persona umana, la sovranità della legge, e in genere i principi legati allo Stato di diritto debbano essere quanto meno formalmente garantiti dalla normativa costituzionale. Se questa condizione non fosse data ci troveremmo semplicemente di fronte ad una dittatura.

Tuttavia anche negli Stati democratici, o liberal democratici, la libertà reale o fattuale, quella cioè realmente esigibile e praticabile da singolarità e moltitudini, non dipende soltanto da norme di carattere generale, ma anche, e nel concreto soprattutto, dai modi di esercizio del potere da parte dei governi, dalle loro decisioni e iniziative, da quanto i parlamenti sono capaci di vigilare, da quanto è realmente autonoma la magistratura.

Ogni idea di libertà deve infine fare sempre i conti con il potere decisionale, rispetto al quale ogni norma di garanzia può avere soltanto un  valore, per altro fondamentale, di controllo e regolamentazione, e quindi di limitazione, ma non può mai inibire la sostanziale discrezionalità nell’esercizio del potere.

Naturalmente, in questo rapporto mai risolto tra “norma” e “decisione”, un ruolo assolutamente fondamentale nella concreta difesa sostanziale e nella massimizzazione delle libertà, viene svolto dalle soggettività, spesso antagoniste e conflittuali, che si esprimono nella cosiddetta società civile, sotto forma di comportamenti singolari e collettivi, circolazione d’idee, ma soprattutto movimenti di lotta di liberazione o anche solo rivendicativi.

C’è tuttavia un altro aspetto che profondamente condiziona l’esercizio delle libertà e che non è legato al dato, per così dire evenemenziale  o puntuale, della decisione o dell’agire consapevole che si esprime nei comandi del sovrano, o anche nelle forme sociali del rifiuto.

Ci riferiamo al fatto che ogni formazione sociale, e dunque anche quella a comando di capitale che qui ci interessa, si fonda su un insieme di relazioni sociali e di potere, che Marx avrebbe definito con i termini di “struttura” e “sovrastruttura”, e che si riferiscono a modi e forme della prestazione di lavoro, della produzione e distribuzione della ricchezza, dei rapporti gerarchici ecc. ecc. e che profondamente condizionano l’esistenza di ciascuno di noi in tutti i suoi aspetti compreso l’immaginario personale e collettivo. In breve: la società è fatta in un certo modo e noi siamo, volenti o nolenti, i suoi figli.

Questo insieme di strutture e di relazioni, legate alla società capitalista, producono una serie di meccanismi di condizionamento e di assoggettamento che, pur essendo in realtà in relazione anche con una somma di scelte di potere, agiscono spesso (e apparentemente) in modo anonimo, “strutturale” e meccanico, e comunque a prescindere dalla immediatezza della decisione politica. Questi meccanismi sociali limitano la nostra libertà spesso senza reprimerla direttamente ma condizionandola per così dire “a monte”, costituendola nel nostro immaginario in modo “monco” e limitato.

Sulle forme del controllo già Foucault ci ha lasciato pagine indimenticabili incentrate sui meccanismi della società “disciplinare”, e su come sia funzionale al dominio capitalista la definizione e realizzazione di luoghi di detenzione finalizzati all’assoggettamento e al controllo dei corpi. Carceri e manicomi i luoghi più evidenti. Ma forse la vera dimensione sociale generalizzata del corpo assoggettato e disciplinato è quella che si afferma nella catena di montaggio della fabbrica fordista.

Oggi il modello capitalista è andato oltre. Non più solo il tempo lavoro è assoggettato al comando e alla estrazione del valore, ma l’intera dimensione del tempo vita viene sussunta alle esigenze dell’appropriazione capitalista. Anche le forme di assoggettamento si sono evolute di conseguenza: non più soltanto l’imprigionamento dei corpi entro luoghi di reclusione, ma anche modi di controllo sociale che si producono in forme ubique e deterritorializzate, e il cui scopo prioritario è il controllo della mante, attraverso il condizionamento del nostro stesso intimo sentire.

Si potrebbe pensare a questo punto ad un passaggio dalle forme del “controllo disciplinare” a quelle della “società del controllo”. Ma su questo punto occorre essere estremamente chiari. Sono fermamente convinto della capacità del capitalismo di accumulare non solo denaro ma anche forme di potere e di comando. Disciplina e controllo sociale , pur sviluppando le proprie forme in momenti diversi, si compenetrano oggi perfettamente per forgiare il perfetto individuo assoggettato al mercato (almeno così è nelle intenzioni del comando e a prescindere dal prodursi di una coscienza antagonista).

La finalità di ogni forma di controllo dei corpi e di condizionamento delle coscienze è dunque quella di riprodurre il modello dello homo oeconomicus, e cioè dell’individuo la cui libertà consiste nell’affermazione di sé contro tutti, nello homo homini lupus dello “stato di natura” della competitività di mercato.

Ma quali sono in concreto e su cosa si fondano i nuovi meccanismi del controllo sociale?

la precarietà esistenziale

Un dato comune delle logiche del controllo sociale è quello di produrre condizioni di precarietà esistenziale. Basta, a questo proposito, fare un raffronto molto semplice tra la condizione del lavoratore medio, o se volete il cittadino medio, dell’epoca fordista e post fordista con quello della società neo liberista affermatasi a partire dagli anni ottanta. La vecchia aspirazione alla stabilità del rapporto lavorativo è stata sempre più messa in crisi e spesso cancellata, anche solo come speranza: disoccupazione, sottoccupazione, lavoro precario sono sempre più condizioni strutturali. A ciò si aggiunge il progressivo smantellamento dello stato sociale attraverso processi di privatizzazione dei tre pilastri su cui si fondava il compromesso keynesiano: scuola, sanità e previdenza sociale. Il venire meno delle condizioni della sicurezza sociale e l’acuirsi della precarietà tendono a generare nell’individuo sociale, a cui è stata inculcata l’idea che ciascuno è libero imprenditore di se stesso e artefice del proprio destino, un senso di colpa nei confronti della propria persona: “Non ce lo fatta”, “Non ho saputo usare al meglio le mie risorse”.

l’uomo indebitato

 Il punto d’arrivo delle dinamiche della precarietà è la condizione di quello che è stato chiamato “l’uomo indebitato”. Il debito, ed anzi “l’economia del debito”, è oggi la vera “arma di distruzione di massa”, con la quale il dominio della finanza globale tiene sotto scacco Stati, comunità, moltitudini e singoli individui. La logica che si afferma a tutti i livelli è quella dell’usuraio. Scopo del debito non è quello di essere ripagato, ma di essere inestinguibile ed agire in perpetuo come arma di ricatto. Basta guardare alcuni numeri (riferiti all’anno 2019, tratti da più fonti ed espressi in dollari, con un livello minimo di approssimazione): il debito pubblico degli Stati dell’intero pianeta a quella data ammontava a circa 85.000 miliardi più o meno la stessa cifra del PIL globale, in un rapporto uguale al 100%.. Ma se al debito pubblico sommiamo il debito privato ( delle famiglie e delle imprese) tocchiamo i 253.000 miliardi, in un rapporto col PIL che sale a più del 300%. Il che significa che il debito globale è più del triplo della ricchezza che si produce nel mondo in un anno.(Si tenga inoltre conto che con la pandemia da coronavirus i numeri sicuramente peggioreranno).

Una immagine abbastanza semplice e realistica dell’uomo indebitato è quella del giovane americano medio di ultima generazione. Indebitatosi per andare al college e poi nuovamente indebitatosi per sposarsi e comprare casa, tra i venti e i trent’anni entra nel mercato del lavoro con la prospettiva di lavorare una vita solo per pagare i propri debiti.

Se la condizione di precarietà genera il senso di colpa nei confronti di se stessi, il debito produce il senso di colpa nei confronti degli altri e dell’intera società, alla quale si immagina di dovere restituire quello che si è ricevuto.

manipolazione delle coscienze

Tutte le pratiche di controllo sociale tendono infine alla manipolazione delle coscienze.

Deleuze a questo proposito ci da un indizio distinguendo le pratiche disciplinari in cui gli uomini sono ridotti a “numeri”, dalle logiche del controllo  in cui siamo considerati delle “cifre”. L’interpretazione che ne do io è che Il numero indica la serialità, vale a dire l’occupare un posto preciso, in sé indifferente e che non ci qualifica nella nostra specificità, ed entro il quale restiamo prigionieri. L’immagine di riferimento è sempre quella della catena di montaggio della fabbrica fordista.

Ma cosa dobbiamo intendere per cifra? Ricordiamo che il termine viene dal latino medievale ed è un calco dell’arabo “sifr”, a sua volta originato, tramite l’indù, dal sanscrito “sunya”. Il suo significato è “zero”. Essere ridotti a cifra penso significhi che non abbiamo più un posto preciso entro lo scacchiere dello sfruttamento. Siamo parti mutevoli e volatili, senza luogo né tempo, semplici elementi neutri nella composizione di dati, campioni, indagini di mercato, classificazioni di algoritmi, entro i quali la nostra vita, ridotta all’indifferenza, cioè per l’appunto alla “cifra” in quanto “zero”,  diventa strumento di estrazione di valore produzione di potere.

Ma perché tutto ciò sia possibile è necessaria la fattiva e inconsapevole collaborazione della nostra coscienza manipolata di uomini precarizzati ed indebitati. I nostri desideri, le nostre preferenze, le aspettative e le speranze, la nostra specifica propensione al consumo e le nostre scelte di vita per essere messe in valore devono muoversi “in piena libertà”, ma sempre entro i confini prestabiliti della riproduzione dell’esistente e delle sue precise gerarchie sociali. In fondo gli uomini per essere dominati devono accettare in ogni modo di essere “fluttuanti”, e cioé subordinati ed omologhi alle “fluttuazioni” del dominio del denaro-capitale, che con la fine degli accordi di Bretton Woods si è liberato da ogni vincolo e da ogni misura, aprendo l’era neo liberista della preminenza della finanza globale.

Sottrarsi alle forme del controllo sociale è percorso  lungo e difficile e implica evidentemente la costruzione di processi e luoghi alternativi di liberazione entro i quali produrre altri immaginari. Non si tratta di scelte o di ricerche individuali o di solo stampo teorico o analitico, quanto piuttosto di vivere nella sua pienezza ogni momento collettivo e “comune” improntato alla logica del rifiuto antagonista dell’esistente. Vivere dentro le cose, le contraddizioni e le lotte e sapere allo stesso tempo guardare oltre per produrre conflitti costruttivi nell’ottica dell’alleanza dei molti, uniti nella diversità che si oppone al comando.