di
Franco Parello-
Il 17 aprile 2016 gli italiani sono chiamati
a votare il referendum voluto da nove regioni: Basilicata, Marche, Puglia,
Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. La regione Sicilia
brilla per la sua assenza. Il quesito del referendum cita: Volete
voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo
3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma
239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità
2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del
giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia
ambientale”?
Per chi
come me non avesse dimestichezza con il linguaggio un pò astruso dei
legislatori, nel quesito referendario si chiede se gli italiani vogliono
abrogare il comma 17 del decreto legislativo del 3 aprile 2006, n. 152 che
permette a chi ha ottenuto concessioni per l’estrazione di gas o petrolio da
piattaforme offshore entro le 12 miglia dalla costa di rinnovare la concessione
fino all’esaurimento del giacimento. Nota Bene! anche in caso di vittoria del
quesito referendario, e cioè se almeno il 50% degli elettori aventi diritto
andranno votare, le perforazioni continueranno a essere permesse oltre le 12
miglia dalla costa. La vittoria del sì al referendum quindi impedisce lo
sfruttamento degli impianti già esistenti quando le concessioni saranno
scadute, anche se il giacimento può essere ancora sfruttato (o non è del tutto
esaurito).
La legge attuale prevede che le concessioni siano stipulate per
una durata di trent’anni. Trascorso questo periodo le compagnie petrolifere
possono chiedere una prima proroga per altri 10 anni, poi una seconda proroga
per altri cinque anni e infine una terza proroga per ulteriori altri
cinque anni. La storia però non finisce
qui, infatti le compagnie petrolifere poi possono chiedere di prorogare
la concessione fino che il giacimento non sia completamente esaurito. Il referendum riguarda soltanto una ventina di concessioni di cui sette nel Canale di Sicilia. Attualmente (dati del 2014) la produzione da campi
petroliferi in mare ammonta a 0.75 milioni di tonnellate che rappresenta circa
l’1.3% del consumo nazionale (dati MISE 2014).
La ricerca di idrocarburi nel canale di Sicilia interessa un area di circa
12000 chilometri quadrati con una produzione di petrolio che è circa il 30%
della produzione nazionale offshore.
Un
pò di storia
Nel 2010 viene
approvato il cosiddetto “decreto Prestigiacomo”. Il
decreto innalza il limite entro il quale autorizzare prospezioni e
ricerche di idrocarburi da 5 a 12 miglia marine (circa 19 chilometri)
e ha valore soltanto per le aree marine protette. Ma perché nasce questo
decreto?? Nel 2010 si verifica il più grave disastro ambientale della storia
delle perforazioni a mare.
Nel golfo del Messico esplode una piattaforma petrolifera, la Deepwater
Horizon affittata dalla BP (British Petroleum), una delle più grandi
compagnie petrolifere al mondo. La compagnia è stata condannata nel 2014 per
"grave negligenza" e rischia di dover pagare fino a 18 miliardi di
dollari di indennizzo. Poi è la volta del decreto
“Cresci-Italia” del ministro Passera, governo Monti, convertito in legge
nell’agosto 2012, che conferma
il limite delle 12 miglia dalla costa e lo estende anzi a tutte le
coste italiane, comprese quindi le aree non protette, ma di contro “salva”
tutte le richieste già in atto, comprese le richieste di concessioni precedenti
al decreto Prestigiacomo del 2010. Un passo avanti e due indietro allo
stesso tempo.
Ma quale è il rischio legato alla ricerca e alla
attività estrattiva?
Ipotizziamo
che la ricerca di idrocarburi sia effettuata in un area geologicamente stabile
ad esempio il Sahara. In questo caso il rischio di un incidente è legato al
fattore umano, un esplosione accidentale di un pozzo oppure un esplosione
“voluta” come nel caso delle cosiddette guerre del Golfo del 1990 e del 2003.
Ma nel Canale di Sicilia? Una valutazione del rischio deve tenere conto
innanzitutto della conformazione geologica dell’area che da questo punto di
vista è molto complessa.
Il canale di Sicilia si trova infatti all’interno di una vasta area di
compressione tra la placca eurasiatica e la placca africana, ma
sia la topografia che l’assetto
strutturale e anche la diffusa attività vulcanica sono tutti chiari sintomi di
un regime distensivo, in cui la Sicilia e la Tunisia si allontanano
progressivamente tra di loro. Nel canale si possono infatti osservare delle grandi zone di
distensione (graben) allungate nella direzione stessa del canale: una nella
parte occidentale (il cosiddetto graben di Pantelleria) e due in quella
orientale (il graben di Malta e il graben di Linosa). In queste zone la
profondità è compresa tra i 1400 e i 1700 metri, ed è molto superiore alla
profondità del resto del canale che si attesta intorno ai 400 metri. L’attività
vulcanica in queste aree è testimoniata dalla presenza di alcuni vulcani
attivi, di cui si osservano le sommità emerse. L’isola di Pantelleria la cui
ultima eruzione è
avvenuta a circa 5 km a nord ovest dell’isola nel 1891. L’isola di
Linosa attualmente in
fase di quiescenza, la cui ultima eruzione sarebbe avvenuta circa 2500 anni fa e quel che
resta dell’isola Ferdinandea che oggi si trova a circa 10 metri sotto il
livello del mare. La
nascita dell’isola si è prodotta nel luglio del 1831, a circa 50 km al largo di
Sciacca. Alla fine dello stesso anno
l’apparato vulcanico verrà smantellato dal moto ondoso. In pochi mesi
il vulcano ha raggiunto una altezza massima di 70 metri e un diametro di 700
metri. L’attività sismica nel Canale di Sicilia non è particolarmente intensa
anche se recenti studi sulle rovine di Selinunte hanno evidenziato due
importanti eventi uno ai tempi della Magna Grecia e uno in età Bizantina.
Inoltre recenti campagne oceanografiche hanno evidenziato la presenza nel
canale di numerosi Pockmarks, si tratta di profonde depressioni che in genere
si formano in seguito all’accumulo e all’esplosione di sacche di gas,
principalmente metano. Questo ed altro
rende il canale di Sicilia una zona estremamente instabile.
Le tecniche di ricerca
Nel canale di Sicilia sono stati
rilasciati recentemente alcuni permessi di
prospezione. La prospezione viene
effettuata con tecniche sismiche di tipo air-gun. Si tratta di onde sismiche provocate
da esplosioni di aria compressa. Queste esplosioni consentono di studiare il
fondale marino alla ricerca di eventuali giacimenti di idrocarburi. Da anni
questa particolare tecnica è sotto accusa per i danni che può arrecare alla
fauna marina. I cetacei sarebbero i più danneggiati perché sono quelli che
sfruttano le basse frequenze sia per la comunicazione che per l’orientamento.
Altro
discorso è il rischio legato ad un eventuale incidente durante le trivellazioni
o durante la cosiddetta “coltivazione” del giacimento. Brutto termine e anche
fuorviante che fa pensare che un giacimento si possa coltivare come un campo di
zucchine.
Se si leggono
le specifiche tecniche relative agli impianti petroliferi offshore, vedi ad
esempio la piattaforma Vega situata a circa dodici miglia dalla costa al largo
di Pozzallo (http://www.edison.it/it/campo-petrolifero-vega-rg), ci si
rende subito conto che all’apparenza si tratta di una struttura perfetta,
progettata per resistere cito testualmente a “venti fino a 180 Km/h, onde marine di 18 metri e terremoti
fino al nono grado della scala Mercalli.”. Do per scontato che quello che
dicono le compagnie petrolifere sia vero ma ipotizziamo il caso di un
incidente. Un incidente è per sua stessa definizione un “accadimento inatteso
che procura un danno”. Ipotizziamo allora
che quello che è successo nel Golfo del Messico nel 2010 anche se in misura
molto ridotta possa succedere nel Canale di Sicilia. Questa
è la cronistoria dell’incidente. La Deepwater Horizon era una piattaforma
petrolifera che estraeva circa 9000 barili di petrolio al giorno. Era grande quanto 2 campi di calcio e si trovava a circa 80 km al
largo della Louisiana, nel Golfo del Messico. La storia ci dice però che questo gigante ipertecnologico si è
trasformato in poche ore in un gigante dai piedi di argilla. Lo sversamento di
petrolio è iniziato il 20 aprile 2010 ed è terminato dopo più di tre mesi, il
4 agosto 2010, con milioni di
barili di petrolio sversati sulle acque
di fronte la Louisiana, Mississippi, Alabama e Florida. La
causa dell’incidente è stata un'esplosione sulla piattaforma che ha innescato un
violentissimo incendio; 11
persone sono morte all'istante, incenerite dalle fiamme, e altri 17 lavoratori
sono rimasti feriti. In seguito all'incendio la flotta della BP ha tentato invano di spegnere le
fiamme e di recuperare i superstiti. Due giorni dopo la piattaforma Deepwater
Horizon si è rovesciata ed è
affondata depositandosi sul fondale profondo 400 metri. Le valvole
di sicurezza presenti
all'imboccatura del pozzo non hanno funzionato e il petrolio
greggio, spinto dalla pressione del giacimento, ha iniziato a fuoriuscire
senza controllo. Sono stati impiegati 7 milioni di litri di solventi per
disperdere la frazione del petrolio galleggiante anche se la maggior parte, la frazione più densa si è depositata sul fondale marino formando strati di petrolio destinato a solidificarsi. Un
terzo delle acque degli stati che si affacciano sul Golfo del Messico sono
state chiuse, la pesca ha subito notevoli danni e il turismo ha registrato la
chiusura del 20% delle spiagge. A distanza di cinque anni dall’incidente, un
rapporto pubblicato sul sito della Woods Hole Oceanografic Institution (http://www.whoi.edu/oceanus/feature/where-did-deepwater-horizon-oil-go), mostra che la frazione più densa ha
formato un deposito di circa 1250 miglia quadrate attorno al pozzo e che la
frazione oleosa con la stessa densità dell’acqua ha formato una miscela che
fluttua ad una profondità intermedia spinta dalle correnti (vedi figura).
Torniamo
allora al canale di Sicilia la domanda che sorge spontanea è: se dovesse
accadere un incidente del genere, anche se di portata minore, immaginiamo anche
un solo centesimo di quello che è successo nel Golfo del Messico, quali
sarebbero i danni? Chi dovrebbe pagare?
E soprattutto gli interventi sarebbero risolutivi? La risposta ad un quesito
del genere non c’è, perché nessuno si è mai preso la briga di valutare quali
sarebbero i danni all’ecosistema marino, alle coste alla pesca e al turismo in
caso di un incidente analogo. E allora
mi chiedo se il gioco vale la candela, la quantità di petrolio che viene
attualmente pompata dai pozzi petroliferi offshore rappresenta soltanto l’1.3 %
del fabbisogno nazionale (dati 2014); credo che sia una quantità talmente bassa
rispetto al rischio di un eventuale incidente e ai relativi enormi costi che ci
vedremmo costretti a pagare da decidere una seria svolta rispetto all’ attuale
programmazione energetica nazionale.