di
Cristina Morini
sull’attualità politica di Judith
Butler (una recensione al libro curato da Federico Zappino, “Fare e disfare il
genere”, Mimesis-2014). Una sorta di sistematizzazione delle riflessioni
condotte sul genere e sulla sessualità dalla filosofa americana a partire dagli
anni ‘90
Judith
Butler si situa senz’altro tra le pensatrici contemporanee più amate dai
femminismi degli ultimi anni. Da nord a sud, nel mezzo dei diversi
posizionamenti, tra le sfumature e le articolazioni dei movimenti queer che si
rintracciano nel mondo, Judith Butler c’è. Possiamo azzardarci ad affermare che
il pensiero di Butler ha assunto, nel tempo, una specie di forza evocativa che
va oltre se stessa, si è come reso indipendente dalla sua formazione e consente
a ciascuna di prendere il respiro che serve dalle parole, nel rispecchiarsi.
Anche, a volte, citata fuor di contesto, interpretata e “adoperata” prima che
compresa nei suoi percorsi complessi, non sempre, tra l’altro, restituiti con
correttezza dalle piegature delle traduzioni. Tuttavia, proprio per questo,
capace di essere intimamente parte del presente agìto dei soggetti. Benché ogni
sua pagina sia densa di riferimenti teorici compositi, si intuisce che tutto è
vissuto, tutto l’ha letteralmente attraversata, che di esperienze incarnate e
sofferte si nutre la sua appassionata disposizione politica, mai pienamente
felice perché l’esperienza umana, per divenire veramente tale, si sostanzia
della cognizione della perdita. Andrà aggiunto, certo, che l’approccio politico
di Butler si è modificato dagli anni travolgenti di Scambi di genere (Gender
Truble, 1990, approdato in Italia solo nel 2004) per raggiungere oggi un
linguaggio del sensibile applicato alla vita corporea che l’ha portata a
distillare riflessioni illuminanti dalle vite precarie alle profondità dell’Io,
insistendo sulla politica del riconoscimento fino ad assumere, quasi, gli
accenti etici di una filosofia morale, o l’ispirazione di un’umanissima,
malinconica, poesia.
Questa
disposizione, anche esplicitamente emotiva, non può essere disgiunta dalla
lettura della traduzione del libro Undoing Gender che Federico
Zappino ci ha regalato, curando per Mimesis una nuova edizione del testo, già
uscito in Italia nel 2006 (Meltemi). Il titolo attuale scelto dal curatore per
l’opera, Fare e disfare il genere, risponde perfettamente alla
sollecitazione butleriana a dischiudere le possibilità dell’agire politico,
insidiosamente precluse da posizioni che reputano le categorie dell’identità
fondazionali e fisse. Ma non di una “disfatta del genere” si tratta, come
incautamente tramandato dalla prima edizione italiana, perché il termine disfatta ha
un significato immediatamente negativo nella nostra lingua, diversamente
dall’inglese undoing. La pratica decostruttiva di Butler è lontana
dall’idea di un’onnipotenza creatrice che consenta a ciascuno “di pensarsi e
realizzarsi ex nihilo”, come nota Olivia Guaraldo
nell’introduzione, la stessa del 2006. Nondimeno essa apre la possibilità di
esistere ai soggetti neutralizzati dalle concezioni normative, sottoposti
all’esperienza (decostruttiva ma anche costruttiva) del venire disfatti.
Guaraldo
medesima scrive: “‘to do and undo one’s gender’ significa fare e disfare il
genere non come si trattasse di un prodotto fatto e finito di cui ci si
appropria o ci si sbarazza (…) il gender non è una fredda
categoria di normalizzazione ma un ambito di azione individuale e collettivo
che può e deve essere occupato e contestato da soggetti e da pratiche, a un
tempo decostruttive e ri-costruttive”. Il genere, vuole dire Butler, è un processo
performativo, storicamente contingente, mutevole, mai assoluto. Tale
processualità, instabile e sociale, rinvia alla vulnerabilità umana e alla
costitutiva relazionalità del soggetto.
Il diritto alla vivibilità
Rileggere
allora, o leggere per la prima volta, questa raccolta di saggi, scritti tra il
2000 e il 2004, che mantengono intatta la propria, dirompente, attualità
politica. Una sorta di sistematizzazione delle riflessioni condotte sul genere
e sulla sessualità dalla filosofa americana a partire dagli anni Novanta.
Muoviamo allora da una questione ancora in campo e che va messa a tema fino in
fondo dal femminismo contemporaneo della Third Wave, se esso
vuole davvero trovare modo di spingere avanti (la lotta e il pensiero insieme)
e cioè di non farsi sussumere e svuotare dagli ordinamenti neoliberisti: le
varie articolazioni del genere vanno assunte come un fattore politico “che
porta con sé una serie di rischi sociali e fisici”, perciò il femminismo deve
sforzarsi di superare i propri limiti, cioè l’assunto che la dominazione
strutturale degli uomini sulle donne vada considerata punto di partenza di ogni
altra analisi di genere, assumendo la concezione storica e performativa del
genere e agendo un’alleanza più stretta con i movimenti antiomofobici, antirazzisti,
trans e intersessuali. Lo scopo politico che attraversa tutto il testo è quello
rivendicare fino in fondo il diritto alla vivibilità: “e non mi
riferisco solo a quando”, scrive in Fuori da sé sui limiti
dell’autonomia sessuale, “ci chiediamo che cosa renda sopportabile la nostra vita
ma anche a quando, da una certa posizione di potere, ci chiediamo che cosa
renda, o dovrebbe rendere, la vitaaltrui sopportabile”. La
sensibilità filosofica di Butler muove dai luoghi nascosti del suo vissuto: le
interrogazioni sul problema dell’umano e sulle vite che contano e su quelle che
invece nulla valgono, sulla vulnerabilità del corpo – strumento di agency ma
anche ambito “dove i confini tra agire e subire si fanno più rarefatti”- deriva
dai lutti per l’Aids sofferti dalla comunità gay e lesbica internazionale in
quegli anni, così come dallo shock degli Usa dopo l’attentato alle torri
gemelle del 2001.
Evidentemente,
come si argomenta in Regole di genere, la nozione di vivibilità
viene impedita a monte dalle norme che imbrigliano il genere “che non
rappresenta esattamente quello che si è e neppure quello che
si ha ma un sistema attraverso cui hanno luogo la produzione e
la normalizzazione del maschile e del femminile”. Produzione di un binarismo
contingente che ha un prezzo per il soggetto, proprio in termini di vita
vivibile, resa da Butler con bellissima immagine: “il genere è la forma
cristallizzata che assume la sessualizzazione dell’ineguaglianza”. Produzione,
anche, di “parametri della soggettività”, ossia “creazione di persone che siano
conformi a norme astratte, le quali condizionano e al tempo stesso eccedono le
vite che creano e distruggono”. Nel capitolo terzo, la storia di David Reimer,
nato nel 1966 e morto suicida nel 2004 dopo un lungo processo di riassegnazione
di genere a seguito di un incidente, ci dà, materialmente, dolorosamente, conto
di che cosa significhi, davvero, tutto questo nell’esistenza degli esseri umani
in carne e ossa.
Un’agenda politica per l’oggi
L’aspetto
determinante di questa nuova edizione sta nella possibile riproposta di una
agenda politica che assuma le suggestioni di Butler. È questo, sopra ogni cosa,
il senso dell’operazione editoriale, a dieci anni di distanza. Tradurre,
inoltre, consiste nel produrre nella lingua di arrivo il più vicino equivalente
del messaggio nella lingua di partenza, in primo luogo nel significato e in secondo
luogo nello stile. Atto creativo esso stesso, come lavoro di reinterpretazione,
in stretta relazione con il contesto culturale che ha prodotto il testo. Ed è
evidente l’esistenza di un rapporto fruttuoso, di un dialogo tra Butler e il
curatore italiano, nella rispondenza contemporanea che nella postfazione di
Federico Zappino trovano temi tipicamente butleriani. La agency di
Butler de Sul desiderio di riconoscimento e L’‘Altro’
della filosofia può parlare?, che riannoda i fili che intercorrono tra desiderio/norme
sociali/potere/riconoscimento, diventa allora una riflessione sul Genere,
luogo precario, laddove si nota che “la precarietà, per le forme che assume
nel mondo contemporaneo, non è affatto una condizione egualitaria ma anzi
differenzialmente distribuita”. E allora, dentro gli inediti processi di
cattura neoliberali che fanno del diversity management e del pinkwashing strategie
per includere strumentalmente ma anche sopraffare e distruggere le differenze –
mantenendosi intatto il piano dell’ineguaglianza – l’articolazione di un gesto
di resistenza alle nuove forme di oppressione “deve trovare la propria
efficacia, non limitandosi alla denuncia di fenomeni o ordini discorsivi
(spesso immessi artatamente nel discorso pubblico)”. Di conseguenza, “se le
libertà e i desideri individuali possono essere disciplinati a un punto tale da
essere resi utili e funzionali a logiche che si fondano sull’ingiustizia –
ossia sulla distribuzione diseguale della precarietà, mediante la forclusione
dell’interdipendenza – meno suscettibile di disciplinamento e di manipolazione
è invece il concetto di ‘giustizia sociale’”.
Un
terreno del conflitto che “può ereditare da Butler un bagaglio concettuale
incommensurabile”, conclude Zappino. Cosicché, seguendo l’indicazione, a me
pare che il collegamento proposto da Butler tra autodeterminazione,
ripensamento di istituzioni di welfare e tutela del diritto di scelta per
esemplificare come “l’agency individuale intrattenga una relazione molto
stretta con la critica sociale e la trasformazione sociale”, ci metta, ancora
oggi, esattamente sulla strada giusta. Una pratica politica che ci parla di
resistenza al neoconservatorismo e al neoliberalismo, in grado di elaborare un
progetto antidentitario di “democrazia” radicale, che insista anche sulle
problematiche connesse ai mutamenti nelle strutture di parentela, senza ridurre
la parentela alla “famiglia” basata sul legame del matrimonio anche tra persone
dello stesso sesso, sulle condizioni per l’accesso all’istituto dell’adozione e
sulle tecnologie riproduttive, tutti temi percorsi dal libro.
La long
and winding road del femminismo conta anche su tali preziose
ripetizioni e rinsanguamenti. E questa Butler è quella meno dolente, quella più
politica pur mantenendo interamente la dimensione politica della
fragilità umana, quella che ci corrisponde di più. Quella che scrive, nel
capitolo La questione della trasformazione sociale: “Il fatto
che il femminismo si sia sempre interrogato sulla vita e sulla morte rivela la
sua natura filosofica. Che si ponga delle domande sul nostro modo di
organizzare la vita, il valore che le conferiamo, sulla maniera di preservarla
dalla violenza e di condurre il mondo e le sue istituzioni verso nuovi valori
significa che i suoi sforzi filosofici formano, in un certo senso, un tutt’uno
con l’obiettivo della trasformazione sociale”. Per queste parole, soprattutto,
l’abbiamo amata e l’amiamo.