-TONI CASANO-
un nuovo sindacalismo
dovrà provare ad estendere il campo della contrattazione immediatamente sul
versante sociale/
bisogna prendere atto una volta e per tutte della fine del lavoro salariato/
riconoscere nel reddito primario di base incondizionato la centralità negoziale di portata epocale
bisogna prendere atto una volta e per tutte della fine del lavoro salariato/
riconoscere nel reddito primario di base incondizionato la centralità negoziale di portata epocale
Diciamolo con estrema
franchezza a quanti credono, pur prendendo le distanze dalle ultime
provocatorie bufalate lavoristiche, sia ancora percorribile un rilancio
newdealiano delle politiche economiche: non v’è alcun lavoro di cittadinanza da
ripartire, a maggior ragione quando la visione sottostante è la gratuita della
prestazione, in quanto non-lavoro: dal modello-EXPO (con centinaia di giovani
“stagisti” messi in fila per una occupazione non retribuita in quanto
considerata “attività formativa”) al JOBS ACT (ennesima riforma volta
alla precarizzazione del mercato del lavoro, varata all’insegna dei
buoni-lavoro, i voucher, una sorta di rimborso spese, ovvero una “piccola
mancia” elargito a titolo “formativo” per l’impiego nella filiera materiale).
Insomma si disciplina il “non-lavoro” come paradigma finalizzato al c.d.
“arricchimento curriculare” che favorirebbe –secondo l’ideologia neoliberista-
maggiori chance allocative della forza-lavoro, sotto la forma
auto-imprenditoriale, misurandosi dentro un mercato che vorrebbe
trasformare le singolarità in fabbriche macchine-viventi offerenti
al prezzo di dumping la propria merce, rendendo il lavoro
ancora appetibile alle imprese, altrimenti costrette allo sfruttamento “in
nero” date le vetuste rigidità giuslavoriste vigenti.
Così solo parrebbe
sbloccarsi il sistema-Italia, allineandolo alla competitività globalizzata: un
paese moderno ben piantato su la flessibilità del lavoro e la competitività
imprenditoriale, quali pilastri di una economia nazionale pronta ad agganciarsi
al treno della ripresa quando questa passerà, per battere la concorrenza ed
attrarre investimenti remunerativi, collocando stabilmente il paese fra quelli
più avanzati ed affidabili, al riparo delle oscillazioni di rischio (lo
spread) del debito sovrano.
Bene ha fatto, quindi,
Andrea Fumagalli a ricordarci il mutamento intervenuto nell’epoca postfordista,
in merito alla processualità accumulativa (la produttività del lavoro) e alla
creazione di ricchezza (la valorizzazione): «Tutto ciò ha implicato
un’evoluzione delle forme di organizzazione produttiva (per flussi) e una
valorizzazione del lavoro, superando la vecchia separazione tra lavoro manuale
e lavoro intellettuale. Le nuove tecnologie (ieri quelle informatiche-digitali,
oggi quelle legate alla bio-robotica, nano e biotecnologie e all’intelligenza
artificiale – algoritmi) hanno infatti permesso l’utilizzo ai fini produttivi
(valore di scambio) e quindi mercificabili di molte facoltà umane e vitali. Ciò
che per il profitto prima poteva essere considerato “improduttivo”, oggi lo è
diventato». [http://effimera.org/la-bufala-del-lavoro-cittadinanza-andrea-fumagalli-2/]
In sostanza, superate
le pastoie economicistiche su “lavoro” e “non-lavoro”, ovvero tra ciò
ch’è “produttivo” o “improduttivo”, dicotomia sulla quale è
impantanato ancora il sindacalismo tradizionale, il sistema del capitale
cognitivo pone in essere un piano estrattivo in cui la forza-lavoro della
cooperazione generale della società viene sussunta oltre ogni limitazione
fisica, senza tralasciare tout court ogni interstizio dell’articolazione
vitale: la vita relazionale stessa è messa in produzione, nel senso che il
capitale cerca di valorizzare il non-lavoro, subordinando alla fonte
l’inesauribile valore d’uso offerto dalla capacità creatrice sociale
disseminata, i cui saperi comuni vengono espropriati res nullius e
catturati dalle maglie della tecnologia del dominio, dentro il processo di
valorizzazione del capitale.
La biocognitività del
lavoro comune socializzato esprime una potenza moltiplicatrice esponenziale
formidabile rispetto al ciclo macchinico della trasformazione delle merci,
offrendo alla fabbrica estrattiva dominante una infinità di
piani stratificati di accumulazione, dentro cui lo spazio negoziale è sempre
più ristretto e circoscritto nel merito, con sempre meno margini di potere
contrattuale. Siamo quindi ben al di là del fordismo, quando l’obiettivo
sindacale era quello di realizzare il pieno impiego. Detto in altri termini, la
soluzione dei temi strutturali dell’economia non potrà sostenersi mediante un
rilancio degli investimenti pubblici che –agendo da leva- dovrebbero
sollecitare quelli privati. Le prospettive di un rilancio delle politiche
distributive e redistributive del reddito, filtrate dalla dinamica mercatista
del lavoro riformata secondo lo spirito neoliberista –meno tutele, più
flessibilità, più occupazione-, sono soltanto un piccolo specchietto per le
allodole. Questo è ben chiaro agli economisti, anche a quelli che ci propinano
in perfetta malafede la bufalate del lavoro di cittadinanza: il capitale – ci ricorda
ancora Fumagalli- tende “ad autonomizzarsi all’interno di un processo di
auto-creazione di valore senza che necessariamente si passi attraverso la
salarizzazione, ma sempre attraverso la gratuità”. [http://www.sudcomune.it/2016/10/30/andrea-fumagalli-il-jobs-act-o-la-sussunzione-vitale-del-lavoro-al-capitale/]
Se nulla ci aspettiamo
da parte del sindacalismo confederale “storicizzato”, nella rilettura del
rapporto capitale/lavoro oltre l’epoca fordista, qualcosa di più ci attendevamo
da quello “di Base”, un’esperienza ultra ventennale che sembra sempre più
ripiegata su se stessa e frantumata in un minoritarismo soggettivo. Ed è
proprio attorno alla parola d’ordine del reddito di cittadinanza che –invece-
potrebbe ancora rilanciarsi e ricercare quell’unità conflittuale ricompositiva
(da tutte le micro-forze evocata ma mai concretate) anche con le nuove sorgenti
forme aggregative del sindacalismo sociale –dal lavoro autonomo e precario a
quello non retribuito. Stiamo parlando di un sindacalismo sociale che sappia
spostare l’asse da quello esclusivo della contrattazione salariale del “lavoro
a tempo indeterminato” a quello negoziale sociale del lavoro comune
generalizzato. È su questa processualità produttiva diffusa che si deve
imbastire in un nuovo ciclo di lotte, giuocato sul piano della distribuzione
della ricchezza e che sappia rispondere alla depauperizzazione generale delle condizioni
di vita, imposte dalle politiche neoliberal-liberiste, con l’espansione del
fronte contrattuale oltre le verticali del lavoro dipendente.
Bisogna innescare
dispositivi di aggregazione delle singolarità per farle uscire fuori dalla
solitudine e della rabbia disperante a cui vorrebbe relegarle la tecnologia
sociopolitologica del mercato. Dunque bisogna andare oltre la compatibilità
accettate dal sindacalismo confederale oramai pacificato. Il rilancio del
rivendicazionismo distributivo deve superare l’ancoraggio della salarizzazione
al tempo formalmente impiegato dalla singola unità lavorativa. Il nuovo
sindacalismo dovrà provare ad estendere il campo della contrattazione
immediatamente sul versante sociale, prendendo atto una volta e per tutte della
fine del lavoro salariato e, quindi, della fine del verticalismo confederale,
riconoscendo -in primo luogo- nel reddito di base e incondizionato la
centralità rivendicativa epocale, così come analogamente epocale fu la
rivendicazione della “giornata di 8 ore” dei primi novecento: allora la
rivendicazione delle lotte si articolava all’interno dal rapporto formale di
sfruttamento che si muoveva dentro la centralità del salario commisurato
all’unità oraria del tempo prestato; ora –invece- nella condizione della
sussunzione vitale, ove la produttività assorbe l’intero tempo relazionale
della società, l’accesso alla ricchezza non è più commensurabile con la
salarizzazione di quote tempo-lavoro. In questo senso si rende quanto mai
urgente la costituzione di una nuova matrice sindacale caratterizzata da un
rivendicazionismo sociale che individui prioritariamente nella lotta per il
reddito universale il diritto proprio di ogni persona fisica.
In sostanza, con la
ormai improcrastinabile rimessa in opera dei dispositivi vertenziali del
sindacalismo sociale, da sottrarre all’inaffidabilità soggettiva e alla vetustà
organizzativa del modello confederale, si potranno imbastire piattaforme
rivendicative che investano direttamente la gamma dei diritti di cittadinanza –in
primis, come s’è detto, il reddito universale. Un piano contrattuale che
qualifichi normativamente la pretesa giuridica naturale esigibile da
ogni individuo e non già elargizione residuale compensativa dell’intervento
pubblico: i diritti di cittadinanza dovranno sostanziarsi come
allargamento della sfera giuridica soggettiva.
Il piano sociale del
neosindacalismo dovrà puntare innanzitutto sul ribaltamento delle politiche
distributive, ed in particolare battere la vulgata secondo cui l’unica chiave
d’accesso al reddito debba essere quella del lavoro salariato: la precarizzazione-flessibilizzazione
del lavoro e la disoccupazione strutturale massificata, oltre a ristabilire il
comando gerarchizzato sulla produzione e l’esclusione della cooperazione
sociale alla partecipazione dei frutti della produttività, segnano il limite
entro il quale la distribuzione del reddito non è più commisurabile -seguendo i
dettami del paradigma dell’economia politica- al rapporto di scambio del lavoro
mediato dal salario, così come avveniva nella fabbrica fordista.
Poiché ben altri sono
i processi di lavorizzazione della macchina estrattiva, avendo nei fatti
realizzato il “pieno impiego” della forza-lavoro, il potenziale ciclo di lotte
dovrà ritornare a declinarsi agendo sulle politiche
distributive/redistributive, imponendo nuove chiavi di accesso reddituali
che compensino le singolarità soggiogate dallo sfruttamento -diretto/indiretto-
del lavoro socialmente disseminato e sussunto nella produttività generale. Ciò
si deve grazie alla ricchezza maturata nel quadro dell’intreccio relazionale
-materiale/immateriale- determinato della moltitudine, attraverso il reticolo
vitale delle maglie cognitive della società globalizzata. Nei fatti la
moltitudine costituisce la vera sorgente generatrice di ricchezza che viene
selvaggiamente espropriata dall’onnivoro e potente capitalismo smaterializzato.
Ecco perché riteniamo più che legittima la rivendicazione del reddito di
cittadinanza universale piuttosto che di un “lavoro di cittadinanza” variamente
declinato, con o senza salario.
www.sudcomune.it
www.sudcomune.it