di Judith Butler
Se
cerco di preservare la vita non è solamente perché questo è nel mio interesse
personale, o perché scommetto che questo avrà delle conseguenze positive su di
me. È perché sono già dipendente da te per via di un legame sociale senza cui
questo “io” non può essere pensato. Dunque quali effetti ha la tesi
dell’ambivalenza emotiva in amore per chi vuole pensare a delle alternative alla
pena di morte e alla violenza legale? Esiste un modo per superare la relazione
dialettica tra la punizione della pena di morte e l’ergastolo?
(...) Sulla
scia della Critica della violenza di Benjamin, Derrida sottolinea l’intimità
tossica tra il crimine e il rimedio
legale al crimine. La legge distingue tra forme legittime e illegittime di pena
di morte, e definisce le procedure attraverso cui tracciare questa distinzione.
La legge stabilisce le basi su cui lo Stato può infliggere la violenza mortale
in guerra o attraverso strumenti legali come la pena di morte. Per Derrida la
pena di morte, intesa come forma di violenza legale, annulla la distinzione tra
giustizia e vendetta: la giustizia diventa una forma moralizzata di vendetta.
È sorprendente il fatto che sia
Derrida sia l’attivista e studiosa Angela Davis abbiano condiviso questa idea.
Entrambi si spesero per la ripetizione del processo contro Mumia Abu Jamal (il
prigioniero politico cui è stata data la pena di morte in una sentenza del 1982
per l’uccisione di un poliziotto, poi commutata in carcere a vita senza
possibilità di appello) o per il suo rilascio. Secondo entrambi il vero
“crimine” per cui Abu-Jamal fu condannato era la sua appartenenza alle Pantere
Nere. Angela Davis interpreta l’alternativa tra pena di morte e carcere in
termini dialettici:
Per
quanto sia importante abolire la pena di morte, dovremmo farlo tenendo presente
che la campagna contemporanea contro la
pena di morte contiene quegli stessi modelli storici che hanno condotto
all’emergere della prigione come forma dominante di punizione. La pena di morte
è coesistita con la prigione, nonostante l’incarcerazione sia stata concepita come
alternativa alla pena corporea o capitale. Questa è una dicotomia fondamentale.
Un confronto critico con questa dicotomia significherebbe considerare
seriamente la possibilità di collegare l’obiettivo dell’abolizione della pena di
morte con le strategie per l’abolizione della prigione.
Come
Davis, Derrida capisce che la pena di morte e l’incarcerazione non sono contrapposte,
ma costituiscono due varianti all’interno della stessa economia della vendetta.
Quando lo Stato uccide e giustifica il suo atto, mette in atto una vendetta in
linea con il suo principio di ragionamento; la violenza legale non è differente
da quella non legale, fatta eccezione per il fatto che lo Stato compie un atto
per il quale fornisce una giustificazione. Ma per Davis il compito è di andare
oltre la vendetta. Il suo mentore Herbert Marcuse, in Eros e civiltà (testo scritto in risposta al Disagio nella civiltà di Freud), ha suggerito che si potrebbe
espandere Eros al fine di creare forme di comunità in grado di opporsi alla forza
di Thanatos, la pulsione di morte amplificata dal capitalismo. Marcuse,
riferendosi al surplus di aggressività che si crea con il capitalismo, ha
suggerito che in realtà Freud abbia descritto una forma molto specifica di
organizzazione dell’aggressione invece di una pulsione pre-sociale di morte. Secondo
il mentore di Davis l’energia rivoluzionaria poteva essere organizzata contro
le istituzioni repressive, tra cui il capitalismo e la famiglia. Nel lavoro di
Davis non c’è traccia della teoria della pulsione, per quello che ne so. Sia la
sessualità sia l’aggressione sono organizzate socialmente. Tuttavia, Davis
comprende che la resistenza politica deve allo stesso tempo costruire e
distruggere. Non c’è modo di evitare questa doppia aspirazione. Davis lancia
contemporaneamente un appello per l’abolizione della pena di morte e per
l’abolizione dell’istituzione e dell’industria della carcerazione. La negazione
delle istituzioni che organizzano lo sfruttamento e la carcerazione si serve
della distruttività, ma cerca anche di fondare e rafforzare legami sociali
attraverso la “giustizia riparativa” invece della vendetta e della pena.
Rimanendo
dentro il problema della relazione tra la crudeltà e la pulsione di morte,
potremmo chiederci in che misura la pulsione di morte, o di aggressione, possa
essere pienamente controllata da programmi politici coscienziosi come quelli
proposti da Davis, e se esiste sempre un eccesso di distruttività che non si
può controllare o spiegare attraverso l’organizzazione sociale della vita. Qui
la questione centrale sembra essere se i legami sociali andrebbero compresi nel
quadro della civiltà oppure in altro modo. Come Freud mette in chiaro nel
Disagio nella civiltà, difficilmente la civiltà ci salverà. Dopotutto il volto morale
della civiltà consiste nella vendetta, e le prigioni ne costituiscono le
istituzioni esemplari. Al loro posto Davis immagina comunità fondate sulla
riconciliazione e la riparazione, su forme di responsabilità in grado di
forgiare nuovi legami sociali per chi potrebbe averli spezzati. Questi legami dovrebbero essere esplicitamente anticapitalisti
e metterebbero fine alle forme razziste di sfruttamento. Davis insiste sul
fatto che negli Stati Uniti sia le prigioni sia la pena di morte devono essere
compresi come parte dell’eredità della schiavitù, dal momento che la maggior
parte delle persone in prigione o messe a morte sono uomini neri o sudamericani
e, sempre di più, donne nere o sudamericane. (La NAACP [Associazione Nazionale per la Protezione delle Persone di Colore, ndt] riporta che gli
afroamericani «costituiscono uno dei due milioni e trecentomila detenuti negli
Stati Uniti. Gli afroamericani sono incarcerati sei volte di più dei bianchi. Gli
afroamericani e gli ispanici costituivano il 58 per cento dei detenuti nel
2008, nonostante gli afroamericani e gli ispanici siano un quarto dell’intera
popolazione americana». Queste percentuali sono cresciute negli ultimi anni.
Tremila persone sono attualmente nel braccio della morte, tutte persone povere,
in maggioranza afroamericani e ispanici). Davis sostiene anche che l’amore e il
perdono vanno perseguiti come alternativa alla pena. Questo non significa che
la distruttività scompaia, ma che essa prende la forma di una “negazione” della
prigione, la cui forma di distruttività danneggia quella vita che andrebbe
riparata e riammessa a un mondo sociale più ampio.
A
questo punto, siamo così lontani dalla pulsione di morte? Cosa succederebbe se
leggessimo la pulsione di morte non come manifestazione della psiche
individuale, o in termini di psicologia di gruppo, ma come qualcosa che prende piede
nelle istituzioni e ne guida gli obiettivi, talvolta con una sorta di tenacia
nascosta? L’appello per mettere fine all’incarcerazione e alle prigioni
potrebbe sembrare un appello impossibile, o poco pratico, ma in realtà consente
una prospettiva da cui si può osservare il modo in cui i rimedi legali sono
parte della crudeltà. Chiedere la fine della crudeltà significa chiedere la
distruzione delle istituzioni della crudeltà; l’unica questione che resta è se
sarebbe possibile controllare gli effetti distruttivi che farebbero seguito alla
deistituzionalizzazione dei criminali. Il fatto è che le conseguenze
distruttive degli atti che cercano di distruggere la distruzione non possono
essere noti in anticipo. È qui che il Freud dell’operazione inconscia della
pulsione di morte sembra avere l’ultima parola, indicando un futuro di distruzione
di cui non possiamo conoscere chiaramente i confini e per cui possiamo solo
provare ansia.
Secondo
Davis, “abolizionismo” significa richiesta dell’abolizione della pena di morte
e delle prigioni, ma anche abolizione della schiavitù, che resta un fenomeno
globale, vivo non solo nelle fabbriche del mondo in via di sviluppo ma anche
nei contesti di lavoro agrario coatto degli Stati Uniti. Le stesse prigioni
sono un’eredità della schiavitù e funzionano oggi come un meccanismo
istituzionale attraverso cui un numero sproporzionato di persone di colore sono
private della cittadinanza. Il fatto che la pena di morte sia applicata in
maniera sproporzionata alle persone di colore implica che questo è il modo in
cui la cittadinanza viene regolata attraverso altri mezzi e, nel caso della
pena di morte, concentrando nelle mani dello Stato il potere su questioni di
vita e morte che colpisce in maniera differenziale le minoranze. Tuttavia
questo potere non è semplicemente o esclusivamente sovrano. Con l’idea di
demografia dei condannati entriamo in
quel terreno che Achille Mbembe ha chiamato “necropolitica”. Il fatto che le
compagnie assicurative stiano sostituendo l’amministrazione pubblica nella
gestione carceraria degli Stati Uniti, del Regno Unito e di altri Paesi mostra
il legame tra coloro che sono del tutto spossessati, fuorigioco, coloro la cui
identità è definita dal debito economico e sociale – e coloro che, da tuttociò,
traggono profitti. “Il popolo” e “il pubblico” vanno a definire quell’insieme
di persone che devono essere protette dalla classe criminale: in questo modo si
crea una classe di persone di cui vale la pena preservare le vite e un’altra classe
di persone le cui vite possono essere tranquillamente perse o distrutte.
Il
perdono del debito potrebbe far parte di questo quadro? Quale sarebbe il suo
equivalente psichico? Forse potrebbe tradursi in un’operazione di “perdono”
inteso come forza deistituzionalizzante, inclusa la deistituzionalizzazione
della sovranità e della pena di morte? Le riflessioni di Derrida sul “perdono”
furono al centro del suo corso tra il 1997 e il1997, un corso che ha preceduto
quello sulla pena di morte. Una delle questioni che pose era se la clemenza e
il perdono dovessero essere intesi come atti sovrani, oppure se potessero essere
intesi come modi di decostituzione delle forme esistenti di sovranità. Esiste
un modo di concettualizzare la clemenza e il perdono come forme di vita
istituzionale, e come forze che guidano la deistituzionalizzazione della
prigione e della pena di morte? Forse l’opposizione alla pena di morte deve essere
collegata all’opposizione a tutte le forme di precarietà indotta, dentro e
fuori la prigione, al fine di mettere in luce i vari meccanismi di distruzione
della vita, e per trovare modi, per quanto controversi e ambivalenti essi
possano essere, di preservare quelle vite che altrimenti andrebbero perdute per
sempre.
Estratto
dal saggio di Judith Butler,
Sulla crudeltà, (cura di Nicola Perugini e Federico Zappino)
L’e-book, prodotto e pubblicato dalla redazione de lavoro culturale in collaborazione con “London Review of
Books”, è scaricabile gratuitamente