mercoledì 4 marzo 2020

«ATELIERS DELLA PRODUZIONE»



  capitalismo delle piattaforme   

  e della sorveglianza  



  è il sistema di dominio che ha preso forma, facendo leva   proprio sulla retorica della libera circolazione delle informazioni 



    " Sono Facebook, Google, Amazon, Apple coloro che mettono  insieme velleità libertarie e voglia di profitto all’interno di un  modello  di business fondato sulla gratuità dell’accesso a servizi,  software e informazioni ” (B.Vecchi)



In una recente intervista a Shoshana Zuboff  apparsa su il manifesto – autrice dell’importante e discusso Il capitalismo della sorveglianza (Luiss University Press), recensito anche su Pulp Libri  [Roberto De RobertisFabio Malagnini] –, Vecchi parlava delle piattaforme come “fabbriche computazionali dove agisce un flusso ininterrotto di dati acquisiti dalle imprese attraverso il controllo di quanto accade in Rete”, aggiungendo che il tutto è orientato a “ridurre la vita a merce” trasformando “la natura umana in un atelier della produzione senza confini”.
Ecco, Benedetto Vecchi sottolineava la centralità degli “ateliers della produzione”, dove “il capitalismo delle piattaforme” si cala per incontrarne i produttori, quella “folla” di lavoratori precari: bikers e “turchi meccanici”, makers e sviluppatori di app con un enorme bagaglio di competenze formali (titoli di studio) o informali (pratiche hacker), facchini, magazzinieri e ingegneri superspecializzati, “operai del data entry” a braccetto ideale con gli operai tout court (che non sono scomparsi!), lavoratori autoctoni/nativi e lavoratori migranti, tutti in perenne movimento. E come un fantasma, ecco aleggiare l’“imprenditore di se stesso”, vera figura prototipica del capitalismo delle piattaforme: “animale sociale dotato di capitale intellettuale e sociale che usa per massimizzare il proprio reddito monetario e status sociale”.
Sono soggettività stregate dalla retorica delle possibilità (auto)imprenditoriali offerte dalla Rete: sirena incantatrice che indica la stella polare del successo individuale, che si raggiunge lungo una strada lastricata di autosfruttamento e valorizzazione delle proprie competenze personali. Soggettività alternativamente conformiste e conservatrici o anticonformiste che attraversano le metropoli segmentate dalla crescita ciclopica della logistica che riscrive mappe e territori, gerarchie e poteri nella corsa forsennata alla distribuzione delle merci (e dei servizi).
In un contesto così frammentario e frastagliato, Vecchi ammonisce però che non basta scendere negli ateliers della produzione per generare conflitto: serve piuttosto un serrato confronto con il “politico” e cioè con la Crisi della democrazia rappresentativa e la riduzione del governo ad “amministrazione” (aziendalistica). E l’ambivalenza radicale e irrisolvibile tra pulsioni libertarie originarie della Rete e il suo essere stata messa sotto controllo si rispecchia nella vicenda paradigmatica del mediattivista australiano Julian Assange, oggi prigioniero in un carcere britannico. A margine del suo arresto nel 2019, Vecchi notava quanto paradossalmente Assange si sia lentamente delegittimato facendosi affiancare da imprese vicine a Putin, mentre “la trasparenza radicale” e “un software che impedisce di leggere i messaggi garantendo l’anonimato” vengono ora assicurati da Facebook, Twitter, Instagram e Whatsapp.
Squadernare e attraversare continuamente queste contraddizioni come attività critica e di sovversione del presente, è certamente uno dei grandi lasciti di Benedetto Vecchi, che se n’è andato nel gennaio del 2020, dopo aver dato alle pagine culturali de il manifesto un’impronta chiara sul versante delle pratiche sociali orientate al conflitto e alla liberazione, non rassegnandosi davvero mai all’idea che la Rete si sia definitivamente trasformata in uno strumento di cattura ed estrazione.
Lascia, infatti, anche un’importantissima eredità sulla comprensione degli statuti della Rete, che sapeva raccontare con una lingua densa e tuttavia chiarissima, addentrandosi nel cuore dei rapporti di produzione contemporanei. Vecchi, “originale cartografo del capitalismo contemporaneo”, come l’ha definito Sandro Mezzadra su il manifesto, ha gettato uno sguardo impietoso sui processi di sfruttamento ma anche sulle fratture e le possibilità di portare conflittualità. Pur avendo smarrito quei tratti di sospettosa fiducia nella possibilità che un uso non convenzionale di codici e algoritmi possa ancora aprire spazi di libertà, come testimoniato dal precedente La Rete dall’utopia al mercato (2015), confidava ancora nei luoghi attraversati da soggettività non addomesticate e da processi di soggettivazione slegati dal “governo”.
estratto dalla recensione di  Roberto Derobertis “Natura umana messa a valore: il capitalismo e la Rete. Su Benedetto Vecchi” Pulp Libri