mercoledì 8 febbraio 2017

abstract – POTERI COMUNISTI

-SANDRO MEZZADRA-
dall’intervento presentato lo scorso 21 gennaio 2017 alla conferenza di Roma sul Comunismo – C17. In particolare proponiamo la parte relativa alla vexata quaestio sull’utilizzazione dello Stato come strumento nel processo di trasformazione sociale e mezzo di contrasto contro la violenza del capitale finanziario

[…]  Un problema che qui si pone immediatamente, e su cui si continuano a registrare profonde differenze nel dibattito, è la possibilità di utilizzare lo Stato come leva per la trasformazione sociale e come strumento di contrasto della violenza del capitale finanziario. Mentre spesso chi assume questa possibilità presenta le proprie posizioni come caratterizzate da realismo politico credo che sia necessaria in primo luogo proprio un’analisi realistica delle trasformazioni che negli ultimi anni hanno investito e radicalmente riconfigurato lo Stato. È uno degli obiettivi più importanti che io e Brett ci poniamo in The Politics of Operations: e quel che cerchiamo di dimostrare è che la logica estrattiva delle più rilevanti operazioni del capitale contemporaneo è penetrata in profondità all’interno delle strutture istituzionali dello Stato, ne ha tendenzialmente posto in discussione l’unità (sincronizzando secondo la propria razionalità le funzioni esecutive, di sicurezza e finanziarie e separandole dalle funzioni in senso lato “sociali”) e ha in particolare esercitato una formidabile pressione sul ruolo di mediazione sociale che lo Stato ha esercitato in una fase storica determinata sotto la pressione delle lotte operaie. Lo Stato contemporaneo continua a essere un attore chiave (ancorché non esclusivo) nell’articolazione delle operazioni del capitale, nella produzione degli spazi al cui interno si dispiegano i processi valorizzazione e di accumulazione del capitale, ma tende a ritrarsi laddove viene investito da rivendicazioni connesse al piano della riproduzione della forza lavoro, sempre più decisamente affidata a logiche di mercato che configurano come residuale l’intervento pubblico.

Questi processi, qui evocati molto schematicamente, sono ben lungi dal risultare “accidentali” rispetto a una “sostanza” della statualità che non ne risulterebbe scalfita e attenderebbe soltanto di essere riattivata da politiche di “sinistra” o al limite “comuniste”. La stessa lettura del neoliberalismo come dispositivo di “corruzione” dell’autonomia del politico attraverso una contaminazione con la logica dell’“economico”, per quanto diffusa (si pensi, per fare un solo esempio, ai lavori di Wendy Brown), non coglie a mio giudizio la profondità di una trasformazione che ha complessivamente ridefinito tanto il significato dell’“economico” quanto quello del “politico”. Questa trasformazione ha alterato (e certo anche “corrotto”!) la stessa figura dello Stato, inscrivendovi una serie di elementi di blocco con cui è costretta a misurarsi qualsiasi politica della trasformazione che passi attraverso l’uso dello Stato (sia che si presenti come “riformista” sia che si presenti come “rivoluzionaria”). La politica comunista di cui sto presentando alcune linee di fondo, nella sua lotta contro la proprietà privata, si tiene tuttavia a distanza di sicurezza da quella che Michel Foucault ha chiamato “statofobia”. Si ispira piuttosto, secondo una formula di Rosa Luxemburg ripresa nel suo intervento a C17 da Mario Candeias, a un essenziale “realismo politico rivoluzionario”. In circostanze determinate, è possibile e necessario puntare all’occupazione delle strutture statali (dotandosi degli strumenti necessari a questo fine). Ma per rimuovere gli elementi di blocco che immediatamente si incontrano all’interno di queste strutture, per trasformarle e renderle disponibili per nuovi ruoli e funzioni, è necessario fare leva su un altro potere, radicato al loro esterno. È solo questo doppio movimento a garantire l’efficacia di un’azione antagonistica rispetto alle modalità operative del capitale contemporaneo.
A me pare in particolare che sia questa la lezione da trarre dalle più significative esperienze di occupazione e uso dello Stato per costruire una politica “progressista” in questo inizio di XXI secolo – ovvero dalle esperienze latinoamericane. Mentre è diffusa un’interpretazione di queste esperienze che esalta l’efficacia del “populismo di sinistra”, credo che sia più che mai necessaria una lettura che assuma come angolo prospettico la loro attuale crisi, evidente negli sviluppi brasiliani e argentini non meno che in quelli venezuelani e ecuadoriani. I governi “progressisti” latinoamericani dimostrano certamente, sia pure in condizioni che occorrerebbe valutare in modo molto più circostanziato, l’efficacia di politiche che hanno utilizzato le istituzioni statuali per avviare processi di trasformazione sociale. Ma mostrano anche i limiti che queste politiche hanno incontrato non appena si sono chiuse all’interno di queste stesse strutture, dal momento che la loro efficacia e la loro forza dipendevano in misura decisiva da una duplice apertura al di là dello Stato nazionale: da una parte da un processo di integrazione su scala regionale che in qualche modo era stato prefigurato dal ciclo di lotte e insorgenze dei primi anni Duemila; dall’altra dalla persistenza e dall’autonomia di dinamiche di mobilitazione e auto-organizzazione sociale assunte come riferimento essenziale dalle stesse politiche pubbliche. Il ripiegamento sulla dimensione nazionale e la centratura del processo di trasformazione attorno alla figura dello Stato sono due momenti essenziali dell’attuale crisi dei governi “progressisti” latinoamericani: il “populismo di sinistra”, da questo punto di vista, è assai più parte del problema che della soluzione.
per la lettura integrale dell’intervento clicca su Euronomade