-SANDRO MEZZADRA-
dall’intervento presentato lo scorso 21 gennaio 2017 alla conferenza di Roma
sul Comunismo – C17. In particolare proponiamo la parte relativa alla vexata
quaestio sull’utilizzazione dello Stato come strumento nel processo di
trasformazione sociale e mezzo di contrasto contro la violenza del capitale
finanziario
[…] Un problema che qui si pone immediatamente, e su cui si continuano a registrare profonde differenze nel dibattito, è la possibilità di utilizzare lo Stato come leva per la trasformazione sociale e come strumento di contrasto della violenza del capitale finanziario. Mentre spesso chi assume questa possibilità presenta le proprie posizioni come caratterizzate da realismo politico credo che sia necessaria in primo luogo proprio un’analisi realistica delle trasformazioni che negli ultimi anni hanno investito e radicalmente riconfigurato lo Stato. È uno degli obiettivi più importanti che io e Brett ci poniamo in The Politics of Operations: e quel che cerchiamo di dimostrare è che la logica estrattiva delle più rilevanti operazioni del capitale contemporaneo è penetrata in profondità all’interno delle strutture istituzionali dello Stato, ne ha tendenzialmente posto in discussione l’unità (sincronizzando secondo la propria razionalità le funzioni esecutive, di sicurezza e finanziarie e separandole dalle funzioni in senso lato “sociali”) e ha in particolare esercitato una formidabile pressione sul ruolo di mediazione sociale che lo Stato ha esercitato in una fase storica determinata sotto la pressione delle lotte operaie. Lo Stato contemporaneo continua a essere un attore chiave (ancorché non esclusivo) nell’articolazione delle operazioni del capitale, nella produzione degli spazi al cui interno si dispiegano i processi valorizzazione e di accumulazione del capitale, ma tende a ritrarsi laddove viene investito da rivendicazioni connesse al piano della riproduzione della forza lavoro, sempre più decisamente affidata a logiche di mercato che configurano come residuale l’intervento pubblico.
Questi processi, qui evocati molto
schematicamente, sono ben lungi dal risultare “accidentali” rispetto a una
“sostanza” della statualità che non ne risulterebbe scalfita e attenderebbe
soltanto di essere riattivata da politiche di “sinistra” o al limite
“comuniste”. La stessa lettura del neoliberalismo come dispositivo di “corruzione”
dell’autonomia del politico attraverso una contaminazione con la logica
dell’“economico”, per quanto diffusa (si pensi, per fare un solo esempio, ai
lavori di Wendy Brown), non coglie a mio giudizio la profondità di una
trasformazione che ha complessivamente ridefinito tanto il significato
dell’“economico” quanto quello del “politico”. Questa trasformazione ha
alterato (e certo anche “corrotto”!) la stessa figura dello Stato,
inscrivendovi una serie di elementi di blocco con cui è costretta a misurarsi qualsiasi
politica della trasformazione che passi attraverso l’uso dello Stato (sia che
si presenti come “riformista” sia che si presenti come “rivoluzionaria”). La
politica comunista di cui sto presentando alcune linee di fondo, nella sua
lotta contro la proprietà privata, si tiene tuttavia a distanza di sicurezza da
quella che Michel Foucault ha chiamato “statofobia”. Si ispira piuttosto,
secondo una formula di Rosa Luxemburg ripresa nel suo intervento a C17 da Mario
Candeias, a un essenziale “realismo politico rivoluzionario”. In circostanze
determinate, è possibile e necessario puntare all’occupazione delle strutture
statali (dotandosi degli strumenti necessari a questo fine). Ma per rimuovere
gli elementi di blocco che immediatamente si incontrano all’interno di queste
strutture, per trasformarle e renderle disponibili per nuovi ruoli e funzioni,
è necessario fare leva su un altro potere,
radicato al loro esterno. È solo questo doppio movimento a garantire
l’efficacia di un’azione antagonistica rispetto alle modalità operative del
capitale contemporaneo.
A me pare in particolare che sia questa la
lezione da trarre dalle più significative esperienze di occupazione e uso dello
Stato per costruire una politica “progressista” in questo inizio di XXI secolo
– ovvero dalle esperienze latinoamericane. Mentre è diffusa un’interpretazione
di queste esperienze che esalta l’efficacia del “populismo di sinistra”, credo
che sia più che mai necessaria una lettura che assuma come angolo prospettico
la loro attuale crisi, evidente negli sviluppi brasiliani e argentini non meno
che in quelli venezuelani e ecuadoriani. I governi “progressisti”
latinoamericani dimostrano certamente, sia pure in condizioni che occorrerebbe
valutare in modo molto più circostanziato, l’efficacia di politiche che hanno
utilizzato le istituzioni statuali per avviare processi di trasformazione
sociale. Ma mostrano anche i limiti che queste politiche hanno incontrato non
appena si sono chiuse all’interno di queste stesse strutture, dal momento che la
loro efficacia e la loro forza dipendevano in misura decisiva da una duplice
apertura al di là dello Stato nazionale: da una parte da un processo di
integrazione su scala regionale che in qualche modo era stato prefigurato dal
ciclo di lotte e insorgenze dei primi anni Duemila; dall’altra dalla
persistenza e dall’autonomia di dinamiche di mobilitazione e
auto-organizzazione sociale assunte come riferimento essenziale dalle stesse
politiche pubbliche. Il ripiegamento sulla dimensione nazionale e la centratura
del processo di trasformazione attorno alla figura dello Stato sono due momenti
essenziali dell’attuale crisi dei governi “progressisti” latinoamericani: il
“populismo di sinistra”, da questo punto di vista, è assai più parte del
problema che della soluzione.
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