lunedì 22 febbraio 2016

Il “Sintomo” Sanders. Intervista a Michael Hardt

di Marco Assennato -

Dopo il movimento Occupy s’è radicato un desiderio di azione contro la disuguaglianza, contro le politiche finanziarie, che produce una richiesta oggettiva di misure politiche radicalmente alternative Potremmo definire il fenomeno Sanders da un lato come un sintomo e dall’altro come uno strumento. La sua candidatura ha fatto saltare per aria i calcoli dei partiti, in particolare dei Democratici e sta forzando la Clinton ad aprirsi a sinistra

venerdì 12 febbraio 2016

L’Europa in Comune

di Centri sociali -Emilia Romagna

C’è speranza per chi lotta per un radicale cambiamento del presente? Dove trovare spunti per la costruzione di un’alternativa su scala europea? Abbiamo visto le lotte migranti intrecciarsi alla solidarietà dal basso sviluppatasi in Europa nell’ultimo anno e le manifestazioni contro il TTIP e il Climate Change che sono state in grado di portare in strada migliaia di persone nelle principali città europee. E in Italia? Siamo davvero l’anomalia negativa del panorama continentale? Quali linee di azione comune possiamo provare a tracciare nel quadro generale della situazione europea?
                                               
Ci eravamo lasciati così…                                                                                                      Da un po’ di tempo abbiamo definito l’Europa come uno dei campi d’intervento strategici e fondamentali di questa fase, intesa innanzitutto come spazio di rapporti di potere (politiche ed economiche). All’interno di questa maglia di poteri, l’Unione Europea costituisce sicuramente un dispositivo istituzionale che ha contribuito a ridefinire radicalmente la costituzione formale e materiale di molti stati membri, sebbene non esaurisca la complessità di attori e forze in campo.  Abbiamo anche insistito sul fatto che lo spazio europeo sia tutt’altro che piatto (assenza di conflitti) o omogeneo (con caratteristiche uniformi e indipendenti dal contesto). Di più, abbiamo definita la UE un operatore differenziale, un dispositivo che al di là del formalismo giuridico produce differenze al suo interno e al suo esterno. Pensiamo all’affaire greco e alla cosiddetta emergenza migranti. In entrambi i casi abbiamo assistito a una polarizzazione tra virtuosi e ribelli, cittadini di serie A (quelli che rispettano le regole, che pagano i debiti, che hanno diritti) e di serie B (quelli che sono causa del proprio male, irresponsabili, che non hanno diritti perché marchiati da qualche colpa come l’essere nati fuori dall’Europa o aver ereditato un debito fatto da altri). La produzione di differenze all’interno dello spazio europeo ha determinato una serie di linee di conflittualità, fra stati membri e UE, ma anche fra movimenti anti-austerity e politiche di bilancio recessive (pensiamo a Blockupy).                                                                                                          Il braccio di ferro tra il governo Tsipras e la ex Troika ha avuto il merito di mettere a nudo le relazioni di potere all’interno della UE e, allo stesso tempo, di tracciare una traiettoria politica alternativa a quella imposta dai sacerdoti dell’austerità: la democrazia delle moltitudini, che aveva preso corpo nell’OXI referendario, contro la dittatura della finanza e la povertà. Purtroppo l’esito dei negoziati non ha giocato a favore di chi invece sperava che da lì si potesse aprire finalmente un processo di rottura politica e democratizzazione dello spazio europeo. La firma del memorandum dell’11 luglio ha avuto l’effetto indiretto di provocare smarrimento in buona parte della sinistra europea, finita strangolata fra la retorica del tradimento e il ritorno di pulsioni nazionaliste. Due cose a questo punto vanno dette. La prima è che la fase della lotta anti-austerity, per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi cinque anni, è superata; la seconda è che è necessario rielaborare una lettura strategica del campo europeo al di là delle passioni tristi del disfattismo ideologico o delle paludose acque del sovranismo. Anche perché, nel frattempo, altri eventi hanno scosso le fondamenta dello spazio europeo.
Un progetto in frantumi
Ci sono due eventi – nel senso di accadimenti che aprono nuovi orizzonti di senso – che vanno presi in considerazione per comprendere la centralità dello spazio europeo e le trasformazioni che lo stanno attraversando. Il primo è la straordinaria marcia della dignità che donne e uomini, bambini ed anziani, migranti stanno conducendo attraverso i confini dell’UE. Il secondo invece è la tragica serie di attentati che hanno colpito Parigi lo scorso 13 novembre.                                                                                                                Da mesi ormai un flusso continuo di corpi e speranze sta mandando in frantumi le frontiere fisiche e legali della cittadinanza europea. Il conflitto siriano, l’avanzata di Daesh in Medio Oriente e del fondamentalismo islamico in Africa subsahariana, il blocco parziale di altre rotte migratorie, hanno determinato una spinta inarrestabile e senza precedenti sul lato est dell’UE. I vecchi confini e le normative europee sull’accoglienza si sono rivelate di fatto inadeguate rispetto ad un fenomeno di tale forza. Sebbene formalmente rimanga ancora in piedi la vecchia legislazione del Dublino II, molti stati si sono trovati costretti ad aprire temporaneamente i propri confini, pena l’ingovernabilità dei flussi e dei territori. Allo stesso tempo molti cittadini europei si sono mobilitati in soccorso dei migranti, sfidando leggi e distanze fisiche per praticare una vera solidarietà dal basso e internazionale. Una spinta che purtroppo era mancata nella vicenda greca. La marcia dei migranti dunque ha avuto i connotati di una vera e propria forza costituente e moltitudinaria che coi fatti parlava di democrazia, diritti, dignità, uguaglianza. Di fronte a questo fenomeno i diversi paesi-guida dell’UE hanno reagito in maniera scomposta e contraddittoria, aprendo le frontiere ma, allo stesso tempo, rielaborando una strategia di accoglienza basata su hotspot e respingimenti che non fa altro che esternalizzare sempre di più i confini. Mentre uomini e donne attraversavano i Balcani per raggiungere la Germania e i paesi scandinavi, nuove barriere venivano alzate all’interno dell’Europa. La validità stessa di Schengen è stata messa in questione laddove la presunta tolleranza verso i “clandestini” (e non le politiche di austerità) veniva indicata come la causa della difficile situazione economico-sociale in cui versano molti paesi europei. La pretesa Unione fra stati si è rivelata impraticabile di fronte al rifiuto di alcuni di accettare una ripartizione condivisa dei migranti in arrivo, mentre altri elaboravano strategie di respingimento demandando agli stati periferici la gestione dei flussi in cambio di aiuti economici.                                                    Oltre ai migranti, un altro attore si è (ri)presentato sulla scena europea, il fondamentalismo islamico. Nuovamente la Francia e nuovamente Parigi, la stessa città che invece dieci anni fa palpitava per le rivolte delle banlieu quando una generazione perduta si riappropriava della ricchezza da cui era stata sempre esclusa. Stavolta però il governo di Hollande non ha fatto appello all’eredità culturale della Republique, al suo spirito laico e universale – come era accaduto a gennaio; stavolta ha prevalso la paura, il che vuol dire stato d’emergenza, restrizione delle libertà, chiusura delle frontiere, guerra e bombe. La Francia ha agito da sola, ricercando la collaborazione degli altri stati della UE solo successivamente, come elemento secondario. Senza alcun piano comune o strategia condivisa, ovunque però si è affermata una retorica securitaria ed emergenziale in nome della quale svuotare ulteriormente i momenti di decisionalità democratica a favore del potere tecnico-esecutivo. In nome di una presunta civiltà da salvare contro il nemico esterno. Resta una domanda, come sia possibile che segmenti di società europea siano attratti dal fondamentalismo religioso. Intanto i governi si apprestano a violare il pareggio di bilancio per finanziare le spese per la difesa – l’austerity dunque non era un dogma così inviolabile.            Due eventi distinti e radicalmente differenti dunque, che condividono però la portata sovra-nazionale delle proprie cause e dei propri effetti. Non c’è soluzione alle spinte migratorie se non su scala europea così come gli attentati di Parigi riscrivono i confini della democrazia su tutto il continente. In entrambi i casi l’UE si è rivelata incapace di essere all’altezza delle sfide che si sono presentate, spaccandosi in una serie di interessi particolari regolati alla fine dalla legge del più forte. Quello che è andato in frantumi è il progetto europeo, quello di uno spazio di libertà, pace e diritti universali. Le politiche di austerità e l’autoritarismo del potere esecutivo stanno restringendo sempre di più gli spazi di condivisione della ricchezza e di decisione collettiva. Tutto ciò finisce per alimentare le nuove destre, nell’illusione che una maggiore sovranità statuale e un’identità nazionale possano salvarci in un mondo che ormai è globalizzato (nei flussi di merci, idee e forza-lavoro) e sottoposto ai ricatti del capitale finanziario.
Poli opposti
Non c’è dunque speranza per chi lotta per un radicale cambiamento del presente? Dove trovare spunti per la costruzione di un’alternativa su scala europea?                                                     Se da una parte dobbiamo registrare la progressiva normalizzazione dell’austerità – nel senso di farsi regola di vita ormai pienamente integrata nella quotidianità della prassi sociale – dall’altra su scala transnazionale abbiamo visto il crescere di mobilitazioni che pongono in questione le politiche liberali. Come appena detto, abbiamo visto le lotte migranti intrecciarsi alla solidarietà dal basso sviluppatasi in Europa nell’ultimo anno; ma dobbiamo anche menzionare le manifestazioni contro il TTIP e il Climate Change che sono state in grado di portare in strada migliaia di persone nelle principali città europee.
Dal punto di vista istituzionale invece altri paesi, come la Spagna e il Portogallo, hanno seguito la linea tracciata dalla Grecia, ossia quella di un voto che ha messo in crisi i partiti tradizionali (popolari e socialisti) in favore di formazioni nuove con un programma europeista e anti-austerity. Soprattutto la Spagna continua ad essere un laboratorio politico innovativo ed effervescente. In poco tempo Podemos è riuscito a diventare la terza forza politica del paese, poco distante dal PSOE. L’esito delle elezioni del 20 dicembre manda in crisi il sistema dell’alternanza e promuove il partito di Iglesias grazie ad una campagna elettorale improntata ad una comunicazione semplice, accattivante e fiduciosa e grazie al radicamento territoriale di esperienze municipaliste che hanno saputo intrecciare movimenti sociali e governo della città. Proprio dalle città – Barcellona su tutte – è partita la remontada viola, segno che una politica di sinistra diversa ed attuale è possibile laddove si sappia includere e verticalizzare quelle esperienze di resistenza ed auto-governo che praticano fin da subito l’alternativa alle politiche neo-liberali.
E in Italia? Purtroppo il nostro paese resta l’anomalia negativa del panorama europeo. Mobilitazioni come quelle attorno al TTIP sono praticamente inesistenti, mentre il conflitto capitale-vita resta legato a vertenze territoriali che, seppur radicali e talvolta vincenti, non riescono a innescare processi di generalizzazione su larga scala. L’ impasse a cui pare condannata la Coalizione Sociale è più il frutto dell’incapacità di vecchie strutture di innovarsi al di là di schemi consolidati ma ormai inadeguati piuttosto che il risultato di un campo di battaglia pacificato. La forbice sociale si allarga sempre di più, la ricchezza si concentra in una fetta risicatissima di popolazione mentre sempre maggiori strati sociali sono condannati alla povertà. La lotta per la casa è una drammatica testimonianza di questa situazione. Eppure scintille di innovazione politica sono presenti anche da noi. Potremmo evidenziarne due. Le prime sono le esperienze di accoglienza degna e dal basso che un po’ ovunque sono fiorite in Italia. Si tratta di progetti di cooperazione ed inclusione sociale opposti al business delle migrazioni messo su da cooperative e organi istituzionali. Le seconde invece sono le sperimentazioni di neo-municipalismo che stanno sorgendo in alcune città italiane. In uno schema piramidale che va dall’alto al basso, dall’Europa ai comuni, è proprio sui territori che si stanno scaricando i maggiori effetti delle politiche di austerità; è qui che il Partito Democratico rivela tutta la sua impossibilità gestionale nel tenere assieme tagli e welfare, pareggio di bilancio e diritti. Questo scollamento fra tessuto sociale e rappresentanza ha aperto la strada alla sperimentazione di coalizioni civiche dal basso che mettano assieme chi invece ogni giorno la crisi la affronta e la combatte, con l’obiettivo di riprendere in mano il governo della città.
A livelli diversi ma in maniera diffusa, queste diverse esperienze dello spazio europeo condividono la necessità di riappropriarsi di spazi istituzionali per attuare e rafforzare contropotere e aprire spazi di negoziazione, con la consapevolezza che certe partite non si vincono se non c’è anche e soprattutto una spinta sociale al cambiamento. La sfida delle coalizioni è appunto questa, ibridare l’orizzontalità delle lotte con la verticalità dell’organizzazione e della irruzione sulla scena elettorale per riconquistare spazi di democrazia.
Costruire un nuovo universalismo
Quali linee di azione comune possiamo provare a tracciare da questo breve quadro generale della situazione europea? Non è semplice orientarsi in questa Europa in frantumi, ma tre suggerimenti proviamo a darli.                                                                                Prima di tutto dobbiamo fare i conti con il processo di normalizzazione dell’austerity e con la contemporanea insorgenza di conflitti che sono diversi ma collegati al primo. La lotta contro l’ordoliberalismo va intrecciata con altre lotte, quelle per la democrazia, la cittadinanza, il clima, il lavoro. Bisogna provare a immaginare un nuovo universalismo, fatto di valori e pratiche comuni da opporre alla politica dei livelli differenziali messa in campo dall’UE. Come secondo punto occorre ribadire che la scommessa delle coalizioni è tutt’altro che superata. Una carta di obiettivi comuni per la nuova Europa non può essere scritta in maniera astratta e generica. L’universalità può essere solo il prodotto di un movimento abduttivo che crei generalizzazione politica a partire da una serie di esperienze concrete e particolari. Bisogna invertire i processi di frammentazione sociale, l’individualismo e le passioni tristi, che sono i peggiori nemici della moltitudine desiderante e delle sue potenzialità. Per fare ciò occorre intrecciare quelle esperienze e quei soggetti che qui e ora già praticano l’alternativa al capitalismo, a partire dai territori.                                                                            Terzo e ultimo elemento è la proiezione immediatamente europea da dare alle singole esperienze di contropotere e coalizione. Anche se al momento sembra difficile individuare un piano immediatamente generale di mobilitazione europea occorre riunire e far dialogare i diversi focolai di alternativa all’interno di una narrazione comune che parli di lotta alla povertà e redistribuzione della ricchezza, di nuovo welfare e cooperazione sociale, di sviluppo sostenibile a livello sociale e ambientale, di nuova cittadinanza, di democrazia e diritti.                                                         Se l’Europa liberale implode sotto i colpi delle sue stesse politiche recessive e competitive, una nuova Europa può avere inizio, un’Europa costruita dal basso da donne e uomini liberi, un’Europa in Comune.