venerdì 30 giugno 2017

abstract/ DENTRO E CONTRO L’ANTROPOCENE. SFIDE PER IL POSTOPERAISMO

–MIRIAM TOLA-

tendenze nell’arcipelago postoperaista 
/quali  strumenti offrono per orientarsi dentro e contro l’antropocene?
/come ripensare il lavoro vivo al tempo della messa al lavoro di forme di vita umane e non umane?
/come cambiano concetti e pratiche dell’autonomia nelle geografie tossiche delle economie estrattive?

Nel romanzo New York 2140, lo scrittore di “climate fiction” Kim Stanley Robinson descrive una metropoli semi-sommersa, tagliata da canali e connessa da ponti sospesi tra grattacieli. Le inondazioni hanno diviso la città: la terra ferma all’estremo nord di Manhattan è occupata dalle élite; la parte di mezzo, trasformata in area litoranea, è in corso di ri-gentrificazione; downtown, in balia delle maree, è zona di rovine e povertà ma anche intensa sperimentazione eco-sociale. Il capitale finanziario, più aggressivo che mai, trasforma la fluttuazione delle acque in opportunità speculative. Eppure, il cambiamento climatico non segna la fine della storia ma l’inizio di un progetto politico che Robinson chiama “the comedy of the commons” (la commedia del comune). Che cosa significa inventare il comune nell’epoca che molti chiamano Antropocene (dall’impatto
dell’antropos, la specie umana, sul sistema-Terra)e alcuni Capitalocene?

Lo stesso interrogativo agita l’ultimo numero di South Atlantic Quarterly, rivista diretta da
Michael Hardt. Curato dai geografi Bruce Braun e Sara Nelson, il numero speciale di
SAQ è dedicato al tema “Autonomia nell’Antropocene”. Tra i contributi troviamo nomi
vicini all’arcipelago post-operaista, ad esempio Matteo Pasquinelli e l’americano Jason
Read, e voci dissonanti come Isabelle Stengers ed Elizabeth Povinelli. La premessa è la seguente: la disseminazione di concetti post-operaisti (autonomia, lavoro vivo, moltitudine, comune) ha prodotto scambi e contaminazioni importanti a livello transnazionale, dalla Francia all’America Latina passando per gli Stati Uniti. Scambi e contaminazioni, tuttavia, generano anche sfide e spiazzamenti. Secondo Nelson e Braun il post-operaismo “è stato sorprendentemente lento nell’affrontare cambiamenti planetari e politica ambientale. Molti pensatori autonomisti si concentrano sul capitalismo cognitivo ma sottovalutano o ignorano del tutto le dimensioni ecologiche del post-fordismo” …Eppure, continuano Nelson e Braun, le prospettive post-operaiste potrebbero avere molto da offrire all’analisi di processi di valorizzazione che emergono da relazioni socio-ecologiche. Dovranno però fare i conti – e qui la sfida proposta – con ciò che finora è rimasto impensato: la rilevanza di processi geo-biologici nel lavoro contemporaneo, l’impossibilità di separare la specie umana da un milieu geologico ed ecologico che ne costituisce le condizioni di esistenza.
Questo breve testo interroga il post-operaismo a partire dalla lettura di alcuni articoli di SAQ. Si tratta di una lettura situata in genealogie femministe e postcoloniali, che mette a fuoco temi e questioni forse utili per proseguire la discussione in corso nella sezione Ecologia Politica di Effimera.
Diversi saggi di SAQ riprendono le critiche femministe delle distinzioni gerarchiche tra società e natura, produzione e riproduzione. Nell’arcipelago post-operaista, le riflessioni di Silvia Federici e Maria Rosa Dalla Costa rimangono punti di riferimento importanti. Negli anni Settanta, queste studiose attiviste dimostravano la centralità del lavoro domestico e riproduttivo, reso invisibile e confinato nella sfera del privato, nel processo di accumulazione capitalista. Successivamente, la loro analisi si è espansa alla riproduzione socio-ecologica. Dalla Costa, in dialogo con le eco-femministe Maria Mies e Vandana Shiva, ha scritto di ecosistemi marini, del movimento dei pescatori e del collasso ecologico provocato dallo sfruttamento neoliberista di terre e mari. Federici ha accennato al tema della dipendenza delle reti del lavoro cognitivo sulle ecologie non viventi che formano la base dei combustibili fossili. In senso ampio, l’analisi femminista della riproduzione sociale offre fertili spunti di ricerca per pensare le dimensioni ecologiche del post-fordismo.
(…) Verso una riconfigurazione di ciò che conta come lavoro va anche Matteo Pasquinelli. La tecnosfera dell’Antropocene, sostiene, andrebbe indagata attraverso l’analisi integrata di energia e informazione, le due teste di una chimera bicefala che una volta animavano la fabbrica fordista e oggi innervano i circuiti della computazione planetaria… Pasquinelli afferma che “una nuova composizione politica di energia e informazione deve essere elaborata contro la composizione tecnica che le ha biforcate fin dall’era industriale”. Questo passaggio renderebbe possibile creare connessioni tra lotte centrate sull’energia (pensiamo al movimento per il disinvestimento da combustibili fossili e, più in generale, alle lotte per la giustizia climatica) e quelle centrate sull’informazione (dall’hacktivism al precariato digitale).
Il tema della trasversalità delle lotte emerge con forza anche nel testo di Isabelle Stengers, filosofa della scienza e della cosmopolitica. Stengers prende le distanze da diverse tendenze postoperaiste.
Quella, ad esempio, che vede nell’intensificazione dell’attuale regime di produzione, caratterizzato dalla tendenza egemonica del lavoro  cognitivo, semi potenziali di autonomia dal comando capitalista… Stengers, come Donna Haraway, si sottrae alla narrativa dell’Antropocene che vede in Homo sapiens (nozione su cui, peraltro, si inscrivono stratificazioni di genere e razziali) la causa e, simultaneamente, il rimedio alla catastrofe ecologica. Al discorso dell’Antropocene oppone l’immagine di Gaia, un assemblaggio di forze che compongono un sistema-Terra lontano dallo stato di equilibrio. L’intrusione di Gaia, entità impersonale e indifferente ai destini umani, pone un problema politico urgente: come vivere altrimenti? Come creare alternative alle relazioni di potere coloniali e capitaliste che hanno gettato le basi per l’Antropocene? (…) Come cambia, chiede Stengers, il significato di autonomia, nelle rovine dell’Antropocene? Che cosa accade, aggiunge Elizabeth Povinelli, quando devastazione ecologica e tardoliberismo rilasciano una “lenta violenza” [slow violence] su modi di esistenza non definiti dall’immaginario dell’autonomia?
(…) Scrive Povinelli, “in questi spazi di assoluto saccheggio coloniale emerge una nuova forma di sovranità, una nuova forma di pura autonomia dallo stato e dal capitale, una autonomia tossica” Nelle aree che stato e mercato hanno depredato e ora si lasciano alle spalle perché altamente tossiche, le comunità indigene sperimentano forme di “survivance”. Non di mera sopravvivenza ma di persistenza, “attivo senso di presenza”.
Provincializzare l’autonomia non implica certo rinunciare a ripensarne le forme. Investire nell’autonomia dentro e contro l’Antropocene significa, per tornare a Stengers, inventare modi di vita, commons, non associati “all’epifania dell’eccezionalismo umano”. In questo senso, un dono del pensiero operaista (e post-operaista) rimane prezioso: l’insistenza a imparare dalle e nelle lotte.

Per la lettura integrale in uno con la bibliografia si rinvia a