domenica 28 dicembre 2014

La “nostra” Butler

di Cristina Morini

sull’attualità politica di Judith Butler (una recensione al libro curato da Federico Zappino, “Fare e disfare il genere”, Mimesis-2014). Una sorta di sistematizzazione delle riflessioni condotte sul genere e sulla sessualità dalla filosofa americana a partire dagli anni ‘90

Judith Butler si situa senz’altro tra le pensatrici contemporanee più amate dai femminismi degli ultimi anni. Da nord a sud, nel mezzo dei diversi posizionamenti, tra le sfumature e le articolazioni dei movimenti queer che si rintracciano nel mondo, Judith Butler c’è. Possiamo azzardarci ad affermare che il pensiero di Butler ha assunto, nel tempo, una specie di forza evocativa che va oltre se stessa, si è come reso indipendente dalla sua formazione e consente a ciascuna di prendere il respiro che serve dalle parole, nel rispecchiarsi. Anche, a volte, citata fuor di contesto, interpretata e “adoperata” prima che compresa nei suoi percorsi complessi, non sempre, tra l’altro, restituiti con correttezza dalle piegature delle traduzioni. Tuttavia, proprio per questo, capace di essere intimamente parte del presente agìto dei soggetti. Benché ogni sua pagina sia densa di riferimenti teorici compositi, si intuisce che tutto è vissuto, tutto l’ha letteralmente attraversata, che di esperienze incarnate e sofferte si nutre la sua appassionata disposizione politica, mai pienamente felice perché l’esperienza umana, per divenire veramente tale, si sostanzia della cognizione della perdita. Andrà aggiunto, certo, che l’approccio politico di Butler si è modificato dagli anni travolgenti di Scambi di genere (Gender Truble, 1990, approdato in Italia solo nel 2004) per raggiungere oggi un linguaggio del sensibile applicato alla vita corporea che l’ha portata a distillare riflessioni illuminanti dalle vite precarie alle profondità dell’Io, insistendo sulla politica del riconoscimento fino ad assumere, quasi, gli accenti etici di una filosofia morale, o l’ispirazione di un’umanissima, malinconica, poesia.
Questa disposizione, anche esplicitamente emotiva, non può essere disgiunta dalla lettura della traduzione del libro Undoing Gender che Federico Zappino ci ha regalato, curando per Mimesis una nuova edizione del testo, già uscito in Italia nel 2006 (Meltemi). Il titolo attuale scelto dal curatore per l’opera, Fare e disfare il genere, risponde perfettamente alla sollecitazione butleriana a dischiudere le possibilità dell’agire politico, insidiosamente precluse da posizioni che reputano le categorie dell’identità fondazionali e fisse. Ma non di una “disfatta del genere” si tratta, come incautamente tramandato dalla prima edizione italiana, perché il termine disfatta ha un significato immediatamente negativo nella nostra lingua, diversamente dall’inglese undoing. La pratica decostruttiva di Butler è lontana dall’idea di un’onnipotenza creatrice che consenta a ciascuno “di pensarsi e realizzarsi ex nihilo”, come nota Olivia Guaraldo nell’introduzione, la stessa del 2006. Nondimeno essa apre la possibilità di esistere ai soggetti neutralizzati dalle concezioni normative, sottoposti all’esperienza (decostruttiva ma anche costruttiva) del venire disfatti.
Guaraldo medesima scrive: “‘to do and undo one’s gender’ significa fare e disfare il genere non come si trattasse di un prodotto fatto e finito di cui ci si appropria o ci si sbarazza (…) il gender non è una fredda categoria di normalizzazione ma un ambito di azione individuale e collettivo che può e deve essere occupato e contestato da soggetti e da pratiche, a un tempo decostruttive e ri-costruttive”. Il genere, vuole dire Butler, è un processo performativo, storicamente contingente, mutevole, mai assoluto. Tale processualità, instabile e sociale, rinvia alla vulnerabilità umana e alla costitutiva relazionalità del soggetto.

Il diritto alla vivibilità
Rileggere allora, o leggere per la prima volta, questa raccolta di saggi, scritti tra il 2000 e il 2004, che mantengono intatta la propria, dirompente, attualità politica. Una sorta di sistematizzazione delle riflessioni condotte sul genere e sulla sessualità dalla filosofa americana a partire dagli anni Novanta. Muoviamo allora da una questione ancora in campo e che va messa a tema fino in fondo dal femminismo contemporaneo della Third Wave, se esso vuole davvero trovare modo di spingere avanti (la lotta e il pensiero insieme) e cioè di non farsi sussumere e svuotare dagli ordinamenti neoliberisti: le varie articolazioni del genere vanno assunte come un fattore politico “che porta con sé una serie di rischi sociali e fisici”, perciò il femminismo deve sforzarsi di superare i propri limiti, cioè l’assunto che la dominazione strutturale degli uomini sulle donne vada considerata punto di partenza di ogni altra analisi di genere, assumendo la concezione storica e performativa del genere e agendo un’alleanza più stretta con i movimenti antiomofobici, antirazzisti, trans e intersessuali. Lo scopo politico che attraversa tutto il testo è quello rivendicare fino in fondo il diritto alla vivibilità: “e non mi riferisco solo a quando”, scrive in Fuori da sé sui limiti dell’autonomia sessuale, “ci chiediamo che cosa renda sopportabile la nostra vita ma anche a quando, da una certa posizione di potere, ci chiediamo che cosa renda, o dovrebbe rendere, la vitaaltrui sopportabile”. La sensibilità filosofica di Butler muove dai luoghi nascosti del suo vissuto: le interrogazioni sul problema dell’umano e sulle vite che contano e su quelle che invece nulla valgono, sulla vulnerabilità del corpo – strumento di agency ma anche ambito “dove i confini tra agire e subire si fanno più rarefatti”- deriva dai lutti per l’Aids sofferti dalla comunità gay e lesbica internazionale in quegli anni, così come dallo shock degli Usa dopo l’attentato alle torri gemelle del 2001.
Evidentemente, come si argomenta in Regole di genere, la nozione di vivibilità viene impedita a monte dalle norme che imbrigliano il genere “che non rappresenta esattamente quello che si è e neppure quello che si ha ma un sistema attraverso cui hanno luogo la produzione e la normalizzazione del maschile e del femminile”. Produzione di un binarismo contingente che ha un prezzo per il soggetto, proprio in termini di vita vivibile, resa da Butler con bellissima immagine: “il genere è la forma cristallizzata che assume la sessualizzazione dell’ineguaglianza”. Produzione, anche, di “parametri della soggettività”, ossia “creazione di persone che siano conformi a norme astratte, le quali condizionano e al tempo stesso eccedono le vite che creano e distruggono”. Nel capitolo terzo, la storia di David Reimer, nato nel 1966 e morto suicida nel 2004 dopo un lungo processo di riassegnazione di genere a seguito di un incidente, ci dà, materialmente, dolorosamente, conto di che cosa significhi, davvero, tutto questo nell’esistenza degli esseri umani in carne e ossa.

Un’agenda politica per l’oggi
L’aspetto determinante di questa nuova edizione sta nella possibile riproposta di una agenda politica che assuma le suggestioni di Butler. È questo, sopra ogni cosa, il senso dell’operazione editoriale, a dieci anni di distanza. Tradurre, inoltre, consiste nel produrre nella lingua di arrivo il più vicino equivalente del messaggio nella lingua di partenza, in primo luogo nel significato e in secondo luogo nello stile. Atto creativo esso stesso, come lavoro di reinterpretazione, in stretta relazione con il contesto culturale che ha prodotto il testo. Ed è evidente l’esistenza di un rapporto fruttuoso, di un dialogo tra Butler e il curatore italiano, nella rispondenza contemporanea che nella postfazione di Federico Zappino trovano temi tipicamente butleriani. La agency di Butler de Sul desiderio di riconoscimento e L’‘Altro’ della filosofia può parlare?, che riannoda i fili che intercorrono tra desiderio/norme sociali/potere/riconoscimento, diventa allora una riflessione sul Genere, luogo precario, laddove si nota che “la precarietà, per le forme che assume nel mondo contemporaneo, non è affatto una condizione egualitaria ma anzi differenzialmente distribuita”. E allora, dentro gli inediti processi di cattura neoliberali che fanno del diversity management e del pinkwashing strategie per includere strumentalmente ma anche sopraffare e distruggere le differenze – mantenendosi intatto il piano dell’ineguaglianza – l’articolazione di un gesto di resistenza alle nuove forme di oppressione “deve trovare la propria efficacia, non limitandosi alla denuncia di fenomeni o ordini discorsivi (spesso immessi artatamente nel discorso pubblico)”. Di conseguenza, “se le libertà e i desideri individuali possono essere disciplinati a un punto tale da essere resi utili e funzionali a logiche che si fondano sull’ingiustizia – ossia sulla distribuzione diseguale della precarietà, mediante la forclusione dell’interdipendenza – meno suscettibile di disciplinamento e di manipolazione è invece il concetto di ‘giustizia sociale’”.
Un terreno del conflitto che “può ereditare da Butler un bagaglio concettuale incommensurabile”, conclude Zappino. Cosicché, seguendo l’indicazione, a me pare che il collegamento proposto da Butler tra autodeterminazione, ripensamento di istituzioni di welfare e tutela del diritto di scelta per esemplificare come “l’agency individuale intrattenga una relazione molto stretta con la critica sociale e la trasformazione sociale”, ci metta, ancora oggi, esattamente sulla strada giusta. Una pratica politica che ci parla di resistenza al neoconservatorismo e al neoliberalismo, in grado di elaborare un progetto antidentitario di “democrazia” radicale, che insista anche sulle problematiche connesse ai mutamenti nelle strutture di parentela, senza ridurre la parentela alla “famiglia” basata sul legame del matrimonio anche tra persone dello stesso sesso, sulle condizioni per l’accesso all’istituto dell’adozione e sulle tecnologie riproduttive, tutti temi percorsi dal libro.
La long and winding road del femminismo conta anche su tali preziose ripetizioni e rinsanguamenti. E questa Butler è quella meno dolente, quella più politica pur mantenendo interamente la dimensione politica della fragilità umana, quella che ci corrisponde di più. Quella che scrive, nel capitolo La questione della trasformazione sociale: “Il fatto che il femminismo si sia sempre interrogato sulla vita e sulla morte rivela la sua natura filosofica. Che si ponga delle domande sul nostro modo di organizzare la vita, il valore che le conferiamo, sulla maniera di preservarla dalla violenza e di condurre il mondo e le sue istituzioni verso nuovi valori significa che i suoi sforzi filosofici formano, in un certo senso, un tutt’uno con l’obiettivo della trasformazione sociale”. Per queste parole, soprattutto, l’abbiamo amata e l’amiamo.