-BIAGIO QUATTROCCHI-
Il libro si apre con una genealogia
dell’economia politica del debito, ma poi si sofferma giustamente sulla fase
neoliberale, perché è solo in questo lungo ciclo economico che in modo del
tutto inedito si assiste ad un profondo mutamento nella funzione politica del
debito. Partirò da questi aspetti provando a dialogare con alcune tesi
contenute in questo lavoro.
Una delle tesi centrali, che emerge
in diverse parti del libro, riguarda la nozione stessa di debito (che avvicina
l’autore ad una buona parte della teoria economica eterodossa). Diversamente
dalla teoria economica dominante, l’autore mostra come il debito rappresenti
principalmente una specifica forma di relazione capitalistica. Il debito non è
solo una quantità monetaria, un concetto statico di valore, neppure solo una
forma di ricchezza. Il debito è prima di tutto una relazione di potere tra due
soggetti o tra due istituzioni. E come tutte le forme di potere è sempre un
rapporto asimmetrico. Partendo dal lavoro di un antropologo americano, David
Graeber, mostra come il debito sia una forma di relazione antica, che ha
attraversato interamente la storia dell’economia, pre-esistendo
all’affermazione e allo sviluppo del capitalismo. Dunque, si potrebbe dire, una
forma di relazione antica da sempre fondata su uno squilibrio di potere: da un
lato, il creditore, colui che possiede la moneta, dall’altro il debitore, colui
che ha una insufficienza di moneta ed ha bisogno di reperirla per svolgere
alcune attività riproduttive fondamentali, e per farlo deve necessariamente
stare alle regole di gioco imposte del primo. Per rafforzare questa tesi
l’autore sostiene, in modo molto convincente, che, in realtà, ai creditori non
conviene affatto che il debito (privato o pubblico) sia interamente estinto.
Quello a cui i creditori sono veramente interessati è che la spesa per
interessi sia continuamente pagata dal debitore. Il creditore è interessato al
fatto che la “catena del debito” non si spezzi mai. Solo così può avere luogo
il comando della finanza sulle vite e la capacità “estrattiva” del capitale
finanziario.
Dalla lettura del libro si comprende,
poi, un’altra cosa fondamentale che è assai utile ribadire, ossia che la
relazione capitalistica tra creditori e debitori è, a sua volta, strettamente
collegata a tutte le altre relazioni di natura monetaria. Per chiarire questo
concetto potrebbe essere utile far riferimento ad altri autori. Mi soffermerò
sugli economisti del “circuito monetario” e, per affinità, su alcuni lavori
contenuti in quello straordinario laboratorio teorico-politico che è stata la
rivista storica «Primo Maggio» (diretta da Sergio Bologna), per descrivere una
cosa in particolare: che il rapporto creditore-debitore, oltre ad essere una
forma di relazione di potere antica, non è un rapporto che si somma
semplicisticamente alle altre molteplici relazioni economico-monetarie, come ad
esempio alla relazione conflittuale tra salari e profitti, dentro la lotta di
classe. Al contrario, il rapporto finanziario creditore-debitore, attraversa
trasversalmente tutte le altre relazioni ed espressioni monetarie, fino a
rappresentarne una componente interna degli altri rapporti economici, compreso
quello che riguarda, appunto, la relazione salariale. Questo perché in una
economia monetaria di produzione, la moneta, il circolante, le banconote che
abbiamo nelle nostre tasche, sono di per se stesse frammenti di debito. In ogni
singola moneta, oltre ad essere contenuto, come in un cristallo, il rapporto
sociale di sfruttamento, resta impresso anche il segno della relazione di
potere che lega i creditori ai debitori.
Nel capitalismo la moneta non casca
dagli alberi. Deve essere prodotta e messa in circolazione. Nel neoliberismo,
per semplificare il discorso, tre sono i canali principali attraverso cui la
moneta è prodotto e messa in circolazione:
Le imprese per avviare la produzione,
per acquistare capitale fisso e capitale variabile (forza lavoro) si indebitano
presso le banche facendo affluire denaro nell’economia. Dunque, comprenderete,
che nella relazione salariale tra il padrone e il lavoratore, anche se
superficialmente non si vede, agisce l’ombra della relazione finanziaria da cui
siamo partiti. Il rapporto conflittuale tra padrone e lavoratore è, in realtà,
sempre una triangolazione di potere, che frappone da un lato frazioni diverse di
capitale, dall’altro la forza lavoro.
La moneta entra in circolazione
quando le banche prestano denaro direttamente alle famiglie, attraverso il
credito a consumo, i mutui, le carte di credito, ecc… Qui siamo evidentemente
nel campo dell’indebitamento di massa tipico del neoliberismo, tema affrontato
in diversi studi.
Infine, il terzo canale riguarda
l’acquisto dei titoli pubblici da parte delle banche centrali e delle banche
private sui mercati secondari.
Ora forse capirete bene che in tutte
le relazioni monetarie fondamentali che ho appena descritto, quando il padrone
ti paga il salario, quando si acquistano beni di consumo, quando i governi
fanno spesa pubblica per finanziare servizi, scuola, sanità, all’origine c’è
sempre una relazione finanziaria tra creditori-debitori.
Torniamo adesso al libro di Marco. Il
processo di finanziarizzazione dell’economia capitalistica che l’autore
descrive molto bene, possiamo dire, da un lato, poggia su questa caratteristica
di fondo dell’economia monetaria di produzione, per alcuni versi un invariante
storico dello sviluppo capitalistico, dall’altro, invece, dà conto della nuova
intensa pervasività del comando finanziario. Ecco perché, per dirla con
Christian Marazzi, nel neoliberismo si è persa completamente qualsiasi concreta
ed utile distinzione tra economia finanziaria ed economia reale.
Ora, una cosa a cui dobbiamo stare
attenti, quando svolgiamo le nostre lotte sul debito in alcune città dove
stanno nascendo le prime esperienze di “auditoria”, in Italia come in Spagna, è
quello di prosciugare la nostra critica al comando finanziario del debito da
ogni residuo moralistico. Il debito non è aprioristicamente un male assoluto.
Lo abbiamo imparato studiando criticamente Keynes, ma soprattutto ce lo dicono
le lotte.
Lungo il ciclo fordista-keynesiano
c’è stato un altro tipo di contesa sul debito pubblico. Allora erano le lotte
operaie, quelle femministe, attraverso le rivendicazioni del welfare, di
migliori livelli per la riproduzione sociale, a determinare uno specifico “uso
politico del debito” da parte della classe operaia. La relativa crescita del
debito pubblico di alcuni principali Paesi, in quel periodo, anticipava
l’aumento di quote di salario indiretto. La crescita del debito, dunque, era la
conseguenza di un aumento della spesa pubblica. Queste lotte dal basso, badate
bene, si innestavano in un quadro segnato dall’alto dalla presenza dello
Stato-Piano, o se preferite dello Stato del benessere à la Pigou. Di una
forma-Stato che faceva della programmazione economica centrale una sua
caratteristica fondamentale. La richiesta di un aumento di spesa pubblica che
proveniva dalle lotte si agganciava, suo malgrado, ad una diversa esigenza
dell’establishment del tempo, che puntava a contenere il comando sulla “domanda
effettiva”. I marxisti più ortodossi non hanno mai dato segno di aver capito
particolarmente bene Keynes. La nozione di “domanda effettiva” non chiama
genericamente in causa i moltiplicatori attivati dalla domanda a favore della
crescita; dire "domanda effettiva" è dire chi ha il comando politico
sulla crescita e sulla distribuzione del sovrappiù. Dunque, mentre le lotte
praticavano autonomamente l’“uso politico del debito”, l’aumento della spesa
che ne derivava veniva sfruttato per assicurare la crescita dell’accumulazione
e per contenere le spinte rivoluzionarie dentro un quadro di compatibilità.
Per giunta, l’“uso politico del
debito” da parte delle lotte aveva concretamente luogo nelle metropoli,
prendendo talvolta la forma di un “uso politico del debito delle città”. È alla
luce di questi aspetti che si può far riferimento alla crisi fiscale delle
città intorno alla seconda metà degli anni Settanta, descritta molto bene da
Henri Lefebvre.
Il libro elenca molto bene alcuni
passaggi fondamentali che preparano l’apertura al nuovo ciclo neoliberale dal
punto di vista istituzionale. Nel 1971, come noto, il Presidente Usa Richard
Nixon dichiara l’inconvertibilità del dollaro in oro e annuncia la fine degli
accordi di Bretton Woods. Successivamente nel 1979, l’allora presidente della
Fed, avvia il cosiddetto “Volker shock”, aumentando bruscamente i tassi di
interesse, con l’effetto di far crescere le possibilità di finanziamento delle
istituzioni attraverso i mercati borsistici. In mezzo a queste date, non va
però dimenticata la vicenda della città di New York e della sua crisi fiscale
consumata a partire dal 1973. La città americana iniziava a
de-industrializzarsi e gli investimenti privati hanno assecondato l’esodo delle
industrie e così gli operatori finanziari hanno deciso di non finanziare più la
città attraverso l’acquisto dei city bonds. La soluzione a questa crisi fiscale
allora venne dai sindacati che decisero di acquistare con i propri fondi
pensione le obbligazioni cittadine, anticipando quello che poi diventerà la
“rivoluzione dei fondi pensione”. Ciò che non va sottovalutato è che la città e
la sua politica di bilancio si è trovata spesso a svolgere una funzione di
laboratorio, anticipando processi generali. Il neoliberismo non entra
necessariamente nella contabilità dei bilanci delle città “per caduta”, come
risultato di processi che nascono altrove. Al contrario, non va mai trascurato
la sperimentazione neoliberale che nasce proprio dal fondo delle città. Ecco
perché siamo così impegnati a lottare nei nostri municipi sul debito.
Se continuiamo ad assumere questa
parziale prospettiva dell’“uso politico del debito”, il neoliberismo ci
apparirà, tra le altre cose, come un ciclo economico-politico nel quale si è
definitivamente consumato un passaggio di mano nel comando sul debito pubblico:
dalla classe dei lavoratori a quella dei capitalisti. Il debito pubblico, da
promessa di investimento futuro, è stato trasformato nel suo opposto, quale
mezzo per tagliare le spesa pubblica, approfondendo il processo dello spossessamento
e riaprendo continuamente campi per nuova accumulazione originaria. Si tratta
del passaggio dallo Stato fiscale allo Stato debitore, per usare l’espressione
di Wolfgan Streeck. Se si leggono gli economisti della Public Choice, alle
origini del neoliberalismo americano, si trovano diversi segnali. Per esempio
Buchanan, premio Nobel nel 1986, nel formulare le sue tesi sulla teoria dei
“fallimenti del governo” scriveva anzitempo che la costituzionalizzazione del
pareggio di bilancio avrebbe limitato il potere coercitivo di alcuni gruppi di
elettori.
Quando si passa dallo Stato-piano
alla nuova forma-Stato del neoliberismo muta anche la forma della “domanda
effettiva”. Cambia la benzina del “motore della crescita”: dalla spesa pubblica
si passa alla domanda di consumo indebitata. Dal Keynes del “programma
economico di Stato”, si passa ad un nuovo Keynes finanziarizzato, dove lo Stato
è chiamato a regolare il corretto svolgimento della “molecolarità” della nuova
“domanda effettiva”. Ogni epoca ha la sua forma di comando sulla crescita.
Ora, però, che siamo ancora piantati
nel bel mezzo di questa “crisi infinita”, di questa “stagnazione secolare”, il
comando del debito pubblico, a livello centrale come nelle città, diventa puro
dominio, esercizio di pura violenza finalizzata allo spossessamento.
Ecco perché vale la pena insistere
nelle nostre città, insieme ad altre lotte generali, sulla crescita delle
esperienze di audit pubblico sul debito, intese come “istituzioni autonome del
comune” in cui praticare forme di inchieste indipendenti sull’origine del
debito delle città, presso le quali organizzare la lotta. È una delle strade
per liberarci dal ricatto del debito pubblico e insieme immaginare nuove forme
di programmazione economica delle città.