-Maria Concetta Sala-
I veleni dei nuovi poteri e del capitalismo della sorveglianza nell’epoca del digitale
Nell’ultimo
decennio scrittrici, scrittori, analisti del digitale hanno messo in guardia
sui veleni diffusi dal nostro disinvolto e compiacente uso degli strumenti che
tutte/i – adulti, adolescenti, bambine/i
– abbiamo in mano e nelle nostre case,
ma una possente distrazione continua a non permetterci di osservarne la portata
distruttiva riguardo alla libertà individuale e di cogliere le ricadute sociali
di un sistema rapace e vorace che depreda la nostra esperienza umana
Basterebbe pensare alla serie distopica britannica Black Mirror che mostra gli effetti collaterali della nostra assuefazione alle nuove tecnologie; oppure alla scrittrice argentina Samanta Schweblin e al suo romanzo Kentuki (pupazzetti “innocui” di peluche dotati di webcam in grado di innescare simulacri di relazione); o ancora al volume La Grande G. Come Google domina il mondo dello studioso dei media Siva Vaidhyanathan, all’edizione francese La société de l’exposition del libro del teorico critico Bernard Harcourt, a The Culture of surveillance del sociologo David Lyon...
Che
cosa è accaduto? che cosa ci sta accadendo? Perché noi “utenti” comuni – quasi
metà dei sette miliardi di umani che abitano la Terra – non siamo ancora in
grado di valutare gli esiti nefasti determinati dalla pirateria informatica dei
colossi della Rete (Google, Facebook, Microsoft, Amazon, Twitter...) e dalla
logica dell’accumulazione sottostante ai cosiddetti Big Data – l’enorme
quantità di dati forniti da noi e immagazzinati, gestiti e analizzati
dall’intelligenza artificiale, che non è un’entità astratta, per essere infine
monetizzati e venduti? perché non siamo in grado di cogliere la commistione letale
tra nuove forme di capitalismo estrattivo e svolta repressiva in atto
mascherata in termini di certezza e di sicurezza? come saperne di più e venir
fuori dalla nostra ignoranza? quali strategie adottare per non essere
ciecamente e impunemente espropriate/i?
Leggere
il poderoso volume del 2019 di Shoshana Zuboff, Il capitalismo della
sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri ( trad. it.
di P. Bassotti, Luiss, 2019), può stimolare la nostra attenzione critica,
perché concordo pienamente con Naomi Klein, l’autrice di No logo e Una rivoluzione ci salverà, che la sua lettura costituisce un salutare «atto
di autodifesa digitale». La ricerca dell’accademica statunitense ha
preso l’avvio molti anni fa da una domanda apparentemente semplice : «Possiamo
chiamare casa il futuro digitale?», ovvero possiamo chiamare casa questa civiltà
dell’informazione che si sta imponendo? Casa, chiarisce Shoshana
Zuboff, «non deve per forza coincidere con un singolo posto. Possiamo scegliere
la sua forma e il suo luogo, ma non il suo significato. Casa è dove conosciamo
tutti e tutti ci conoscono, dove amiamo e siamo amati. Casa è possesso, voce,
rapporto e santuario: essere liberi e fiorire... rifugiarsi e progettare». Ma
oggi abbiamo la sensazione di non avere più una casa e questo provoca in noi lo
struggimento di una perdita che ci disorienta.
L’autrice
racconta come un antefatto la storia del progetto Aware Home («la casa
consapevole») ideato e realizzato nel 2000 da alcuni scienziati e ingegneri
informatici del Giorgia Tech con l’obiettivo di mirare a una conoscenza inedita
attraverso lo studio,in una casa che fungeva da«laboratorio vivente», dei dati
forniti dalla «‘collaborazione automatizzata wireless’ tra la piattaforma che
ospitava le informazioni personali ottenute dai computer indossati»dalle/dagli
abitanti e «una seconda piattaforma che ospitava le informazioni ambientali ricavate
dai sensori» inseriti nell’abitazione concepita come un circuito chiuso.– un
esperimento che oggi appare preistorico .
Il tutto con la garanzia che nel rispetto della privacy coloro che nella
casa vivevano e avevano acconsentito alla digitalizzazione della propria vita avrebbero
detenuto in modo esclusivo i dati raccolti. È probabile che da quel progetto
‘visionario’ rispettoso della privacy e dell’inviolabilità della casa e di chi
vi abita – si fa per dire – sia poi scaturito,tramite la domotica,il terremoto
delle smart home realizzate con la volatilizzazione del libero consenso
e della privacy e il cui fatturato dovrebbe raggiungere nel 2023,stando a
Zuboff, ben 151 miliardi di dollari!
cifra da capogiro per noi comuni mortali!
Da
quella domanda semplice e dalla presa d’atto del cambiamento epocale rispetto
ai primordi di internet nacque nella studiosa il desiderio di vederci chiaro in
un progetto commerciale losco. Attraverso
la sua ricerca riesce così a individuare le basi di «una logica in azione», da lei
denominata capitalismo della sorveglianza, che fa dell’esperienza
umana(voci, emozioni, volto, desideri, malessere, benessere, personalità)una
merce di cui i colossi della Rete si appropriano per poi trasformarla in dati sui comportamenti,
da cui ricavano un surplus comportamentale privato che viene sottoposto
tramite l’intelligenza artificiale a trasformazione in prodotti predittivi
messi in vendita o scambiati nel mercato dei comportamenti futuri.
In
qualsiasi mercato valgono le leggi della competizione: dinanzi alla crescita
della domanda da parte delle aziende che hanno bisogno di conoscere i nostri
comportamenti futuri, ciascun capitalista della sorveglianza cerca di arraffare
il maggior numero di dati possibile per accrescere i propri profitti, ma
non c’è limite all’ingordigia! Così il capitalismo della sorveglianza si
evolve: in vista di maggiori profitti non è più sufficiente conoscere
mediante i processi automatizzati i nostri comportamenti, è necessario
modificarli per formarli, basta
attivare tecniche di persuasione sempre più subdole e strumentalizzanti.
«Anziché usare eserciti e armi, [il capitalismo della sorveglianza] impone il
proprio potere tramite l’automazione e un’architettura computazionale sempre
più presente, fatta di dispositivi, oggetti e spazi smart interconnessi».
Difficilissimo
sfuggire a questo mercato, osserva Zuboff, incutendo ansia per il nostro
futuro. È vero, i tentacoli della piovra che si ciba dell’umano in ogni suo
aspetto «si estendono ovunque: l’indottrinamento degli innocenti giocatori di
Pokémon Go; l’atto di mangiare, bere e fare acquisti in ristoranti, bar, fast
food e negozi che pagano per avere una parte nel mercato dei comportamenti
futuri; la spietata espropriazione del surplus dai profili Facebook per
delineare i profili individuali, che si tratti dell’acquisto di una crema per
brufoli alle 17.45 di un qualunque venerdì o di un paio di nuove scarpe di
ginnastica mentre si è presi da una scarica di endorfine dopo una lunga corsa
il sabato mattina; fino alle elezioni della prossima settimana. Come il
capitalismo industriale era spinto dalla continua crescita dei mezzi di
produzione, così il capitalismo della sorveglianza e i suoi operatori di
mercato sono costretti ad accrescere continuamente i mezzi per la modifica dei
comportamenti e il potere strumentalizzante».
Ma
come hanno fatto Google, Facebook e Microsoft a imbastire una simile operazione
di mercato trasformando la connessione digitale in un mezzo per fini
commerciali di un pugno di persone? A Google si deve il lancio di
«un’operazione di mercato senza precedenti nelle zone inesplorate di internet»,
dove gli è stato possibile scorazzare come i primi conquistadores spagnoli
e senza trovare ostacoli né nelle singole e nei singoli né nelle istituzioni.
Anzi, dopo l’11 settembre ha tratto benefici dai contatti con l’apparato di
sicurezza nazionale al quale ha fornito il proprio arsenale teorico e
probabilmente e in parte anche quello materiale. Dopo Google sono approdati ai
nuovi mercati Facebook, Microsoft, e di recente anche Amazon.
E
come abbiamo fatto noi ad accettare di assoggettarci a un patto faustiano che
sta distruggendo il nostro modo di vivere? Shoshana Zuboff sostiene che si
tratta di un assoggettamento dovuto anzitutto all’impossibilità di sottrarci a
tale legame, giacché «internet è diventato essenziale per avere una vita
sociale» (anche se saturo di pubblicità e pur sapendo che «la pubblicità è
subordinata al capitalismo della sorveglianza») e poi al conflitto tra la volontà di resistere
all’invadenza di un simile capitalismo estrattivo e il«bisogno di una vita
efficiente» (non si sa fino a che punto autentico o indotto), un conflitto che produce in noi «un
intontimento psichico che ci rende assuefatti a una realtà nella quale
siamo tracciati, analizzati, sfruttati e modificati». Certo, sembrerebbe
proprio che ci sia preclusa ogni via d’uscita. Non ci resta allora altro che
assistere alla distruzione dell’umano dopo aver assistito alla distruzione della
natura e degli ecosistemi naturali? Oppure c’è un qualche antidoto per combattere i nuovi poteri e un modello di
società strumentalizzata – vale a dire organizzata, irreggimentata e regolata
in vista di una «confluenza sociale, nella quale la pressione del gruppo e la
certezza computazionale sostituiscono politica e democrazia, annullando la
percezione del reale e la funzione sociale delle vite degli individui»?
Ha
ragione Zuboff a descrivere il capitalismo della sorveglianza come una presa
del potere dall’alto in vista non del rovesciamento dello Stato ma della
sottrazione all’individuo della sovranità sulla propria vita e a credere che il
cambiamento stia nelle nostre mani; è sacrosanto dire che bisogna conoscere e
dare un nome a questo qualcosa che non ha precedenti e poi mobilitarsi «in
nuove forme di cooperazione: è necessario uno scontro che rimetta al centro
dell’informazione il bene dell’umanità. Se il futuro digitale sarà casa nostra,
allora spetta a noi renderlo abitabile». Ma come si fa a uscire da un mondo che
con sagacia e accuratezza ci viene descritto senza uscita?
Ma
ha avuto ragione il compianto Benedetto Vecchi a obiettare nel corso di
un’intervista a Zuboff (La merce umana dell’economia in Rete, «il
manifesto», 4 ottobre 2019) che «il modello di business della Rete, ridurre la
vita a merce, trasforma però la natura umana in un atelier della produzione
senza confini. Lavoro scarso ma vita che diventa produzione. Una
contraddizione...». Leggiamo la risposta dell’autrice: «Il capitalismo della
sorveglianza è agli esordi, ma in veloce divenire. Prima c’è stato lo studio
del comportamento degli utenti, poi sono stati elaborati algoritmi per definire
ciò che potrebbero e dovrebbero fare nel futuro. Adesso la posta in gioco è
estendere la sorveglianza, mettendo in campo una infrastruttura che acquisisca
dati ovunque, dalle strade al tempo passato di fronte le vetrine dei negozi,
analizzando ogni aspetto del movimento dei corpi e delle manifestazioni di
desideri e bisogni. In questo caso emerge una sorta di ‘potere strumentale’ [...].
Non è un caso che il diritto alla privacy abbia acquisito una così grande
rilevanza. Ci sono state mobilitazioni per affermare il diritto all’oblio, la
vostra Unione Europea lo riconosce alla riservatezza come bene comune, per
impedire alle imprese di raccogliere dati che possono essere usati per
manipolare la discussione pubblica e le elezioni, come è emerso con l’affaire
di Cambridge Analytica e la quasi certezza che le elezioni politiche
presidenziali negli USA e il referendum inglese sulla Brexit siano stati
condizionati da imprese dei Big Data con il silenzio complice dei social
network e di altri colossi della Rete».
Comunque
sia, le questioni scomode che Shoshana Zuboff solleva – a partire dalle domande
che dobbiamo porci in questa civiltà dell’informazione: Chi sa? Chi decide?
Chi decide chi decide? – tolgono il velo al capitalismo della sorveglianza, che si svela per quello che fa (prevede,
manipola, condiziona, plasma le scelte di ogni utente collegato a un sito
internet) e ci spronano a non consegnare il futuro dell’umanità alle grandi
aziende di un capitalismo pirata, narcisista e autoreferenziale, che svilisce
la dignità umana e si alimenta a una sorgente di indifferenza radicale. Il futuro di questo capitalismo della
sorveglianza dipenderà soprattutto da giovani donne e uomini desiderosi di
acquisire la consapevolezza che «l’autonomia è indispensabile, che accettare
delle regole in modo forzato non equivale a un contratto sociale, che un
alveare senza uscita non può essere una casa, che l’esperienza senza il
santuario rimane solo un’ombra, che una vita nella quale ci dobbiamo nascondere
è indegna, che toccare senza sentire niente non ci offrirà alcuna verità, e che
essere liberi dal dubbio non è vera libertà».
Leggere
Il capitalismo della sorveglianza corrobora: nel corso della lettura si
sente il bisogno di rompere l’incantesimo che annebbia mente e cuore e nello
stesso tempo si avverte nei confronti dei ladri dell’umano uno sdegno crescente
tale da rinvenire nell’intimo il senso della fiducia e della bellezza delle
relazioni in presenza; per di più, dopo averlo letto e dopo averne parlato in
piccoli o grandi gruppi,maggiore è la consapevolezza che nessuna forza esterna
può intralciare il coraggio di opporsi in prima persona e/o insieme ad altre e
altri compagni di viaggio e di lotta ai nuovi potenti di turno, intenti a fare
profitti a discapito della vera e unica ricchezza che possediamo: la libertà di
non essere eterodiretti e la gioia di vivere in una realtà non virtuale.