capitalismo
delle piattaforme
capitalismo delle piattaforme
e della sorveglianza
è il sistema di dominio che ha preso forma, facendo leva proprio sulla retorica della libera circolazione delle informazioni
" Sono
Facebook, Google, Amazon, Apple coloro che mettono insieme velleità libertarie
e voglia di profitto all’interno di un modello di business fondato sulla
gratuità dell’accesso a servizi, software e informazioni ” (B.Vecchi)
In una recente intervista a Shoshana Zuboff apparsa su il manifesto – autrice dell’importante e discusso Il capitalismo della sorveglianza (Luiss University Press), recensito anche su Pulp Libri [Roberto De Robertis; Fabio Malagnini] –, Vecchi parlava delle piattaforme come “fabbriche computazionali dove agisce un flusso ininterrotto di dati acquisiti dalle imprese attraverso il controllo di quanto accade in Rete”, aggiungendo che il tutto è orientato a “ridurre la vita a merce” trasformando “la natura umana in un atelier della produzione senza confini”.
Ecco, Benedetto Vecchi
sottolineava la centralità degli “ateliers della produzione”, dove “il
capitalismo delle piattaforme” si cala per incontrarne i produttori, quella
“folla” di lavoratori precari: bikers e “turchi
meccanici”, makers e sviluppatori di app con un
enorme bagaglio di competenze formali (titoli di studio) o informali (pratiche
hacker), facchini, magazzinieri e ingegneri superspecializzati, “operai del
data entry” a braccetto ideale con gli operai tout court (che non
sono scomparsi!), lavoratori autoctoni/nativi e lavoratori migranti, tutti in
perenne movimento. E come un fantasma, ecco aleggiare l’“imprenditore di se
stesso”, vera figura prototipica del capitalismo delle piattaforme: “animale
sociale dotato di capitale intellettuale e sociale che usa per massimizzare il
proprio reddito monetario e status sociale”.
Sono soggettività stregate dalla
retorica delle possibilità (auto)imprenditoriali offerte dalla Rete: sirena
incantatrice che indica la stella polare del successo individuale, che si
raggiunge lungo una strada lastricata di autosfruttamento e valorizzazione
delle proprie competenze personali. Soggettività alternativamente conformiste e
conservatrici o anticonformiste che attraversano le metropoli segmentate dalla
crescita ciclopica della logistica che riscrive mappe e territori, gerarchie e
poteri nella corsa forsennata alla distribuzione delle merci (e dei servizi).
In un contesto così frammentario
e frastagliato, Vecchi ammonisce però che non basta scendere negli ateliers
della produzione per generare conflitto: serve piuttosto un serrato confronto
con il “politico” e cioè con la Crisi della democrazia rappresentativa e la
riduzione del governo ad “amministrazione” (aziendalistica). E l’ambivalenza
radicale e irrisolvibile tra pulsioni libertarie originarie della Rete e il suo
essere stata messa sotto controllo si rispecchia nella vicenda paradigmatica
del mediattivista australiano Julian Assange, oggi prigioniero in un carcere
britannico. A margine del suo arresto nel 2019, Vecchi notava quanto
paradossalmente Assange si sia lentamente delegittimato facendosi affiancare da
imprese vicine a Putin, mentre “la trasparenza radicale” e “un software che
impedisce di leggere i messaggi garantendo l’anonimato” vengono ora assicurati
da Facebook, Twitter, Instagram e Whatsapp.
Squadernare e attraversare
continuamente queste contraddizioni come attività critica e di sovversione del
presente, è certamente uno dei grandi lasciti di Benedetto Vecchi, che se n’è andato nel gennaio del 2020, dopo aver
dato alle pagine culturali de il manifesto un’impronta
chiara sul versante delle pratiche sociali orientate al conflitto e alla
liberazione, non rassegnandosi davvero mai all’idea che la Rete si sia
definitivamente trasformata in uno strumento di cattura ed estrazione.
Lascia, infatti, anche
un’importantissima eredità sulla comprensione degli statuti della Rete, che
sapeva raccontare con una lingua densa e tuttavia chiarissima, addentrandosi
nel cuore dei rapporti di produzione contemporanei. Vecchi, “originale
cartografo del capitalismo contemporaneo”, come l’ha definito Sandro Mezzadra
su il manifesto, ha gettato uno sguardo
impietoso sui processi di sfruttamento ma anche sulle fratture e le possibilità
di portare conflittualità. Pur avendo smarrito quei tratti di sospettosa
fiducia nella possibilità che un uso non convenzionale di codici e algoritmi
possa ancora aprire spazi di libertà, come testimoniato dal precedente La
Rete dall’utopia al mercato (2015), confidava ancora nei
luoghi attraversati da soggettività non addomesticate e da processi di soggettivazione
slegati dal “governo”.
estratto dalla recensione di Roberto Derobertis
“Natura umana messa a valore: il capitalismo e la Rete. Su Benedetto Vecchi” Pulp
Libri