- Anna Maria Merlo -
BALIBAR:
LA TECNOCRAZIA PREFERISCE I POPULISMI A UN’EUROPA SOCIALE
«Sui migranti tutti
i Paesi Ue adottano politiche ipocrite, ripugnanti e si fanno paravento con il
gruppo di Visegrad». Per il filosofo, «La tecnocrazia europea, preferisce i
populismi alle spinte democratiche di sinistra, li vede come un minor male di fronte
alla crescita del risentimento popolare»
L’odissea dell’Aquarius rifiutato dai porti europei, con lo spagnolo Pedro Sanchez che salva l’onore della socialdemocrazia. Il disordine creato dal nuovo governo italiano e dai tanti nazionalismi in crescita. La sinistra lacerata nello scontro tra l’opposizione aperto-chiuso, con il rischio di una deriva tra liberismo e xenofobia, come ha messo in luce ultimamente lo scontro all’interno di Die Linke, mentre lo spazio europeista socialdemocratico si trova schiacciato e può diventare irrilevante. Discutiamo della nuova crisi europea con il filosofo Etienne Balibar, assieme a Vadim Kamenka dell’Humanité Dimanche
L’odissea dell’Aquarius rifiutato dai porti europei, con lo spagnolo Pedro Sanchez che salva l’onore della socialdemocrazia. Il disordine creato dal nuovo governo italiano e dai tanti nazionalismi in crescita. La sinistra lacerata nello scontro tra l’opposizione aperto-chiuso, con il rischio di una deriva tra liberismo e xenofobia, come ha messo in luce ultimamente lo scontro all’interno di Die Linke, mentre lo spazio europeista socialdemocratico si trova schiacciato e può diventare irrilevante. Discutiamo della nuova crisi europea con il filosofo Etienne Balibar, assieme a Vadim Kamenka dell’Humanité Dimanche
Il
governo italiano mette in difficoltà la Ue, la ricatta. Cosa sta facendo Bruxelles,
se sta facendo qualche cosa, per reagire?
Una
cosa mi ha colpito: la dichiarazione del presidente della Commissione,
Jean-Claude Juncker, di qualche giorno fa, che ha detto «non faremo con
l’Italia l’errore fatto con la Grecia». Intanto, c’è il riconoscimento che con
la Grecia è stato fatto un errore. Ma quale secondo la Commissione? Un errore
di fondo, di contenuto, imporre come mezzo per risolvere il problema del debito
una politica di austerità, di distruzione dell’economia nazionale, oppure solo
un errore di forma, nell’interpretazione del commissario agli Affari economici
Pierre Moscovici? L’idea sembra di non entrare con l’Italia in un conflitto
duro come è stato fatto con la Grecia. La Ue non ne ha i mezzi. Ma va
sottolineato che in Grecia c’era (e c’è) un governo di sinistra, mentre in
Italia c’è un governo populista orientato all’estrema destra. Senza cadere nel
cospirazionismo, possiamo però rilevare che la tecnocrazia europea, benché non
strumentalizzi i populismi, li preferisce alle spinte democratiche di sinistra,
li vede come un minor male di fronte alla crescita del risentimento popolare,
anche se è la politica del peggio, una scelta negativa che aggrava
l’ingovernabilità che si diffonde paese dopo paese. Poco per volta, cresce il malessere
di fronte alla governance degli stati e dell’Europa e si cristallizza l’idea,
con la Grecia, il Brexit o lo pseudo Brexit, ora l’Italia, che di fronte al
fatto che non ci sono vantaggi per nessuno ad uscire dall’Unione europea, si va
verso una marcescenza della situazione, una neutralizzazione reciproca. Mi
spiace, ma sono di un pessimismo radicale.
Al
Consiglio europeo di fine giugno ci sarà sul tavolo un piano franco-tedesco per
la zona euro.
Ma
di quale piano si parla? È una costruzione culturale, che in sé non è
disprezzabile, ma cosa si vuole promuovere? Al centro del problema c’è la
struttura finanziaria e il bilancio, cioè l’estensione della solidarietà. Ma i
paesi del nord vedono profilarsi lo spettro dei trasferimenti finanziari verso
il sud e l’ipotesi di un bilancio comune, che gli economisti post-keynesiani da
anni considerano indispensabile con una moneta comune. Macron non fa cifre,
Angela Merkel punta al più piccolo denominatore: si ritorna alla questione
della differenza dei livelli di sviluppo, della divisione dell’Europa tra zone
assegnate a differenti funzioni economiche, tra centri di attrazione per i
capitali e zone di subappalto, zone di vacanza per la piccola borghesia ecc.
Bisognerebbe far esplodere l’ipocrisia della propaganda che afferma che c’è chi
paga e chi riceve, un discorso che ha successo nel nord, a cominciare dalla
Germania, ma non solo.
Le
ineguaglianze, tra stati e tra cittadini, devono essere poste al centro per
uscire dalla crisi?
L’ineguaglianza
dello sviluppo, la questione dell’ingovernabilità che ne deriva dappertutto, è
incredibile che di questa crisi non venga discusso al Parlamento europeo. Ma
come ho detto sono molto pessimista: un dibattito del genere rischierebbe di
diventare cacofonia, con le forze populiste in crescita che utilizzano
argomenti fascistizzanti. La crisi dell’Europa è anche quella della sua essenza
democratica, più si impantana più viene evitato il dibattito intraeuropeo.
Bisognerebbe che tutte le forze che cercano di ricostruire una prospettiva di
sinistra a livello europeo imponessero questo dibattito. Ma non c’è più una
sinistra coerente: se la sinistra deve ricostruirsi, però, deve concepirsi
subito come sinistra europea, per aprire un dibattito politico attraverso le
frontiere. C’è un effetto perverso della crescita in potenza della tecnocrazia
di Bruxelles unita al monopolio della politica da parte degli stati nazionali:
i cittadini si stanno ripiegando su se stessi, ogni paese discute di problemi
propri, al punto che la cosa maggiormente condivisa è una concezione del
nazionalismo, visto come degli interessi nazionali da difendere.
La
drammatica vicenda dell’Aquarius ne è l’ultima illustrazione?
Francia,
Gran Bretagna, Italia e tutti gli altri adottano politiche ipocrite,
ripugnanti, facendosi paravento con il gruppo di Visegrad. La Francia blocca
gli esiliati alle frontiere con l’Italia, ci sono violenze continue da Calais a
Ventimiglia, in Gran Bretagna sono venuti alla luce gli obiettivi di
respingimento, la creazione di un «ambiente ostile» per i migranti. Come si
bilanciano i due aspetti del problema? Da un lato, c’è un aspetto razionale: se
calcoliamo il numero di esiliati, anche nell’ipotesi più forte, il problema non
è insolubile, ci sono le capacità di accoglienza in Europa, non si tratta di
un’invasione, ma di un numero di arrivi pari all’incirca allo 0,2% della
popolazione dell’Unione. Accoglienza significa inserzione, e qui torniamo alla
questione territoriale e delle differenze di sviluppo. In secondo luogo, c’è
l’aspetto morale: ormai, il problema del Mediterraneo prende dimensioni di
genocidio. Come nominare altrimenti quello che succede, un processo di cui ci
rendiamo complici di messa in atto di un sistema di eliminazione fisica
violenta su basi razziali. Un genocidio che ha luogo alle frontiere. Abbiamo
delle tradizioni a cui fare appello per lottare contro questo crollo morale,
dal Cristianesimo all’internazionalismo. Dei giuristi propongono di inserire
l’accoglienza dei migranti nel diritto internazionale. Vanno poi combattute le
logiche economiche neocoloniali che adottiamo, lo sfruttamento, le guerre a cui
partecipiamo, che spingono all’esilio.
Da
dove ripartire?
Tre
questioni devono essere poste al centro: 1) il ruolo della Ue nella
mondializzazione, sfruttando al meglio il peso europeo per regolare le
delocalizzazioni contro i dumping sociali e fiscali; 2) le politiche
neo-liberiste devono cedere il posto a un’Europa sociale; 3) la democrazia
delle istituzioni europee. La questione della democrazia rappresentativa non è marginale
o liquidata per sempre. Ma ogni paese oggi è caratterizzato da patologie della
rappresentanza politica, la cosiddetta post-democrazia, lo scarto tra poteri
reali e poteri apparenti. Non bisogna dimenticare i movimenti sociali: anche se
oggi, purtroppo, al meglio sono difensivi.