“Fine della Belle Époque”
pensare un sociale ricomposto
Non per sacrificarne la pluralità interna, ma al contrario per valorizzarne e assumerne le variegate istanze contro un assetto non più in grado di rispondere, culturalmente prima ancora che politicamente, alle sue molteplici domande
Ricomporre, organizzare, aggregare, non significa solamente rompere la dispersione e l’isolamento, ma produrre orizzonti di senso condivisi e, con essi, nuovi strumenti per la critica
Quelle di Stiftung o di Institution, a cui molti degli autori dei saggi contenuti in questo volume fanno riferimento, sono categorie che tentano di nominare insieme durata e cambiamento, permanenza del senso e mutamento. Esse cercano di definire quella sorta di struttura, quel legame tra i fattori di un contesto dato, quell’orizzonte simbolico che dona agli elementi stessi la continuità e la resistenza di significanti condivisi.
La categoria di istituzione è apparsa allora come una via per pensare al di là delle difficoltà in cui la teoria sembra essere presa. Di fronte all’impossibilità di leggere la relazione sociale, sciolta nella proliferazione di microfisiche, corpi e voci irrelati, davanti all’impossibilità di considerare l’azione al di fuori della categoria dell’evento, essa indica la possibilità di concepire insieme la differenza e il rapporto, il conflitto e l’ordine. Non però come due polarità distinte di un unico insieme, ma nei termini della continua correlazione, del vicendevole scambio.
In questa semantica, il soggetto non si definisce nel contrasto o nella distanza dall’alterità, ma per la modalità del suo legame con essa; le identità non sussistono in quanto elementi puri, ma come relazione. Allo stesso modo, l’identità collettiva non si definisce come tale ma per l’intreccio che le è sotteso. È questo il tratto caratteristico dell’istituente e ciò che lo distingue dal costituente. L’istituzione traccia così, anzitutto, una via per pensare la politica e il sociale al di là di ogni dualismo, che esso prenda il nome del potere costituente contro il costituito, della politica contro la polizia o della democrazia contro lo Stato. Essa appare capace di nominare quel surplus di senso che avvolge ogni azione, collega da sempre ogni evento alla scena in cui esso accade, fa dell’avvenimento il rivolgimento puntuale che contribuisce a trasformare il quadro. Essa riesce insomma a donare un significato inedito, ulteriore, alla categoria del «politico», al di là di ogni sua supposta autonomia dal o nel sociale. Affermare, infatti, che l’evento sia già portatore di senso, non significa sostenere che esso sia di per sé politico. Vuol dire piuttosto constatare l’inseparabilità di empiria e teoria, l’impossibilità di uscire dall’interpretazione.
Da questo punto di vista, l’istituzione indica anzitutto un processo, che da sempre lega insieme la soggettività e la totalità in cui si inserisce, l’azione e il progetto. Da qui, ad esempio, l’attenzione per il verbo piuttosto che per il sostantivo, per l’istituire, piuttosto che per l’istituzione. Non si dà, allora, un conflitto estraneo e contrario all’ordine, ma piuttosto un conflitto come relazione a e proiezione di un ordine. Un ordine che non si costituisce se non in forma oppositiva, nel contrasto. Istituente sarà dunque quel movimento che, nel momento stesso in cui si esprime, riarticola le parti, ridefinisce la relazione e, di conseguenza, ridisegna i contorni della totalità. Un conflitto, insomma, che crea ordine, e ordini nuovi, nuovi significanti, inediti legami e opposizioni. Ecco allora che istituzione indica al contempo ciò che frena l’azione, che la definisce, la incardina, ne determina limiti e contorni di senso, permettendo infine un giudizio su di essa. Non solo movimento, dunque, ma anche fissazione.
Nel momento stesso in cui perde la sua singolarità e la sua contingenza, quando smette di essere colto come pura effervescenza scaturita da un piano immanente e viene pensato come articolazione, opposizione continua, il conflitto diviene giudicabile. Fuori dalla semantica dell’evento esso non è più buono o malvagio in sé, ma assume dei contorni, una fisionomia. Al contrario della proliferazione indistinta delle differenze, insomma, le istituzioni non sono tutte uguali, non sono continua emanazione di un unico principio, del desiderio, dell’espressione della cruda volontà di non-oppressione. Non si tratta, ovviamente, di ripensare un fondamento. Né è il caso di rimettere in campo un’idea di sistematica chiusa. Opzione, come già affermato, oramai superata. La totalità a cui si riferisce l’istituzione deve piuttosto essere pensata come infondata.
estratto ripreso dall’anticipazione
dell’introduzione al secondo numero dell’Almanacco di Filosofia e
Politica, Quodlibet, 2020, pubblicato su OperavivaMagazine