di Centri sociali -Emilia Romagna
C’è speranza per chi lotta per un radicale cambiamento del presente? Dove
trovare spunti per la costruzione di un’alternativa su scala europea? Abbiamo
visto le lotte migranti intrecciarsi alla solidarietà dal basso sviluppatasi in
Europa nell’ultimo anno e le manifestazioni contro il TTIP e il Climate Change
che sono state in grado di portare in strada migliaia di persone nelle
principali città europee. E in Italia? Siamo davvero l’anomalia negativa del
panorama continentale? Quali linee di azione comune possiamo provare a
tracciare nel quadro generale della situazione europea?
Ci eravamo lasciati così…
Da un po’ di tempo
abbiamo definito l’Europa come uno dei campi d’intervento strategici e
fondamentali di questa fase, intesa innanzitutto come spazio di rapporti di
potere (politiche ed economiche). All’interno di questa maglia di poteri,
l’Unione Europea costituisce sicuramente un dispositivo istituzionale che ha
contribuito a ridefinire radicalmente la costituzione formale e materiale di
molti stati membri, sebbene non esaurisca la complessità di attori e forze in
campo. Abbiamo anche insistito sul fatto
che lo spazio europeo sia tutt’altro che piatto (assenza di conflitti) o
omogeneo (con caratteristiche uniformi e indipendenti dal contesto). Di più, abbiamo
definita la UE un operatore differenziale, un dispositivo che al di là del
formalismo giuridico produce differenze al suo interno e al suo esterno.
Pensiamo all’affaire greco e alla cosiddetta emergenza
migranti. In entrambi i casi abbiamo assistito a una polarizzazione tra
virtuosi e ribelli, cittadini di serie A (quelli che rispettano le regole, che
pagano i debiti, che hanno diritti) e di serie B (quelli che sono causa del
proprio male, irresponsabili, che non hanno diritti perché marchiati da qualche
colpa come l’essere nati fuori dall’Europa o aver ereditato un debito fatto da
altri). La produzione di differenze all’interno dello spazio europeo ha
determinato una serie di linee di conflittualità, fra stati membri e UE, ma
anche fra movimenti anti-austerity e politiche di bilancio recessive (pensiamo
a Blockupy).
Il braccio di ferro tra il governo Tsipras e la ex Troika ha avuto il
merito di mettere a nudo le relazioni di potere all’interno della UE e, allo
stesso tempo, di tracciare una traiettoria politica alternativa a quella
imposta dai sacerdoti dell’austerità: la democrazia delle moltitudini, che
aveva preso corpo nell’OXI referendario, contro la dittatura della finanza e la
povertà. Purtroppo l’esito dei negoziati non ha giocato a favore di chi invece
sperava che da lì si potesse aprire finalmente un processo di rottura politica
e democratizzazione dello spazio europeo. La firma del memorandum dell’11
luglio ha avuto l’effetto indiretto di provocare smarrimento in buona parte
della sinistra europea, finita strangolata fra la retorica del tradimento e il
ritorno di pulsioni nazionaliste. Due
cose a questo punto vanno dette. La prima è che la fase della lotta
anti-austerity, per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi cinque anni, è
superata; la seconda è che è necessario rielaborare una lettura strategica del
campo europeo al di là delle passioni tristi del disfattismo ideologico o delle
paludose acque del sovranismo. Anche perché, nel frattempo, altri eventi hanno
scosso le fondamenta dello spazio europeo.
Un progetto in frantumi
Ci sono due eventi – nel senso di
accadimenti che aprono nuovi orizzonti di senso – che vanno presi in considerazione
per comprendere la centralità dello spazio europeo e le trasformazioni che lo
stanno attraversando. Il primo è la straordinaria marcia della dignità che
donne e uomini, bambini ed anziani, migranti stanno conducendo attraverso i
confini dell’UE. Il secondo invece è la tragica serie di attentati che hanno
colpito Parigi lo scorso 13 novembre. Da mesi ormai
un flusso continuo di corpi e speranze sta mandando in frantumi le frontiere
fisiche e legali della cittadinanza europea. Il conflitto siriano, l’avanzata
di Daesh in Medio Oriente e del fondamentalismo islamico in Africa
subsahariana, il blocco parziale di altre rotte migratorie, hanno determinato
una spinta inarrestabile e senza precedenti sul lato est dell’UE. I vecchi
confini e le normative europee sull’accoglienza si sono rivelate di fatto
inadeguate rispetto ad un fenomeno di tale forza. Sebbene formalmente rimanga
ancora in piedi la vecchia legislazione del Dublino II, molti stati si sono
trovati costretti ad aprire temporaneamente i propri confini, pena
l’ingovernabilità dei flussi e dei territori. Allo stesso tempo molti cittadini
europei si sono mobilitati in soccorso dei migranti, sfidando leggi e distanze
fisiche per praticare una vera solidarietà dal basso e internazionale. Una
spinta che purtroppo era mancata nella vicenda greca. La marcia dei migranti
dunque ha avuto i connotati di una vera e propria forza costituente e
moltitudinaria che coi fatti parlava di democrazia, diritti, dignità,
uguaglianza. Di fronte a questo fenomeno i diversi paesi-guida dell’UE hanno
reagito in maniera scomposta e contraddittoria, aprendo le frontiere ma, allo
stesso tempo, rielaborando una strategia di accoglienza basata su hotspot e respingimenti che non fa altro che
esternalizzare sempre di più i confini. Mentre uomini e donne attraversavano i
Balcani per raggiungere la Germania e i paesi scandinavi, nuove barriere
venivano alzate all’interno dell’Europa. La validità stessa di Schengen è stata
messa in questione laddove la presunta tolleranza verso i “clandestini” (e non
le politiche di austerità) veniva indicata come la causa della difficile
situazione economico-sociale in cui versano molti paesi europei. La pretesa
Unione fra stati si è rivelata impraticabile di fronte al rifiuto di alcuni di
accettare una ripartizione condivisa dei migranti in arrivo, mentre altri
elaboravano strategie di respingimento demandando agli stati periferici la
gestione dei flussi in cambio di aiuti economici. Oltre ai migranti, un altro
attore si è (ri)presentato sulla scena europea, il fondamentalismo islamico.
Nuovamente la Francia e nuovamente Parigi, la stessa città che invece dieci
anni fa palpitava per le rivolte delle banlieu quando
una generazione perduta si riappropriava della ricchezza da cui era stata
sempre esclusa. Stavolta però il governo di Hollande non ha fatto appello
all’eredità culturale della Republique, al suo
spirito laico e universale – come era accaduto a gennaio; stavolta ha prevalso
la paura, il che vuol dire stato d’emergenza, restrizione delle libertà,
chiusura delle frontiere, guerra e bombe. La Francia ha agito da sola,
ricercando la collaborazione degli altri stati della UE solo successivamente,
come elemento secondario. Senza alcun piano comune o strategia condivisa,
ovunque però si è affermata una retorica securitaria ed emergenziale in nome
della quale svuotare ulteriormente i momenti di decisionalità democratica a
favore del potere tecnico-esecutivo. In nome di una presunta civiltà da salvare
contro il nemico esterno. Resta una domanda, come sia possibile che segmenti di
società europea siano attratti dal fondamentalismo religioso. Intanto i governi
si apprestano a violare il pareggio di bilancio per finanziare le spese per la
difesa – l’austerity dunque non era un dogma così inviolabile. Due eventi distinti e radicalmente
differenti dunque, che condividono però la portata sovra-nazionale delle
proprie cause e dei propri effetti. Non c’è soluzione alle spinte migratorie se
non su scala europea così come gli attentati di Parigi riscrivono i confini
della democrazia su tutto il continente. In entrambi i casi l’UE si è rivelata
incapace di essere all’altezza delle sfide che si sono presentate, spaccandosi
in una serie di interessi particolari regolati alla fine dalla legge del più
forte. Quello che è andato in frantumi è il progetto europeo, quello di uno
spazio di libertà, pace e diritti universali. Le politiche di austerità e
l’autoritarismo del potere esecutivo stanno restringendo sempre di più gli
spazi di condivisione della ricchezza e di decisione collettiva. Tutto ciò
finisce per alimentare le nuove destre, nell’illusione che una maggiore
sovranità statuale e un’identità nazionale possano salvarci in un mondo che
ormai è globalizzato (nei flussi di merci, idee e forza-lavoro) e sottoposto ai
ricatti del capitale finanziario.
Poli opposti
Non c’è dunque speranza per chi lotta
per un radicale cambiamento del presente? Dove trovare spunti per la
costruzione di un’alternativa su scala europea?
Se da una parte dobbiamo registrare la progressiva normalizzazione
dell’austerità – nel senso di farsi regola di vita ormai pienamente integrata
nella quotidianità della prassi sociale – dall’altra su scala transnazionale
abbiamo visto il crescere di mobilitazioni che pongono in questione le
politiche liberali. Come appena detto, abbiamo visto le lotte migranti
intrecciarsi alla solidarietà dal basso sviluppatasi in Europa nell’ultimo
anno; ma dobbiamo anche menzionare le manifestazioni contro il TTIP e il
Climate Change che sono state in grado di portare in strada migliaia di persone
nelle principali città europee.
Dal punto di vista istituzionale invece altri paesi, come la Spagna e il
Portogallo, hanno seguito la linea tracciata dalla Grecia, ossia quella di un
voto che ha messo in crisi i partiti tradizionali (popolari e socialisti) in
favore di formazioni nuove con un programma europeista e anti-austerity.
Soprattutto la Spagna continua ad essere un laboratorio politico innovativo ed
effervescente. In poco tempo Podemos è riuscito a diventare la terza forza
politica del paese, poco distante dal PSOE. L’esito delle elezioni del 20
dicembre manda in crisi il sistema dell’alternanza e promuove il partito di
Iglesias grazie ad una campagna elettorale improntata ad una comunicazione
semplice, accattivante e fiduciosa e grazie al radicamento territoriale di
esperienze municipaliste che hanno saputo intrecciare movimenti sociali e
governo della città. Proprio dalle città – Barcellona su tutte – è partita
la remontada viola, segno che una politica di
sinistra diversa ed attuale è possibile laddove si sappia includere e
verticalizzare quelle esperienze di resistenza ed auto-governo che praticano
fin da subito l’alternativa alle politiche neo-liberali.
E in Italia? Purtroppo il nostro paese resta l’anomalia negativa del
panorama europeo. Mobilitazioni come quelle attorno al TTIP sono praticamente
inesistenti, mentre il conflitto capitale-vita resta legato a vertenze
territoriali che, seppur radicali e talvolta vincenti, non riescono a innescare
processi di generalizzazione su larga scala. L’ impasse a
cui pare condannata la Coalizione Sociale è più il frutto dell’incapacità di
vecchie strutture di innovarsi al di là di schemi consolidati ma ormai
inadeguati piuttosto che il risultato di un campo di battaglia pacificato. La
forbice sociale si allarga sempre di più, la ricchezza si concentra in una
fetta risicatissima di popolazione mentre sempre maggiori strati sociali sono
condannati alla povertà. La lotta per la casa è una drammatica testimonianza di
questa situazione. Eppure scintille di innovazione politica sono presenti anche
da noi. Potremmo evidenziarne due. Le prime sono le esperienze di accoglienza
degna e dal basso che un po’ ovunque sono fiorite in Italia. Si tratta di
progetti di cooperazione ed inclusione sociale opposti al business delle
migrazioni messo su da cooperative e organi istituzionali. Le seconde invece
sono le sperimentazioni di neo-municipalismo che stanno sorgendo in alcune
città italiane. In uno schema piramidale che va dall’alto al basso, dall’Europa
ai comuni, è proprio sui territori che si stanno scaricando i maggiori effetti
delle politiche di austerità; è qui che il Partito Democratico rivela tutta la
sua impossibilità gestionale nel tenere assieme tagli e welfare, pareggio di
bilancio e diritti. Questo scollamento fra tessuto sociale e rappresentanza ha
aperto la strada alla sperimentazione di coalizioni civiche dal basso che
mettano assieme chi invece ogni giorno la crisi la affronta e la combatte, con
l’obiettivo di riprendere in mano il governo della città.
A livelli diversi ma in maniera diffusa,
queste diverse esperienze dello spazio europeo condividono la necessità di
riappropriarsi di spazi istituzionali per attuare e rafforzare contropotere e
aprire spazi di negoziazione, con la consapevolezza che certe partite non si
vincono se non c’è anche e soprattutto una spinta sociale al cambiamento. La
sfida delle coalizioni è appunto questa, ibridare l’orizzontalità delle lotte
con la verticalità dell’organizzazione e della irruzione sulla scena elettorale
per riconquistare spazi di democrazia.
Costruire un nuovo universalismo
Quali linee di azione comune possiamo
provare a tracciare da questo breve quadro generale della situazione europea?
Non è semplice orientarsi in questa Europa in frantumi, ma tre suggerimenti
proviamo a darli.
Prima
di tutto dobbiamo fare i conti con il processo di normalizzazione
dell’austerity e con la contemporanea insorgenza di conflitti che sono diversi
ma collegati al primo. La lotta contro l’ordoliberalismo va intrecciata con altre
lotte, quelle per la democrazia, la cittadinanza, il clima, il lavoro. Bisogna
provare a immaginare un nuovo universalismo, fatto di valori e pratiche comuni
da opporre alla politica dei livelli differenziali messa in campo dall’UE. Come secondo punto
occorre ribadire che la scommessa delle coalizioni è tutt’altro che superata.
Una carta di obiettivi comuni per la nuova Europa non può essere scritta in
maniera astratta e generica. L’universalità può essere solo il prodotto di un
movimento abduttivo che crei generalizzazione politica a partire da una serie
di esperienze concrete e particolari. Bisogna invertire i processi di
frammentazione sociale, l’individualismo e le passioni tristi, che sono i
peggiori nemici della moltitudine desiderante e delle sue potenzialità. Per
fare ciò occorre intrecciare quelle esperienze e quei soggetti che qui e ora
già praticano l’alternativa al capitalismo, a partire dai territori. Terzo
e ultimo elemento è la proiezione immediatamente europea da dare alle singole
esperienze di contropotere e coalizione. Anche se al momento sembra difficile
individuare un piano immediatamente generale di mobilitazione europea occorre
riunire e far dialogare i diversi focolai di alternativa all’interno di una
narrazione comune che parli di lotta alla povertà e redistribuzione della
ricchezza, di nuovo welfare e cooperazione sociale, di sviluppo sostenibile a
livello sociale e ambientale, di nuova cittadinanza, di democrazia e diritti.
Se l’Europa liberale implode sotto i colpi delle sue stesse politiche
recessive e competitive, una nuova Europa può avere inizio, un’Europa costruita
dal basso da donne e uomini liberi, un’Europa in Comune.