domenica 22 novembre 2015

I futuri anteriori dell’informatica italiana. Omaggio a Luciano Gallino

di Francesco Pezzulli - 

Con questo articolo di Francesco Pezzulli ci associamo ad Effimera nell’omaggiare Luciano Gallino, uno dei padri del pensiero sociale critico italiano, professore emerito di Sociologia scomparso domenica scorsa a Torino, all’età di 88 anni. I suoi lavori sono stati, negli anni, a partire dagli esordi all’Olivetti di Ivrea, sempre fonte di stimolo e di ispirazione.

Il professor Gallino ha sperato nelle sorti dell’informatica italiana[1]. Ha ritenuto che questa sarebbe potuta diventare fondamentale per il miglioramento della qualità del lavoro e, con esso, della democrazia e dello sviluppo socioeconomico. A cavallo tra gli anni ’70 e ’80 il sociologo immagina tre futuri possibili: un futuro di soppressione di posti di lavoro impiegatizi, tecnici e operai, che la “delfica ambiguità” dell’informatica avrebbe reso superflui. Un secondo futuro in cui l’informatica avrebbe pervaso la vita dei suoi operatori e utenti. Vale la pena leggere un brano di questo secondo futuro, scritto nel 1983, che possiamo definire profetico:
«in questo futuro ciascuno, compreso chi fa i lavori domestici e gli studenti d’ogni età, lavora diuturnamente ad un microcomputer, sia esso, momento per momento della giornata, un personale, l’elaboratore di casa o un terminale intelligente inserito in una vasta rete di elaborazione distribuita, oppure collegato ad un lontano elaboratore di grande potenza»
Questo secondo futuro invece di ridurre il tempo di lavoro lo estende all’intera vita, cosi come moltiplica le modalità e tecniche di comando e di controllo. Lo stesso sociologo afferma che in questa visione “pessimistica” l’informatica può divenire «uno strumento implacabile di manipolazione e di controllo». Più avanti nel testo, grazie ad esempi significativi, viene sottolineato che si sta parlando di un’organizzazione del lavoro informatizzata, è vero, ma che ricalca le modalità e tecniche di estrazione del plusvalore assoluto della grande fabbrica operaia. E’ senza dubbio diverso il macchinario, ma il contenuto del lavoro ricorda da vicino la parcellizzazione, monotonia e ripetitività tipiche del taylorismo:
«Di conseguenza si tenderà a scomporre, ad esempio, un programma di 25.000 righe in una decina di subprogramma di 2.500 righe ciascuno; ciascun subprogramma in una decina di moduli di 250 righe ciascuno; e ciascun modulo in una decina di segmenti di 25 righe ciascuno (…) più i segmenti sono ridotti e facilmente comprensibili, maggiore è la possibilità di impiegare personale scarsamente qualificato, e maggiore altresì la possibilità di controllarne le prestazioni»
In questo secondo futuro l’informatica è riassorbita e funzionalizzata alle logiche di produzione classiche della grande industria fordista. Il programmatore, il tecnico e le altre figure professionali sono inquadrati alla stregua degli operai massa.
Ma c’è un terzo futuro possibile, nel 1983, secondo Gallino. Questa volta è un futuro in cui l’informatica non si sostituisce al lavoratore e neppure lo sottomette ai suoi tempi e procedure, ma ne sviluppa e prolunga le capacità cognitive ed operative: in questo futuro il lavoro recupera una misura umana, «perché l’informatica stessa ha preso come misura la persona». In questo futuro «l’ambiguità dell’informatica è risolta» e le ipotesi per cui la sua “natura” capitalistica produce forme di asservimento alle macchine, con inerente proletarizzazione dei lavoratori intellettuali come di quelli manuali, definite fuorvianti. Nel libro sono riportati numerosi segnali di questo futuro possibile, per la cui realizzazione hanno responsabilità non solo i capitani d’industria, ma anche gli operatori dell’informatica a diversi livelli.
Quando il Professor Gallino, trent’anni dopo, ritorna sul settore informatico nazionale, descrive a ragione il caso dell’Olivetti come emblematico della storia informatica nazionale[2]. La società di Adriano Olivetti ha realizzato il primo personal computer al mondo, rispetto ai concorrenti nazionali si è distinta per la propensione alla Ricerca e Innovazione e per una organizzazione e gestione della forza lavoro avanzate, un modello con il quale l’ingegner Adriano intendeva costruire la sua “comunità” industriale.

Deleuze e il «fortuito nel mondo»

di Francesco Raparelli - 

L’ultimo lavoro di Rocco Ronchi, Gilles Deleuze. Credere nel reale (ed. Feltrinelli), è «un capitolo di storia della filosofia contemporanea». Lo chiarisce l’autore nelle prime battute, lo affermiamo dopo aver letto con passione. Eppure non appare sbagliato parlare di una nuova ricerca sul materialismo. Della vita, della «materia intensa», del divenire. È questo il materialismo insolito di cui, da tempo, va alla ricerca Ronchi, occupandosi della pragmatica di Bachtin o leggendo il Sartre meno battuto (quello degli scritti giovanili), seguendo Brecht o Bergson. È questo il materialismo di Deleuze

Fare di Deleuze un materialista non è mai operazione facile. Ronchi, che dell’autore di Differenza e ripetizione segnala nel dettaglio le genealogie, conosce la difficoltà e non si sottrae. Anzi, tra i reagenti chimici utilizza l’attualismo gentiliano, e le difficoltà non possono che aumentare. Come pensare in termini materialistici facendo a meno della «negazione determinata»? Come, se il piano in cui ci si colloca è quello del reale o dell’«esperienza pura»? L’immanenza di una vita impersonale, «un puro evento liberato dagli accidenti della vita interiore ed esteriore», è uno scarto irriducibile nei confronti del materialismo o una sua rinnovata potenza?
Ronchi non ha dubbi, e neanche chi scrive, quello di Deleuze è un materialismo della potenza. Ma nel modo di intendere questa nozione, fondamentale per la filosofia tutta, si gioca la differenza che conta. Decisive le genealogie di Ronchi: la potenza-processo di Deleuze non è la capacità-latenza di Aristotele. In Deleuze prevale la rottura spinoziana del conatus, essenza (sempre) attuale, gradus singolare dell’infinita potenza produttiva di Dio (sive Natura). Pur trattandosi di una vera discontinuità, la nozione spinoziana di potenza è stata lungamente preparata. In alcuni passi decisivi Deleuze rintraccia le linee, Ronchi le ripercorre e le complica: sicuramente Plotino (che tanto segna anche Bergson), sicuramente Scoto e il suo «fattore contraente» (haecceitas), sicuramente Cusano e il suo possest. Solo Spinoza rompe ogni emanazione, dunque ogni gerarchia ontologica, e conquista «l’infinita uguaglianza dell’essere di ogni ente». Ma la traiettoria è chiara: pensare l’individuo a partire dall’individuazione, dal suo campo (comune); pensare il reale a partire dal suo divenire, prima della distinzione tra soggetto e oggetto. Il richiamo al Gentile dell’«atto in atto» va inteso come grimaldello ulteriore per afferrare l’evento («vapore nella prateria») di ogni accadimento.

venerdì 6 novembre 2015

"È ora di cambiare": dialogo con Juan Carlos Monedero

di Alioscia Castronovo/Giansandro Merli - 

 L’anima ribelle non vuole sostituire un potere ad un altro, ma superare l’idea stessa del potere: per questo si basa sull’orizzontalismo, sul dibattito, vuole cambiare le regole del gioco. È il principio su cui si sono basati i social forum mondiali, di quel “mondo in cui possano stare tanti mondi” in alternativa al modello dell’Internazionale socialista. L’anima ribelle ha però un problema, lo stesso che hanno le onde nel mare: esistono solamente grazie alla forza del vento… Alla ribellione è sempre mancata una certa dimensione istituzionale  capace di consentirle la stabilizzazione delle conquiste”. Il leninismo amabile, le strategie contro l'austerità, le elezioni spagnole e lo spazio europeo: intervista a Monedero, co-fondatore di Podemos e docente della Universidad Complutense di Madrid.
Hai parlato spesso di tre anime “storiche” della sinistra che nel corso del secolo scorso sono state separate, hai affermato l'urgenza di riconnetterle. Quali sono queste tre anime? Potresti approfondire questa riflessione definendo le strategie possibili per una rottura dell’egemonia neoliberale?
La storia è densa di conflitti contro la diseguaglianza, le risposte di fronte al potere emergono già nella Bibbia. Se le forme della protesta sono sempre state diversificate, notiamo come a partire dal diciannovesimo secolo il socialismo le abbia in buona parte unificate. Il socialismo si è espresso innanzitutto in forma rivoluzionaria, con la costruzione di un contropotere rispetto al potere capitalista esistente; alcune conquiste ottenute hanno poi reso tale risposta sempre più moderata e graduale, in particolare mi riferisco alla sua forma parlamentare. Da qui nasce la proposta riformista, espressa soprattutto dalla socialdemocrazia tedesca all’inizio del ventesimo secolo. Ma è sempre esistito un terzo ambito di discussione nei movimenti di protesta, che non riguardava il contro-potere ma l’anti-potere, che è l'anima ribelle. Se guardiamo alle proposte sull’emancipazione sociale nel ventesimo secolo, possiamo notare un progressivo divorzio tra riformismo e rivoluzione, che avviene nel parlamento tedesco con il voto in favore dei fondi di guerra nel 1914, quando Rosa Luxemburg ricorda che le differenze importanti sono quelle tra padroni ed operai, e non quelle tra operai tedeschi e operai francesi. Ma alla fine proletari francesi e tedeschi si ammazzarono l’un l’altro in guerra. Ciò dimostra come tale proposta non aveva ancora raggiunto la giusta maturità in Europa. Lo scontro tra riforma e rivoluzione che si congela nella diatriba tra Est e Ovest per molti decenni è stato un problema drammatico. Il riformismo si è convertito in una mera gestione dell’esistente nel sistema capitalista, rinunciando a pensare la trasformazione (un evento per comprendere tale passaggio è il Congresso della SPD nel 1959, quando la formazione socialdemocratica rinuncia al marxismo e dunque all’ideale del superamento del sistema capitalista).
La rivoluzione, nei paesi dell’est e in alcuni altri paesi del mondo, ha di fronte altri problemi e rinuncia alla dimensione democratica ed elettorale. La proposta rivoluzionaria viene pensata nella forma di un programma massimalista che non può cedere su nulla, in cui il fine giustifica i mezzi, arrivando fino ad annullare la democrazia interna. Riforma e rivoluzione si trovano di fronte allo stesso nodo problematico: il riformismo non ha fiducia nella gente e tratta il popolo come un infante (dal latino in-fans, colui che non parla). L’adulto (il riformista) deve pensare al popolo (l’infante) che deve così solamente accontentarsi dei benefici derivanti da tali politiche: così il popolo diventa come quelle volpi che si abituano a ricevere il cibo dai turisti, e perdono la capacità di andare a caccia.
Nemmeno la proposta rivoluzionaria ha avuto fiducia nel popolo: dato che solo l’avanguardia era capace di comprendere ciò che non era considerato accessibile al popolo, hanno finito per costruire muri, gulag e bloccare ogni processo democratico e libero. Entrambe le opzioni hanno avuto le loro ragioni: l’opzione rivoluzionaria si è trovata di fronte al blocco capitalista che ha fatto di tutto per impedirne il dispiegamento, e il riformismo ha effettivamente ha migliorato le condizioni di vita dei lavoratori. Ma il divorzio tra queste due opzioni le ha condannate entrambe ad essere incapaci di avanzare sul terreno dell’emancipazione sociale. Entrambe queste due anime hanno poi abbandonato la terza anima, quella ribelle: è quella incarnata da Bakunin rispetto a Marx, Rosa Luxemburg rispetto a Lenin, Trotzki rispetto a Stalin, è quella dei movimenti libertari rispetto ai movimenti comunisti, quella del 15M rispetto ai partiti politici spagnoli, quella degli zapatisti.
L’anima ribelle non vuole sostituire un potere ad un altro, ma superare l’idea stessa del potere: per questo si basa sull’orizzontalismo, sul dibattito, vuole cambiare le regole del gioco. È il principio su cui si sono basati i social forum mondiali, di quel “mondo in cui possano stare tanti mondi” in alternativa al modello dell’Internazionale socialista. L’anima ribelle ha però un problema, lo stesso che hanno le onde nel mare: esistono solamente grazie alla forza del vento. Hirschman, nel libro Felicità privata e felicità pubblica (pubblicato in Italia per la prima volta dal Mulino nel 1983), si è interrogato su questo tema, riflettendo sull'ondata di riflusso nel privato seguita ai movimenti del ’68. Egli sostiene che le rivoluzioni finiscono per naufragare, che dopo aver dedicato tante energie al processo di lotta si finisce per “tornare a casa”, come avvenuto dopo il maggio del ’68, o in occasione di altri cicli collettivi di lotta, non ultimo nel 15M. Alla ribellione è sempre mancata una certa dimensione istituzionalecapace di consentirle la stabilizzazione delle conquiste.
Penso che mettere l’una contro l’altra queste tre anime della sinistra sia un errore. Dobbiamo pensare a come rimetterle assieme: ogni processo è composto da momenti rivoluzionari, momenti riformisti e momenti di ribellione, all'interno di una realtà sociale che presenta una dimensione reticolare, in cui si compongono tutti e tre questi momenti, che sono congiunturali, situati, non definitivamente strutturati. In questo periodo storico abbiamo bisogno di ridare forza alla dimensione della ribellione, perché le altre due opzioni hanno poco da darci oggi. In una società della conoscenza, informatizzata, reticolare, le strutture verticali non funzionano, così come il paternalismo. Dobbiamo imparare da queste tre anime, ma dare priorità alla ribellione, che rappresenta la capacità di riappropriarsi collettivamente della politica, definendo così in comune gli obiettivi da perseguire. Dobbiamo essere coscienti di trovarci in una fase deliberante, per dirla con Gramsci quella fase in cui il nuovo mondo non è ancora nato e il vecchio mondo non è ancora tramontato. Nei momenti di crisi, la soluzione è aprire dibattiti e dare forza alla dimensione deliberante, ma senza abbandonare le strutture che ci permettono di andare avanti nella lotta contro il potere costituito: non è uno scherzo, ma è un ossimoro quello che sto per dire, in questi tempi di incertezza e crisi occorre saper essere “leninisti amabili”. Abbiamo bisogno di strutture che affrontino l’incertezza senza essere avanguardie, per convincere tutti i cittadini della necessità del cambiamento.