di
Roberto Polidori e Nadia Garbellini*
a
Taranto il problema non è solo economico: è centrale la tutela dell’ambiente e,
soprattutto, della salute. Tuttavia la produzione di
acciaio non comporta necessariamente le esternalità negative prodotte dalla
gestione Riva, conseguenza della carenza di investimenti
La
vicenda di ILVA deve essere l’occasione per discutere le conseguenze economiche
e sociali delle politiche Europee. A chi afferma che ILVA non si può
nazionalizzare perché i trattati non lo consentono, è possibile opporre
numerosi argomenti, tanto politici quanto economici.
Come
riportato da Luigi Pandolfi, dal 2008 al 2013, mentre
ingenti patrimoni privati venivano salvati con centinaia di miliardi di euro
pubblici, i PIIGS operavano tagli strutturali a welfare e
sanità per 230 miliardi di Euro, un’enorme redistribuzione di ricchezza diretta
da Commissione Europea, BCE e Fondo Monetario Internazionale.
Questa
Europa, come dice Colin Crouch [C. Crouch, Quanto capitalismo può sopportare la società, Laterza 2014, p. 28], è
il trionfo del liberismo reale, che “produce un’economia
politicizzata molto distante da ciò che gli economisti intendono per economia
liberale”. Gruppi di interesse privati accentrano capitale attraverso
l’attività di lobbying, concentrando la produzione nel centro e distruggendo
capacità produttiva “in eccesso” nelle aree periferiche, depredandone le
risorse ambientali e creando disoccupazione. Emiliano
Brancaccio ha spiegato il processo di germanizzazione dei
capitali (o mezzogiornificazione dell’Europa)
sottolineando come anche aziende competitive possano essere spazzate via in
questo processo di desertificazione industriale.
Un
esempio attualissimo nel settore degli acciai è la AST: unico sito italiano di acciai speciali,
uno dei più produttivi al mondo, stava chiudendo non per mancanza di commesse
ma perché la finlandese Outokumpu è stata costretta a vendere gli impianti alla
tedesca Thyssen, avendo l’Antitrust deciso che in caso contrario avrebbe
ottenuto una posizione dominante. Prima dell’intervento del governo, che ha
mediato l’accordo con i sindacati, Thyssen aveva deciso di concentrare la
produzione in Germania, licenziando 2600 lavoratori in Italia. Si sarebbe
dovuto permettere che AST fallisse?
La
Germania non ha lasciato fallire Commerzbank, stanziando 14 miliardi di euro
pubblici a fondo perduto, così come non ha lasciato fallire Opel. La KFW
tedesca – la nostra Cassa Depositi e Prestiti – detiene il 31% di Deutsche
Telekom. Nel silenzio assoluto è passato anche il salvataggio di Peugeot,
nazionalizzata dallo stato francese con l’importante contributo di quello
cinese e la benedizione della Commissione Europea. Il concetto di “libera
concorrenza” gradita agli oligopoli europei è dunque molto lontano dal laissez
faire.
Dal rapporto SVIMEZ (2014) emerge uno scenario
desolante. Una la ricetta: investimenti pubblici, gli unici possibili quando i
privati non mettono sul piatto un solo euro di investimenti anche se i tassi di
interesse sono a zero. In Germania, a Duisburg, è stato possibile bonificare i
territori e riconvertire un impianto siderurgico da 9 milioni di
tonnellate. Perché in Italia non si può?
Chi
scrive è consapevole che a Taranto il problema non è solo economico: è centrale
la tutela dell’ambiente e, soprattutto, della salute. Tuttavia, come già sottolineato,
la produzione di acciaio non comporta necessariamente le esternalità negative
prodotte dalla gestione Riva, conseguenza della carenza di investimenti. Ciò
impone un’ulteriore osservazione: le stime che stiamo per fornire si basano su
una proiezione della situazione attuale. In presenza di investimenti, e
relativi effetti moltiplicativi, salvare ILVA porterebbe benefici ben maggiori
di quelli qui stimati.
Alla
luce delle cifre in gioco, eventuali sanzioni per aiuti di Stato appaiono
ridicole. L’Italia ha 102 procedure di infrazione aperte nel 2014, contro una
sessantina di Germania e Francia. Nel solo mese di settembre sono apparsi 39
pareri motivati e 4 deferimenti alla Corte di Giustizia, mentre le decisioni
totali della Commissione sono state 147, a dimostrare la facilità con cui i
paesi europei spesso decidano di non rispettare le regole: si tratta di una
scelta, e di una scelta politica.
Prima
di entrare nel dettaglio, è utile fare alcune premesse.
In
primo luogo, l’analisi che segue si basa sulle tavole Input-Output relative al
2010 – le più recenti pubblicate dall’Istat – e su dati aggiuntivi tra cui il
bilancio di ILVA dello stesso anno. Da questi ultimi si evince che ILVA
rappresenta circa l’8% dell’intero settore metallurgico nazionale; poiché il
Pil di quest’ultimo ammonta allo 0.59% del totale – oltre 9,5 miliardi di euro
– si può stimare che ILVA partecipa alla produzione del reddito nazionale nella
misura dello 0.05% circa – oltre 750 milioni di euro.
Questi
numeri – già rilevanti, considerando le stime di crescita per il 2015 – non
bastano però a misurare l’effetto sul sistema produttivo italiano di
un’eventuale chiusura di ILVA, che non solo produce acciaio utilizzato come
input da altre industrie manifatturiere, ma è a sua volta a capo di un indotto
che inevitabilmente si contrarrebbe. Se è impossibile quantificare esattamente
i due effetti, se ne può stimare l’ordine di grandezza sulla base della
struttura produttiva esistente.
Considerando
il peso di ILVA nel comparto e il fatto che il 16% della sua produzione è
destinato all’esportazione (contro una media del 37%), si stima che ILVA
contribuisce per il 4.67% alla produzione della domanda finale del
comparto. In termini di occupazione (Istat, occupazione per branca) lo
stabilimento di Taranto occupa circa 9000 unità full time equivalent.
Per misurare gli effetti indiretti, si deve però considerare l’intero subsistema;
alle 9000 unità impiegate direttamente si devono aggiungere altre 16000 circa,
di cui 2200 nel comparto Commercio all’ingrosso; oltre 1600 nel
settore Trasporto terrestre; quasi 1300 in Attività legali
e contabilità; quasi 1200 in Servizi di investigazione, vigilanza,
amministrativi; oltre 1000 nella Fabbricazione di prodotti in
metallo.
Per
avere un’idea più precisa degli effetti di lungo periodo, è poi possibile
stimare (sebbene in modo approssimativo) le tavole Input-Output che potrebbero
emergere a seguito della chiusura di ILVA: ciò condurrebbe a una perdita
di Pil nell’ordine dello 0.24%, cioè quasi 4 miliardi di euro al 2013. La
perdita di posti di lavoro ammonterebbe invece a circa 50.000 unità full
time equivalent, oltre 5 volte l’occupazione diretta dello stabilimento di
Taranto.
Veniamo
infine alla bilancia commerciale. In base alla stima sopra riportata, le
importazioni intermedie aumenterebbero di circa 2 miliardi e 385 mila euro. Le
esportazioni, per contro, diminuirebbero di poco più di un miliardo di euro.
Immaginando che l’acciaio importato abbia lo stesso prezzo di quello prodotto
da ILVA, la chiusura condurrebbe ad un deterioramento della bilancia
commerciale per circa 3,5 miliardi di euro.
Il
Governo, e in particolare il Ministero dello Sviluppo Economico, ha
recentemente ventilato l’ipotesi di applicare anche a Taranto il “modello
Alitalia”: nazionalizzare l’impresa, risanarla, e rivenderla presumibilmente a
un gruppo straniero. Chi scrive ritiene invece che sarebbe opportuno mantenere
ILVA sotto controllo pubblico. Per farlo, naturalmente, occorrerebbe un
progetto di politica industriale che punti al rilancio del sistema produttivo
italiano partendo, perché no, proprio da Taranto. Purtroppo, sembra chiaro come
un progetto del genere sia ben lontano dalle priorità del Governo.
*
Università di Bergamo
Fonte:
Economia e Politica