domenica 5 aprile 2015

Materiali viventi nella catena del valore

di Cristina Morini -

recensione(*)al volume di Melinda Cooper e Catherine Waldby, “Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera” (DeriveApprodi, Roma, 2015). In questo libro emerge la categoria innovativa del “lavoro clinico” e ci aiuta ad immettere nuova sostanza nell’analisi del processo di “sussunzione vitale” del capitalismo biocognitivo e finanziarizzato: non solo non c’è più differenza tra corpo e macchina ma neppure tra corpo e materia prima, il corpo stesso è, sempre più precisamente, “materia prima”

In questi anni, gli studi femministi sulle biotecnologie hanno fornito molte suggestioni etiche e politiche, mettendo in luce i nessi possibili tra un pensiero di genere, le tecnologie riproduttive, i suoi usi e abusi, e la questione dello statuto dell’umano e della vita stessa. Tuttavia, «pochi hanno indagato i meccanismi materiali che iscrivono la biologia in vivo dei corpi umani nei processi del lavoro post fordista sia attraverso la produzione di dati sperimentali che il trasferimento dei tessuti. Forme di lavoro che, a nostro parere, stanno diventando sempre più centrali per il processo di valorizzazione economica post fordista». Con tale dichiarazione densa di sostanza si apre un libro che farà molto parlare di sé, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera (DeriveApprodi, euro 18): corpi al lavoro dentro le catene globali che forniscono “materiali in vivo” per un’economia oggi fondata sulla vita.
Le autrici, Melinda Cooper e Catherine Waldby, sono docenti di politiche sociali e scienze sociali a Sidney, la prima già da noi conosciuta grazie alla traduzione di un precedente testo, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale ai tempi del neoliberalismo (Ombre Corte, 2013). Va ringraziata la curatrice e traduttrice, Angela Balzano, per aver introdotto entrambi questi lavori nel dibattito italiano, così da consentirci un confronto teorico intenso sulla complessità del neoliberalismo e sulla sua razionalità, sulla materia della produzione attuale, sui meccanismi di cattura del capitale contemporaneo e sulle sue definizioni.

La crisi della teoria del valore
Come abbiamo potuto apprendere a partire da noi stessi, e come abbiamo a nostra volta provato a descrivere, la nostra vita viene lavorata, un processo estrattivo capillare che smargina completamente il concetto di sfruttamento. Più ci accostiamo a esaminare tale processo, più avvertiamo la difficoltà a coglierlo definitivamente, vista, appunto, la sua natura smisurata. Dunque, la teoria del valore-lavoro di Marx, da cui pure Cooper e Waldby muovono, risulta non del tutto adeguata ad afferrare il presente poiché, dicono le autrici, «il vocabolario tecnico della prima produzione industriale informa il quadro concettuale della teoria del valore, dando luogo alla distinzione tra lavoro vivo e lavoro morto, tra capitale costante e variabile», distinzione che poggia sul presupposto che da un lato esista la composizione tecnico-inanimata del capitale, dall’altro il lavoro vivo del corpo del lavoratore, «concepito come un tutto organico». Non solo tale ripartizione classica mostra limiti – e basterebbe ricordare il modello antropogenetico di produzione nonché i tentativi di ragionare, partendo da questo scarto, sulle possibilità di una teoria del valore-vita, per dirci d’accordo – ma il processo lavorativo si iscrive anche al livello più molecolare del corpo. Di qui la necessità di proporre una nuova categoria, quella di lavoro clinico con cui si intende il processo di estrazione attraverso cui «gli imperativi astratti e contingenti dell’accumulazione vengono messi al lavoro al livello del corpo». Questo lavoro clinico impegna una manodopera, prodotta e selezionata secondo linee di razza e di classe, nelle tecnologie della riproduzione assistita e nella vendita di tessuti come ovociti e spermatozoi, generando un fiorente mercato, una bioproduzione. Si tratta inoltre di riconoscere che il lavoro clinico (donatori di sangue, sperma, embrioni, organi e altri “tessuti vivi”) mantiene formalmente uno statuto volontario, quello della donazione, sulla base dei principi della bioetica che puntano sulla libertà dalla coercizione e sul consenso informato, rivelandosi in pratica efficaci strumenti per facilitare «forme ataviche di contratto di lavoro e forme discontinue di rimborso».
Cooper e Waldby riconoscono il ruolo della finanziarizzazione nel muovere il mercato delle scienze della vita anche attraverso strumenti normativi e giuridici sui brevetti o le legislazioni sui valori mobiliari. Di fatto, poi, non intendono la focalizzazione sul lavoro clinico come una riflessione etica sulla mercificazione (estrema) dei corpi e sulla necessità di migliorane le regole di ingaggio ma come un’analisi «sulla forma specifica di cambio ineguale che governa le transazioni commerciali cliniche».


Madri surrogate in India
Ci avviciniamo, grazie alla categoria di lavoro clinico, alle radici più profonde della teoria del “capitale umano” e di quella figura dell’“imprenditore di se stesso” «di cui le nuove forme di lavoro clinico rappresentano la punta più avanzata della sperimentazione neolibertista», a partire dalle elaborazioni della scuola di Chicago sin dagli anni Sessanta. La ricostruzione storica si avvale di un amplissimo patrimonio teorico per dimostrare come i processi di precarizzazione e di esternalizzazione abbiano progressivamente trasformato la manodopera del pianeta in risorsa “usa e getta”. Perfino la dissoluzione della famiglia fordista («la disintegrazione verticale dello spazio fordista») rappresenta l’occasione per incorporare nella logica della razionalità economica relazioni famigliari, sociali, intime. Si tratta perciò di esplicitare, sempre meglio, la saldatura tra produzione e riproduzione promossa dagli stessi assetti del neoliberismo che tutto trasforma (organi, qualità, esposizione del corpo) in “servizio a contratto”. Attraverso le analisi di Cooper e Waldby in contesti come l’India, il lavoro delle madri surrogate indiane non pare dissimile da altre forme di lavoro femminilizzato e informale: «esse vengono assunte tramite un’agenzia di intermediazione e possono svolgere il lavoro a casa». La donna che accetta di diventare una madre surrogata assume comunque, per poco prezzo, “un ruolo economico imprenditoriale”, anche se espone a rischi elevati il suo stesso corpo.
In tutto questo, il corpo delle donne è il corpo biopolitico per eccellenza, è il primo oggetto d’investimento, il supporto primario di ogni desiderio mercantile. Il lavoro, dunque, nelle sue forme post-moderne, punta a iscrivere tutta l’interezza del corpo-mente (in particolare femminile) nella logica del profitto. Tengo a precisare “corpo-mente”, perché l’altro lato della cattura del capitalismo contemporaneo è relativa ad aspetti ancor meno misurabili, e tuttavia dirimenti, come saperi e affettività, che non possono essere disconosciuti benché vadano anch’essi intesi come mai separabili dal corpo che li esprime. Cooper e Walbdy riconoscono, per esempio, a Tiziana Terranova e a Maurizio Lazzarato «di essere il punto di partenza per comprendere il contesto in cui si articolano le attuali dinamiche economiche basate sul sapere nel settore biomedico […] e per mettere a fuoco i modi in cui le potenzialità del corpo sociale e la produttività della biologia umana siano messe a valore». Tuttavia, criticano l’utilizzo del termine “immateriale” impiegato in parte dei loro lavori (il libro di Lazzarato in oggetto è del 1996, quasi venti anni fa). Al solo scopo di notare i possibili e fruttuosi collegamenti con il concetto di lavoro clinico, evitando equivoci, sarà utile segnalare che le teorie sul capitalismo biocognitivo ascrivibili all’ambito neo-operaista, hanno da parecchio tempo dismesso l’utilizzo della nozione “immateriale” relativamente al “lavoro”, pur mantenendola invece quando riferita alla “produzione” (brand, immagine, comunicazione, formazione, produzione di software…).

Dal post fordismo al capitalismo biocognitivo
L’originalità di questo libro è fuor di discussione, si tratta di un contributo che coglie un punto centrale, affrontando, con rigore teorico, dovizia d’esempi e di case studies, dalla California all’India, dall’Europa alla Cina, il campo proprio del mercato globale aperto dalle tecnologie riproduttive, dall’industria farmaceutica, della medicina rigenerativa, fondata sull’“economia della vita”.
Resta la necessità di una cornice definitoria complessiva relativamente ai processi di sfruttamento, poiché la crisi della legge del valore non significa la sua scomparsa ma solo l’estensione della “base miserabile” su cui poggia la ricchezza contemporanea. Si tratta di dare conto di come la dimensione umana venga travasata, in forme diverse e mutevoli, sui mercati finanziari, senza fare ricorso al termine post-fordismo che nulla dice di ciò che ha sostituito. Un processo largo quanto il mondo, profondo, pervasivo e perverso, che dalle fabbriche cinesi arriva al freelance che lavora con il suo computer in un caffè di Boston alle donne rumene donatrici di ovuli all’uomo filippino che fa il badante a Milano. E non c’è separazione che tenga tra corpo e mente: la mente lavorizzata spossessa il corpo di desiderio, lo ammala; il corpo alienato perde parola e libertà di pensiero. Ascoltare, allora, le sintomatologie mute dei corpi “per uscire dalle strettoie di una dualità – maschile/femminile, corpo/mente, individuo/collettivo – che resiste ai mutamenti rapidi della storia con la persistenza delle leggi naturali”, per citare Lea Melandri.
Meglio, perciò, ribadirlo una volta di più: ciò che è in questione, infatti, anche nella definizione sociale di lavoro cognitivo che abbiamo molto usato in questi anni, è propriamente il corpo, la sessualità, la fisicità deperibile, l’inconscio. Ciò che emerge, nella pluralità delle precarietà, è prima di tutto il corpo, il corpo concreto del lavoratore, della lavoratrice. Melinda Cooper e Catherine Waldby lo ricordano, sottolineando come questo processo «abbia conseguenze particolari quando il lavoro riguarda completamente i processi viventi che ci tengono in vita».
Questo libro ci stimola ad approfondire e focalizzare sempre meglio la tripartizione di quel paradigma di accumulazione contemporaneo che abbiamo chiamato capitalismo biocognitivo-relazionale: i corpi-mente vengono costretti nelle maglie della bioproduzione e del lavoro cognitivo in rete; il lavoro di riproduzione, sviluppato oggi nella nozione di riproduzione sociale, è archetipo della produzione contemporanea, a partire dalle teorizzazioni del femminismo marxista e materialista; il lavoro autonomo di seconda (o terza) generazione e la femminilizzazione del lavoro rimandano ai meccanismi di precarizzazione connessi alle nuove forme di organizzazione del capitale contemporaneo. Da qui fino a osservare i processi di privatizzazione, la creazione di debito, il controllo e la privazione progressiva di diritti. Nuove enclosures, tutt’altro che astratte nelle loro ricadute, erette per appropriarsi di tutti i campi dell’umano. La categoria innovativa di lavoro clinico ci aiuta a immettere nuova sostanza nell’analisi del processo di “sussunzione vitale” del capitalismo biocognitivo e finanziarizzato: non solo non c’è più differenza tra corpo e macchina ma neppure tra corpo e materia prima, il corpo stesso è, sempre più precisamente, “materia prima”.
Ma se pure il neoliberismo è una «macchina tecno produttiva che non conosce sprechi di materiale biologico e consuma tutta la vita, ri-producendola tecnicamente laddove possibile», seguendo l’efficace definizione che ne dà Angela Balzano nella sua introduzione, resta che «le soggettività sono vive sempre e comunque in un rapporto di forze». Perciò, seguendo l’ispirazione foucoltiana che permea il libro, «la questione della soggettività è la questione del potere» ed è urgente metterla a tema con precisione, «ibridandola con la pratica femminista della collocazione».
Da un punto di vista politico, se esiste un’aporia essa è quella che continua a esistere tra le istanze di una “buona vita” e l’ampiezza della “vita messa al lavoro” dal neoliberismo. Vanno «ripensati i termini dello scambio», concludono Cooper e Waldby. Ovvero, va riproposto con forza il tema della riappropriazione delle forze produttive.

*Si tratta della versione integrale dell’articolo pubblicato su Il Manifesto, 7 marzo 2015