lunedì 20 marzo 2017

contributi - SALARIO O REDDITO? LA PRODUTTIVITÀ DEL NON LAVORO

-TONI CASANO-
un nuovo sindacalismo dovrà provare ad estendere il campo della contrattazione immediatamente sul versante sociale/
bisogna prendere atto una volta e per tutte della fine del lavoro salariato/
riconoscere nel reddito primario di base incondizionato la centralità negoziale di portata epocale 

Diciamolo con estrema franchezza a quanti credono, pur prendendo le distanze dalle ultime provocatorie bufalate lavoristiche, sia ancora percorribile un rilancio newdealiano delle politiche economiche: non v’è alcun lavoro di cittadinanza da ripartire, a maggior ragione quando la visione sottostante è la gratuita della prestazione, in quanto non-lavoro: dal modello-EXPO (con centinaia di giovani “stagisti” messi in fila per una occupazione non retribuita in quanto considerata “attività formativa”)  al JOBS ACT (ennesima riforma volta alla precarizzazione del mercato del lavoro, varata all’insegna dei buoni-lavoro, i voucher, una sorta di rimborso spese, ovvero una “piccola mancia” elargito a titolo “formativo” per l’impiego nella filiera materiale). Insomma si disciplina il “non-lavoro” come paradigma finalizzato al c.d. “arricchimento curriculare” che favorirebbe –secondo l’ideologia neoliberista- maggiori chance allocative della forza-lavoro, sotto la forma  auto-imprenditoriale, misurandosi dentro un mercato che vorrebbe trasformare  le  singolarità in fabbriche macchine-viventi offerenti al prezzo di dumping la propria merce, rendendo il lavoro ancora appetibile alle imprese, altrimenti costrette allo sfruttamento “in nero” date le vetuste rigidità giuslavoriste vigenti.
Così solo parrebbe sbloccarsi il sistema-Italia, allineandolo alla competitività globalizzata: un paese moderno ben piantato su la flessibilità del lavoro e la competitività imprenditoriale, quali pilastri di una economia nazionale pronta ad agganciarsi al treno della ripresa quando questa passerà, per battere la concorrenza ed attrarre investimenti remunerativi, collocando stabilmente il paese fra quelli più avanzati ed affidabili, al riparo delle oscillazioni di rischio (lo spread) del debito sovrano.
Bene ha fatto, quindi, Andrea Fumagalli a ricordarci il mutamento intervenuto nell’epoca postfordista, in merito alla processualità accumulativa (la produttività del lavoro) e alla creazione di ricchezza (la valorizzazione): «Tutto ciò ha implicato un’evoluzione delle forme di organizzazione produttiva (per flussi) e una valorizzazione del lavoro, superando la vecchia separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Le nuove tecnologie (ieri quelle informatiche-digitali, oggi quelle legate alla bio-robotica, nano e biotecnologie e all’intelligenza artificiale – algoritmi) hanno infatti permesso l’utilizzo ai fini produttivi (valore di scambio) e quindi mercificabili di molte facoltà umane e vitali. Ciò che per il profitto prima poteva essere considerato “improduttivo”, oggi lo è diventato».                  [http://effimera.org/la-bufala-del-lavoro-cittadinanza-andrea-fumagalli-2/]
In sostanza, superate le pastoie economicistiche su “lavoro” e “non-lavoro”, ovvero tra ciò ch’è  “produttivo”  o “improduttivo”, dicotomia sulla quale è impantanato ancora il sindacalismo tradizionale, il sistema del capitale cognitivo pone in essere un piano estrattivo in cui la forza-lavoro della cooperazione generale della società viene sussunta oltre ogni limitazione fisica, senza tralasciare tout court ogni interstizio dell’articolazione vitale: la vita relazionale stessa è messa in produzione, nel senso che il capitale cerca di valorizzare il non-lavoro, subordinando alla fonte l’inesauribile valore d’uso offerto dalla capacità creatrice sociale disseminata, i cui saperi comuni vengono espropriati res nullius e catturati dalle maglie della tecnologia del dominio, dentro il processo di valorizzazione del capitale.
La biocognitività del lavoro comune socializzato esprime una potenza moltiplicatrice esponenziale formidabile rispetto al ciclo macchinico della trasformazione delle merci, offrendo alla fabbrica estrattiva dominante una infinità di piani stratificati di accumulazione, dentro cui lo spazio negoziale è sempre più ristretto e circoscritto nel merito, con sempre meno margini di potere contrattuale. Siamo quindi ben al di là del fordismo, quando l’obiettivo sindacale era quello di realizzare il pieno impiego. Detto in altri termini, la soluzione dei temi strutturali dell’economia non potrà sostenersi mediante un rilancio degli investimenti pubblici che –agendo da leva- dovrebbero sollecitare quelli privati. Le prospettive di un rilancio delle politiche distributive e redistributive del reddito, filtrate dalla dinamica mercatista del lavoro riformata secondo lo spirito neoliberista –meno tutele, più flessibilità, più occupazione-, sono soltanto un piccolo specchietto per le allodole. Questo è ben chiaro agli economisti, anche a quelli che ci propinano in perfetta malafede la bufalate del lavoro di cittadinanza: il capitale – ci ricorda ancora Fumagalli- tende “ad autonomizzarsi all’interno di un processo di auto-creazione di valore senza che necessariamente si passi attraverso la salarizzazione, ma sempre attraverso la gratuità”. [http://www.sudcomune.it/2016/10/30/andrea-fumagalli-il-jobs-act-o-la-sussunzione-vitale-del-lavoro-al-capitale/]
Se nulla ci aspettiamo da parte del sindacalismo confederale “storicizzato”, nella rilettura del rapporto capitale/lavoro oltre l’epoca fordista, qualcosa di più ci attendevamo da quello “di Base”, un’esperienza ultra ventennale che sembra sempre più ripiegata su se stessa e frantumata in un minoritarismo soggettivo. Ed è proprio attorno alla parola d’ordine del reddito di cittadinanza che –invece- potrebbe ancora rilanciarsi e ricercare quell’unità conflittuale ricompositiva (da tutte le micro-forze evocata ma mai concretate) anche con le nuove sorgenti forme aggregative del sindacalismo sociale –dal lavoro autonomo e precario a quello non retribuito. Stiamo parlando di un sindacalismo sociale che sappia spostare l’asse da quello esclusivo della contrattazione salariale del “lavoro a tempo indeterminato” a quello negoziale sociale del lavoro comune generalizzato. È su questa processualità produttiva diffusa che si deve imbastire in un nuovo ciclo di lotte, giuocato sul piano della distribuzione della ricchezza e che sappia rispondere alla depauperizzazione generale delle condizioni di vita, imposte dalle politiche neoliberal-liberiste, con l’espansione del fronte contrattuale oltre le verticali del lavoro dipendente.
Bisogna innescare dispositivi di aggregazione delle singolarità per farle uscire fuori dalla solitudine e della rabbia disperante a cui vorrebbe relegarle la tecnologia sociopolitologica del mercato. Dunque bisogna andare oltre la compatibilità accettate dal sindacalismo confederale oramai pacificato. Il rilancio del rivendicazionismo distributivo deve superare l’ancoraggio della salarizzazione al tempo formalmente impiegato dalla singola unità lavorativa. Il nuovo sindacalismo dovrà provare ad estendere il campo della contrattazione immediatamente sul versante sociale, prendendo atto una volta e per tutte della fine del lavoro salariato e, quindi, della fine del verticalismo confederale, riconoscendo -in primo luogo- nel reddito di base e incondizionato la centralità rivendicativa epocale, così come analogamente epocale fu la rivendicazione della “giornata di 8 ore” dei primi novecento: allora la rivendicazione delle lotte si articolava all’interno dal rapporto formale di sfruttamento che si muoveva dentro la centralità del salario commisurato all’unità oraria del tempo prestato; ora –invece- nella condizione della sussunzione vitale, ove la produttività assorbe l’intero tempo relazionale della società, l’accesso alla ricchezza non è più commensurabile con la salarizzazione di quote tempo-lavoro. In questo senso si rende quanto mai urgente la costituzione di una nuova matrice sindacale caratterizzata da un rivendicazionismo sociale che individui prioritariamente nella lotta per il reddito universale il diritto proprio di ogni persona fisica.
In sostanza, con la ormai improcrastinabile rimessa in opera dei dispositivi vertenziali del sindacalismo sociale, da sottrarre all’inaffidabilità soggettiva e alla vetustà organizzativa del modello confederale, si potranno imbastire piattaforme rivendicative che investano direttamente la gamma dei diritti di cittadinanza –in primis, come s’è detto, il reddito universale. Un piano contrattuale che qualifichi normativamente la pretesa giuridica naturale esigibile da ogni individuo e non già elargizione residuale compensativa dell’intervento pubblico: i diritti di cittadinanza dovranno sostanziarsi come allargamento della sfera giuridica soggettiva.
Il piano sociale del neosindacalismo dovrà puntare innanzitutto sul ribaltamento delle politiche distributive, ed in particolare battere la vulgata secondo cui l’unica chiave d’accesso al reddito debba essere quella del lavoro salariato: la precarizzazione-flessibilizzazione del lavoro e la disoccupazione strutturale massificata, oltre a ristabilire il comando gerarchizzato sulla produzione e l’esclusione della cooperazione sociale alla partecipazione dei frutti della produttività, segnano il limite entro il quale la distribuzione del reddito non è più commisurabile -seguendo i dettami del paradigma dell’economia politica- al rapporto di scambio del lavoro mediato dal salario, così come avveniva nella fabbrica fordista.
Poiché ben altri sono i processi di lavorizzazione della macchina estrattiva, avendo nei fatti realizzato il “pieno impiego” della forza-lavoro, il potenziale ciclo di lotte dovrà ritornare a declinarsi agendo sulle politiche distributive/redistributive, imponendo nuove chiavi di accesso reddituali  che compensino le singolarità soggiogate dallo sfruttamento -diretto/indiretto- del lavoro socialmente disseminato e sussunto nella produttività generale. Ciò si deve grazie alla ricchezza maturata nel quadro dell’intreccio relazionale -materiale/immateriale- determinato della moltitudine, attraverso il reticolo vitale delle maglie cognitive della società globalizzata. Nei fatti la moltitudine costituisce la vera sorgente generatrice di ricchezza che viene selvaggiamente espropriata dall’onnivoro e potente capitalismo smaterializzato. Ecco perché riteniamo più che legittima la rivendicazione del reddito di cittadinanza universale piuttosto che di un “lavoro di cittadinanza” variamente declinato, con o senza salario.

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