di Mimmo
Sersante
senza nascondere la delusione politica sulla
ricostruzione dell’operaismo fatta da Sergio Bologna (vedi Operaismo e postfordismo, pubblicato anche sulle ns. pagine), l’articolo arricchisce un dibattito
da tempo in corso, rimettendo al centro della vicenda operaista la pratica della
ricerca militante e il suo saper stare dentro le lotte, come radice fondativa comune -teorica e metodologia- capace di stare al passo con lo sviluppo del conflitto, fino ad
anticipare sul terreno delle analisi le determinazioni soggettive ricompositive della lotta
di classe
«Gli scritti della tradizione operaista
non sono destinati alla mera lettura o alla mera propaganda, il loro rigore
scientifico non è destinato alla valutazione accademica, il loro messaggio è un
messaggio puramente politico, esso deve produrre azione, mobilitazione,
conflitto, confronto».
Giusto. Sergio fa parte a pieno titolo di
questa tradizione, e fin dai suoi primissimi anni. Ed era vero allora che i
suoi saggi e i suoi interventi alimentavano il conflitto, producevano azione.
In particolare durante gli anni settanta, fu il suo progetto di una
storiografia militante a colpire nel segno e ad aprirci nuovi orizzonti. I
primi numeri di «Primo Maggio» restano un autentico fiore all’occhiello del
nostro marxismo operaista. Oggi non possiamo nascondere la delusione leggendo
questo suo articolo sul post operaismo italiano. Forse che il lettore inglese
ha una soglia di tollerabilità più bassa del lettore italiano sì da doverlo
proteggere da quel tipo di contagio? In questa sua ricostruzione c’è lo storico
delle idee ma è scomparso il militante e con lui anche la talpa operaista che
in verità sembra, scorrendo queste sue pagine, che non abbia mai scavato,
neppure durante gli anni settanta. Ma se di Italian Theory è lecito
parlare oggi, è perché essa è stata una ben precisa pratica teorica che non ha
mai prescisso dalle lotte. Come altrimenti spiegarci la capacità dei nostri
operaisti di stare al passo coi tempi fino ad anticipare sul terreno delle
analisi il post fordismo? Certo, quella cassetta d’attrezzi è tornata
utile per cogliere tutta intera la portata della sconfitta operaia e decifrare
il cambiamento di paradigma del capitale lungo gli anni Ottanta evitando a
quanti ad essa attingevano l’onta della deriva neoliberista.
È proprio
Sergio a ricordarcelo con un lungo rosario di nomi di resistenti di ieri e di
oggi, tanto più cari alla nostra memoria se defunti. L’affetto di Sergio è
riservato ovviamente ai pochissimi intimi, in particolare a Primo Moroni,
«grandissimo affabulatore, [che] non ha scritto molto ma ha rilasciato molte
interviste e testimonianze [e senza il quale] l’operaismo non avrebbe mai
raggiunto le giovani generazioni dell’èra digitale». Dall’elenco mancano
moltissimi altri, che pur di Sergio sono stati e sono intimi e pur grandissimi
affabulatori. E che furono promotori del movimento di Autonomia e
teorici dell’emergente “operaio sociale”. Ora, da questi compagni Bologna
prende le distanze. Lo fa insistendo sul fatto che la sua storia dell’operaismo
è condotta da un punto di vista soggettivo. Riconoscimento apprezzabile. Non
crediamo tuttavia che ciò dipenda da una particolare acribia storica (è già
nella «Tribù delle talpe» del ’78 la rivendicazione di una «mappa
dell’ultrasinistra» diversa da quella descritta dai giudici e dai repressori
dell’Autonomia) e tantomeno crediamo che si tratti di opportunismo politico (a
che scopo, oggi?): si tratta piuttosto di una diversa posizione rispetto al
ruolo che l’operaismo riserverebbe all’intellettuale. Per Bologna sarebbe
quello di imparare dagli operai, saperli ascoltare, trasmettere loro strumenti
di pensiero e di analisi, sempre rispettando il suo proprio ruolo; insomma
«concepire se medesimo come una cellula di una struttura di servizio». Di
contro, l’intellettuale autonomo, impegnato in un’ “attività continua di franco
tiratore, di sabotatore, di assenteista, di deviante, etc, etc. La
discriminante è tutta qui, in questa diversa idea di militanza di cui
l’intellettuale deve farsi carico. Non stupisce allora che Bologna assegni al
suo intellettuale l’onore e l’onere dell’attraversamento del lungo inverno
neoliberista. Se «Primo Maggio» fa da apripista, altre riviste la seguono a
ruota, da «Decoder» a «Altreragioni», tutte riconducibili allo zoccolo duro di
questa intellighenzia capace di fomentare negli ultimi vent’anni i movimenti e
di ascoltare, lei e lei sola, i precari e i lavoratori del cognitariato
scoperti, fotografati e catalogati non a caso da Sergio e da pochi suoi intimi.
E va ancor bene! Ma poi si esagera, quando con la presentazione della figura
del lavoratore indipendente, vale a dire del freelance e del self employed, la
ricostruzione si provincializza restringendosi a uno spazio locale. Tutto si
concentra attorno a Milano, il tono, mi fa notare qualcuno, si fa milanista.
ACTA con i suoi 2000 soci diventa l’erede designata avendo recepito il
meglio delle analisi post operaiste e occupato lo spazio lasciato vuoto
dai sindacati e dai partiti di sinistra. Una struttura se non propriamente
sindacale, certamente parasindacale, apolitica per via delle caratteristiche
dei self employed, modellata sulla composizione tecnica di questo
referente, insomma una specie di sindacato di mestiere organizzato su
base regionale per sostenere un particolare lavoro professionale nelle grandi
questioni del welfare, del fisco e dei diritti. Di nuovo l’idea di struttura di
servizio per rendere consapevoli della loro identità di lavoratori i
professionisti indipendenti! Si permetta anche a noi qui un «punto di vista
soggettivo», scilicet di ironia. C’è infatti da stupire che Aldo Bonomi
non sia ricordato come cellula realizzata di questo progetto. Ma ritorniamo
all’oggetto: è possibile che la storia dell’operaismo, e in particolare del
post operaismo, sia tutta qui, che questa sia la sua trama? Trama tessuta col
filo della sola memoria personale mentre le forme di lotta e di organizzazione
– vecchie e nuove – messe in campo dall’operaismo stanno a dimostrare che
davvero non è andata così. Da Genova in poi l’esperienza e la storia di
almeno un paio di generazioni stanno a mostrarlo. Ma già prima, molto prima. La
storia della galera e dell’esilio (esilio al quale Sergio Bologna non s’è
sottratto) è troppo importante perché possa esser dimenticata. La biforcazione
fra tesi piattamente sociologiche e sindacali dell’«intellettualità di massa» e
ipotesi politiche ancora tutte aperte (ma altre non ce ne sono) sul
protagonismo e l’egemonia di quella figura si è costruita in quella fase. Do
you remember revolution?