domenica 4 gennaio 2015

“la giustizia riparativa” di Angela Davis [da "Sulla Crudeltà"]

di Judith Butler

Se cerco di preservare la vita non è solamente perché questo è nel mio interesse personale, o perché scommetto che questo avrà delle conseguenze positive su di me. È perché sono già dipendente da te per via di un legame sociale senza cui questo “io” non può essere pensato. Dunque quali effetti ha la tesi dell’ambivalenza emotiva in amore per chi vuole pensare a delle alternative alla pena di morte e alla violenza legale? Esiste un modo per superare la relazione dialettica tra la punizione della pena di morte e l’ergastolo?

(...) Sulla scia della Critica della violenza di Benjamin, Derrida sottolinea l’intimità tossica tra il crimine e il  rimedio legale al crimine. La legge distingue tra forme legittime e illegittime di pena di morte, e definisce le procedure attraverso cui tracciare questa distinzione. La legge stabilisce le basi su cui lo Stato può infliggere la violenza mortale in guerra o attraverso strumenti legali come la pena di morte. Per Derrida la pena di morte, intesa come forma di violenza legale, annulla la distinzione tra giustizia e vendetta: la giustizia diventa una forma moralizzata di vendetta.
È sorprendente il fatto che sia Derrida sia l’attivista e studiosa Angela Davis abbiano condiviso questa idea. Entrambi si spesero per la ripetizione del processo contro Mumia Abu Jamal (il prigioniero politico cui è stata data la pena di morte in una sentenza del 1982 per l’uccisione di un poliziotto, poi commutata in carcere a vita senza possibilità di appello) o per il suo rilascio. Secondo entrambi il vero “crimine” per cui Abu-Jamal fu condannato era la sua appartenenza alle Pantere Nere. Angela Davis interpreta l’alternativa tra pena di morte e carcere in termini dialettici:

Per quanto sia importante abolire la pena di morte, dovremmo farlo tenendo presente che  la campagna contemporanea contro la pena di morte contiene quegli stessi modelli storici che hanno condotto all’emergere della prigione come forma dominante di punizione. La pena di morte è coesistita con la prigione, nonostante l’incarcerazione sia stata concepita come alternativa alla pena corporea o capitale. Questa è una dicotomia fondamentale. Un confronto critico con questa dicotomia significherebbe considerare seriamente la possibilità di collegare l’obiettivo dell’abolizione della pena di morte con le strategie per l’abolizione della prigione.

Come Davis, Derrida capisce che la pena di morte e l’incarcerazione non sono contrapposte, ma costituiscono due varianti all’interno della stessa economia della vendetta. Quando lo Stato uccide e giustifica il suo atto, mette in atto una vendetta in linea con il suo principio di ragionamento; la violenza legale non è differente da quella non legale, fatta eccezione per il fatto che lo Stato compie un atto per il quale fornisce una giustificazione. Ma per Davis il compito è di andare oltre la vendetta. Il suo mentore Herbert Marcuse, in Eros e civiltà (testo scritto in risposta al Disagio nella civiltà di Freud), ha suggerito che si potrebbe espandere Eros al fine di creare forme di comunità in grado di opporsi alla forza di Thanatos, la pulsione di morte amplificata dal capitalismo. Marcuse, riferendosi al surplus di aggressività che si crea con il capitalismo, ha suggerito che in realtà Freud abbia descritto una forma molto specifica di organizzazione dell’aggressione invece di una pulsione pre-sociale di morte. Secondo il mentore di Davis l’energia rivoluzionaria poteva essere organizzata contro le istituzioni repressive, tra cui il capitalismo e la famiglia. Nel lavoro di Davis non c’è traccia della teoria della pulsione, per quello che ne so. Sia la sessualità sia l’aggressione sono organizzate socialmente. Tuttavia, Davis comprende che la resistenza politica deve allo stesso tempo costruire e distruggere. Non c’è modo di evitare questa doppia aspirazione. Davis lancia contemporaneamente un appello per l’abolizione della pena di morte e per l’abolizione dell’istituzione e dell’industria della carcerazione. La negazione delle istituzioni che organizzano lo sfruttamento e la carcerazione si serve della distruttività, ma cerca anche di fondare e rafforzare legami sociali attraverso la “giustizia riparativa” invece della vendetta e della pena.

Rimanendo dentro il problema della relazione tra la crudeltà e la pulsione di morte, potremmo chiederci in che misura la pulsione di morte, o di aggressione, possa essere pienamente controllata da programmi politici coscienziosi come quelli proposti da Davis, e se esiste sempre un eccesso di distruttività che non si può controllare o spiegare attraverso l’organizzazione sociale della vita. Qui la questione centrale sembra essere se i legami sociali andrebbero compresi nel quadro della civiltà oppure in altro modo. Come Freud mette in chiaro nel Disagio nella civiltà, difficilmente la civiltà ci salverà. Dopotutto il volto morale della civiltà consiste nella vendetta, e le prigioni ne costituiscono le istituzioni esemplari. Al loro posto Davis immagina comunità fondate sulla riconciliazione e la riparazione, su forme di responsabilità in grado di forgiare nuovi legami sociali per chi potrebbe averli spezzati. Questi legami  dovrebbero essere esplicitamente anticapitalisti e metterebbero fine alle forme razziste di sfruttamento. Davis insiste sul fatto che negli Stati Uniti sia le prigioni sia la pena di morte devono essere compresi come parte dell’eredità della schiavitù, dal momento che la maggior parte delle persone in prigione o messe a morte sono uomini neri o sudamericani e, sempre di più, donne nere o sudamericane. (La NAACP [Associazione Nazionale per la Protezione delle Persone di Colore, ndt] riporta che gli afroamericani «costituiscono uno dei due milioni e trecentomila detenuti negli Stati Uniti. Gli afroamericani sono incarcerati sei volte di più dei bianchi. Gli afroamericani e gli ispanici costituivano il 58 per cento dei detenuti nel 2008, nonostante gli afroamericani e gli ispanici siano un quarto dell’intera popolazione americana». Queste percentuali sono cresciute negli ultimi anni. Tremila persone sono attualmente nel braccio della morte, tutte persone povere, in maggioranza afroamericani e ispanici). Davis sostiene anche che l’amore e il perdono vanno perseguiti come alternativa alla pena. Questo non significa che la distruttività scompaia, ma che essa prende la forma di una “negazione” della prigione, la cui forma di distruttività danneggia quella vita che andrebbe riparata e riammessa a un mondo sociale più ampio.
A questo punto, siamo così lontani dalla pulsione di morte? Cosa succederebbe se leggessimo la pulsione di morte non come manifestazione della psiche individuale, o in termini di psicologia di gruppo, ma come qualcosa che prende piede nelle istituzioni e ne guida gli obiettivi, talvolta con una sorta di tenacia nascosta? L’appello per mettere fine all’incarcerazione e alle prigioni potrebbe sembrare un appello impossibile, o poco pratico, ma in realtà consente una prospettiva da cui si può osservare il modo in cui i rimedi legali sono parte della crudeltà. Chiedere la fine della crudeltà significa chiedere la distruzione delle istituzioni della crudeltà; l’unica questione che resta è se sarebbe possibile controllare gli effetti distruttivi che farebbero seguito alla deistituzionalizzazione dei criminali. Il fatto è che le conseguenze distruttive degli atti che cercano di distruggere la distruzione non possono essere noti in anticipo. È qui che il Freud dell’operazione inconscia della pulsione di morte sembra avere l’ultima parola, indicando un futuro di distruzione di cui non possiamo conoscere chiaramente i confini e per cui possiamo solo provare ansia.
Secondo Davis, “abolizionismo” significa richiesta dell’abolizione della pena di morte e delle prigioni, ma anche abolizione della schiavitù, che resta un fenomeno globale, vivo non solo nelle fabbriche del mondo in via di sviluppo ma anche nei contesti di lavoro agrario coatto degli Stati Uniti. Le stesse prigioni sono un’eredità della schiavitù e funzionano oggi come un meccanismo istituzionale attraverso cui un numero sproporzionato di persone di colore sono private della cittadinanza. Il fatto che la pena di morte sia applicata in maniera sproporzionata alle persone di colore implica che questo è il modo in cui la cittadinanza viene regolata attraverso altri mezzi e, nel caso della pena di morte, concentrando nelle mani dello Stato il potere su questioni di vita e morte che colpisce in maniera differenziale le minoranze. Tuttavia questo potere non è semplicemente o esclusivamente sovrano. Con l’idea di demografia dei  condannati entriamo in quel terreno che Achille Mbembe ha chiamato “necropolitica”. Il fatto che le compagnie assicurative stiano sostituendo l’amministrazione pubblica nella gestione carceraria degli Stati Uniti, del Regno Unito e di altri Paesi mostra il legame tra coloro che sono del tutto spossessati, fuorigioco, coloro la cui identità è definita dal debito economico e sociale – e coloro che, da tuttociò, traggono profitti. “Il popolo” e “il pubblico” vanno a definire quell’insieme di persone che devono essere protette dalla classe criminale: in questo modo si crea una classe di persone di cui vale la pena preservare le vite e un’altra classe di persone le cui vite possono essere tranquillamente perse o distrutte.
Il perdono del debito potrebbe far parte di questo quadro? Quale sarebbe il suo equivalente psichico? Forse potrebbe tradursi in un’operazione di “perdono” inteso come forza deistituzionalizzante, inclusa la deistituzionalizzazione della sovranità e della pena di morte? Le riflessioni di Derrida sul “perdono” furono al centro del suo corso tra il 1997 e il1997, un corso che ha preceduto quello sulla pena di morte. Una delle questioni che pose era se la clemenza e il perdono dovessero essere intesi come atti sovrani, oppure se potessero essere intesi come modi di decostituzione delle forme esistenti di sovranità. Esiste un modo di concettualizzare la clemenza e il perdono come forme di vita istituzionale, e come forze che guidano la deistituzionalizzazione della prigione e della pena di morte? Forse l’opposizione alla pena di morte deve essere collegata all’opposizione a tutte le forme di precarietà indotta, dentro e fuori la prigione, al fine di mettere in luce i vari meccanismi di distruzione della vita, e per trovare modi, per quanto controversi e ambivalenti essi possano essere, di preservare quelle vite che altrimenti andrebbero perdute per sempre.

Estratto dal saggio di Judith Butler, Sulla crudeltà, (cura di Nicola Perugini e Federico Zappino)
L’e-book, prodotto e pubblicato dalla redazione de lavoro culturale  in collaborazione con “London Review of Books”, è scaricabile gratuitamente