di
Cristina Morini -
recensione(*)al volume di Melinda Cooper e Catherine Waldby, “Biolavoro globale. Corpi e
nuova manodopera” (DeriveApprodi, Roma, 2015). In questo libro emerge la categoria
innovativa del “lavoro clinico” e ci aiuta ad immettere nuova sostanza
nell’analisi del processo di “sussunzione vitale” del capitalismo biocognitivo
e finanziarizzato: non solo non c’è più differenza tra corpo e macchina ma
neppure tra corpo e materia prima, il corpo stesso è, sempre più precisamente,
“materia prima”
In
questi anni, gli studi femministi sulle biotecnologie hanno fornito molte
suggestioni etiche e politiche, mettendo in luce i nessi possibili tra un pensiero
di genere, le tecnologie riproduttive, i suoi usi e abusi, e la questione dello
statuto dell’umano e della vita stessa. Tuttavia, «pochi hanno indagato i
meccanismi materiali che iscrivono la biologia in vivo dei corpi umani nei
processi del lavoro post fordista sia attraverso la produzione di dati
sperimentali che il trasferimento dei tessuti. Forme di lavoro che, a nostro
parere, stanno diventando sempre più centrali per il processo di valorizzazione
economica post fordista». Con tale dichiarazione densa di sostanza si apre un
libro che farà molto parlare di sé, Biolavoro globale. Corpi e nuova
manodopera (DeriveApprodi, euro 18): corpi al lavoro dentro le catene
globali che forniscono “materiali in vivo” per un’economia oggi fondata sulla
vita.
Le
autrici, Melinda Cooper e Catherine Waldby, sono docenti di politiche sociali e
scienze sociali a Sidney, la prima già da noi conosciuta grazie alla traduzione
di un precedente testo, La vita come plusvalore. Biotecnologie e
capitale ai tempi del neoliberalismo (Ombre Corte, 2013). Va
ringraziata la curatrice e traduttrice, Angela Balzano, per aver introdotto
entrambi questi lavori nel dibattito italiano, così da consentirci un confronto
teorico intenso sulla complessità del neoliberalismo e sulla sua razionalità,
sulla materia della produzione attuale, sui meccanismi di cattura del capitale
contemporaneo e sulle sue definizioni.
La crisi della
teoria del valore
Come
abbiamo potuto apprendere a partire da noi stessi, e come abbiamo a nostra
volta provato a descrivere, la nostra vita viene lavorata, un processo
estrattivo capillare che smargina completamente il concetto di sfruttamento.
Più ci accostiamo a esaminare tale processo, più avvertiamo la difficoltà a
coglierlo definitivamente, vista, appunto, la sua natura smisurata. Dunque, la
teoria del valore-lavoro di Marx, da cui pure Cooper e Waldby muovono, risulta
non del tutto adeguata ad afferrare il presente poiché, dicono le autrici, «il
vocabolario tecnico della prima produzione industriale informa il quadro
concettuale della teoria del valore, dando luogo alla distinzione tra lavoro
vivo e lavoro morto, tra capitale costante e variabile», distinzione che poggia
sul presupposto che da un lato esista la composizione tecnico-inanimata del
capitale, dall’altro il lavoro vivo del corpo del lavoratore, «concepito come
un tutto organico». Non solo tale ripartizione classica mostra limiti – e
basterebbe ricordare il modello antropogenetico di produzione nonché i
tentativi di ragionare, partendo da questo scarto, sulle possibilità di una
teoria del valore-vita, per dirci d’accordo – ma il processo lavorativo si
iscrive anche al livello più molecolare del corpo. Di qui la necessità di
proporre una nuova categoria, quella di lavoro clinico con cui si intende il processo
di estrazione attraverso cui «gli imperativi astratti e contingenti
dell’accumulazione vengono messi al lavoro al livello del corpo». Questo lavoro
clinico impegna una manodopera, prodotta e selezionata secondo linee di razza e
di classe, nelle tecnologie della riproduzione assistita e nella vendita di
tessuti come ovociti e spermatozoi, generando un fiorente mercato, una
bioproduzione. Si tratta inoltre di riconoscere che il lavoro clinico (donatori
di sangue, sperma, embrioni, organi e altri “tessuti vivi”) mantiene
formalmente uno statuto volontario, quello della donazione, sulla base dei
principi della bioetica che puntano sulla libertà dalla coercizione e sul
consenso informato, rivelandosi in pratica efficaci strumenti per facilitare
«forme ataviche di contratto di lavoro e forme discontinue di rimborso».
Cooper
e Waldby riconoscono il ruolo della finanziarizzazione nel muovere il mercato
delle scienze della vita anche attraverso strumenti normativi e giuridici sui
brevetti o le legislazioni sui valori mobiliari. Di fatto, poi, non intendono
la focalizzazione sul lavoro clinico come una riflessione etica sulla
mercificazione (estrema) dei corpi e sulla necessità di migliorane le regole di
ingaggio ma come un’analisi «sulla forma specifica di cambio ineguale che
governa le transazioni commerciali cliniche».
Madri surrogate in
India
Ci
avviciniamo, grazie alla categoria di lavoro clinico, alle radici più profonde
della teoria del “capitale umano” e di quella figura dell’“imprenditore di se
stesso” «di cui le nuove forme di lavoro clinico rappresentano la punta più
avanzata della sperimentazione neolibertista», a partire dalle elaborazioni
della scuola di Chicago sin dagli anni Sessanta. La ricostruzione storica si
avvale di un amplissimo patrimonio teorico per dimostrare come i processi di
precarizzazione e di esternalizzazione abbiano progressivamente trasformato la
manodopera del pianeta in risorsa “usa e getta”. Perfino la dissoluzione della
famiglia fordista («la disintegrazione verticale dello spazio fordista»)
rappresenta l’occasione per incorporare nella logica della razionalità
economica relazioni famigliari, sociali, intime. Si tratta perciò di
esplicitare, sempre meglio, la saldatura tra produzione e riproduzione promossa
dagli stessi assetti del neoliberismo che tutto trasforma (organi, qualità,
esposizione del corpo) in “servizio a contratto”. Attraverso le analisi di
Cooper e Waldby in contesti come l’India, il lavoro delle madri surrogate
indiane non pare dissimile da altre forme di lavoro femminilizzato e informale:
«esse vengono assunte tramite un’agenzia di intermediazione e possono svolgere
il lavoro a casa». La donna che accetta di diventare una madre surrogata assume
comunque, per poco prezzo, “un ruolo economico imprenditoriale”, anche se
espone a rischi elevati il suo stesso corpo.
In
tutto questo, il corpo delle donne è il corpo biopolitico per eccellenza, è il
primo oggetto d’investimento, il supporto primario di ogni desiderio
mercantile. Il lavoro, dunque, nelle sue forme post-moderne, punta a iscrivere
tutta l’interezza del corpo-mente (in particolare femminile) nella logica del
profitto. Tengo a precisare “corpo-mente”, perché l’altro lato della cattura
del capitalismo contemporaneo è relativa ad aspetti ancor meno misurabili, e tuttavia
dirimenti, come saperi e affettività, che non possono essere disconosciuti
benché vadano anch’essi intesi come mai separabili dal corpo che li esprime.
Cooper e Walbdy riconoscono, per esempio, a Tiziana Terranova e a Maurizio
Lazzarato «di essere il punto di partenza per comprendere il contesto in cui si
articolano le attuali dinamiche economiche basate sul sapere nel settore
biomedico […] e per mettere a fuoco i modi in cui le potenzialità del corpo
sociale e la produttività della biologia umana siano messe a valore». Tuttavia,
criticano l’utilizzo del termine “immateriale” impiegato in parte dei loro
lavori (il libro di Lazzarato in oggetto è del 1996, quasi venti anni fa). Al
solo scopo di notare i possibili e fruttuosi collegamenti con il concetto di
lavoro clinico, evitando equivoci, sarà utile segnalare che le teorie sul
capitalismo biocognitivo ascrivibili all’ambito neo-operaista, hanno da
parecchio tempo dismesso l’utilizzo della nozione “immateriale” relativamente
al “lavoro”, pur mantenendola invece quando riferita alla “produzione” (brand,
immagine, comunicazione, formazione, produzione di software…).
Dal post fordismo al
capitalismo biocognitivo
L’originalità
di questo libro è fuor di discussione, si tratta di un contributo che coglie un
punto centrale, affrontando, con rigore teorico, dovizia d’esempi e di case
studies, dalla California all’India, dall’Europa alla Cina, il campo
proprio del mercato globale aperto dalle tecnologie riproduttive,
dall’industria farmaceutica, della medicina rigenerativa, fondata
sull’“economia della vita”.
Resta
la necessità di una cornice definitoria complessiva relativamente ai processi
di sfruttamento, poiché la crisi della legge del valore non significa la sua
scomparsa ma solo l’estensione della “base miserabile” su cui poggia la
ricchezza contemporanea. Si tratta di dare conto di come la dimensione umana
venga travasata, in forme diverse e mutevoli, sui mercati finanziari, senza
fare ricorso al termine post-fordismo che nulla dice di ciò che ha sostituito.
Un processo largo quanto il mondo, profondo, pervasivo e perverso, che dalle
fabbriche cinesi arriva al freelance che lavora con il suo computer in un caffè
di Boston alle donne rumene donatrici di ovuli all’uomo filippino che fa il
badante a Milano. E non c’è separazione che tenga tra corpo e mente: la mente
lavorizzata spossessa il corpo di desiderio, lo ammala; il corpo alienato perde
parola e libertà di pensiero. Ascoltare, allora, le sintomatologie mute dei
corpi “per uscire dalle strettoie di una dualità – maschile/femminile,
corpo/mente, individuo/collettivo – che resiste ai mutamenti rapidi della
storia con la persistenza delle leggi naturali”, per citare Lea Melandri.
Meglio,
perciò, ribadirlo una volta di più: ciò che è in questione, infatti, anche
nella definizione sociale di lavoro cognitivo che abbiamo molto usato in questi
anni, è propriamente il corpo, la sessualità, la fisicità deperibile,
l’inconscio. Ciò che emerge, nella pluralità delle precarietà, è prima di tutto
il corpo, il corpo concreto del lavoratore, della lavoratrice. Melinda Cooper e
Catherine Waldby lo ricordano, sottolineando come questo processo «abbia
conseguenze particolari quando il lavoro riguarda completamente i processi
viventi che ci tengono in vita».
Questo
libro ci stimola ad approfondire e focalizzare sempre meglio la tripartizione
di quel paradigma di accumulazione contemporaneo che abbiamo chiamato
capitalismo biocognitivo-relazionale: i corpi-mente vengono costretti nelle
maglie della bioproduzione e del lavoro cognitivo in rete; il lavoro di
riproduzione, sviluppato oggi nella nozione di riproduzione sociale, è
archetipo della produzione contemporanea, a partire dalle teorizzazioni del
femminismo marxista e materialista; il lavoro autonomo di seconda (o terza) generazione
e la femminilizzazione del lavoro rimandano ai meccanismi di precarizzazione
connessi alle nuove forme di organizzazione del capitale contemporaneo. Da qui
fino a osservare i processi di privatizzazione, la creazione di debito, il
controllo e la privazione progressiva di diritti. Nuove enclosures, tutt’altro
che astratte nelle loro ricadute, erette per appropriarsi di tutti i campi
dell’umano. La categoria innovativa di lavoro clinico ci aiuta a immettere
nuova sostanza nell’analisi del processo di “sussunzione vitale” del
capitalismo biocognitivo e finanziarizzato: non solo non c’è più differenza tra
corpo e macchina ma neppure tra corpo e materia prima, il corpo stesso è,
sempre più precisamente, “materia prima”.
Ma
se pure il neoliberismo è una «macchina tecno produttiva che non conosce
sprechi di materiale biologico e consuma tutta la vita, ri-producendola
tecnicamente laddove possibile», seguendo l’efficace definizione che ne dà
Angela Balzano nella sua introduzione, resta che «le soggettività sono vive
sempre e comunque in un rapporto di forze». Perciò, seguendo l’ispirazione
foucoltiana che permea il libro, «la questione della soggettività è la
questione del potere» ed è urgente metterla a tema con precisione, «ibridandola
con la pratica femminista della collocazione».
Da un punto di vista politico, se esiste un’aporia essa è quella che continua a esistere tra le istanze di una “buona vita” e l’ampiezza della “vita messa al lavoro” dal neoliberismo. Vanno «ripensati i termini dello scambio», concludono Cooper e Waldby. Ovvero, va riproposto con forza il tema della riappropriazione delle forze produttive.
Da un punto di vista politico, se esiste un’aporia essa è quella che continua a esistere tra le istanze di una “buona vita” e l’ampiezza della “vita messa al lavoro” dal neoliberismo. Vanno «ripensati i termini dello scambio», concludono Cooper e Waldby. Ovvero, va riproposto con forza il tema della riappropriazione delle forze produttive.
*Si
tratta della versione integrale dell’articolo pubblicato su Il Manifesto, 7
marzo 2015