di
Francesco Raparelli
I tanti Laboratori per
lo sciopero sociale, nati un po' ovunque in Italia e anche in alcune metropoli
europee (Berlino e Parigi ad esempio), hanno reso possibile le straordinarie mobilitazioni
del 14 novembre a partire dalla connessione tra precari e lavoratori
dipendenti, sindacati di base e nuovi dispositivi sindacali, movimenti per la
difesa dei beni comuni e studenti. Unità nel conflitto, unità per il conflitto
«È
stato calcolato e progettato un disegno in queste settimane per dividere il
mondo del lavoro, farne terreno di scontro. [...] Ma non esiste una
doppia Italia, esiste un'Italia unica e indivisibile, che si faccia il
lavoratore o l'imprenditore, e questa Italia non consentirà di scendere nello
scontro». Sono queste le parole di Renzi, utilizzate per scaldare la platea di
Confindustria a Brescia, il 4 novembre, mentre fuori procedevano le
contestazioni da parte di movimenti e metalmeccanici. La CGIL, sentendosi
chiamata in causa, ha subito precisato che il Paese lo divide il Governo, di
certo non lo fa il sindacato. Figurarsi.
Poi,
il 14 novembre, è arrivato lo sciopero sociale e generale e il Paese,
finalmente, è stato diviso. È emersa in primo piano, cioè, la disuguaglianza
insopportabile, tra chi vive di lavoro precario, con 500-600 euro al mese, e
chi, dopo aver fatto affari in Italia, sposta i suoi profitti miliardari nei
paradisi fiscali europei, Lussemburgo o Irlanda. E dunque la frattura e il
conflitto tra nuovi e vecchi poveri, da una parte, e le corporation
multinazionali, le banche d'investimento, i fondi pensione, gli agenti dello
sfruttamento e della rendita, dall'altra. L'unità dei produttori senza
distinzioni di classe, il sogno e l'obiettivo del Partito della Nazione, da
ieri è meno solida.
Così
come è ancora più chiaro che Renzi, nonostante la forza della sua narrazione
tossica, non parla a nome di precari e partite Iva. Anzi, in oltre 40 città,
tra picchetti, cortei, blocchi della circolazione e molto altro, decine di
migliaia di giovani e meno giovani, studenti e disoccupati, lavoratori autonomi
di nuova generazione e Neet, hanno urlato con forza: “non in nostro nome”! Se è
vero che i sindacati confederali (CGIL in testa) non hanno fatto nulla
nell'ultimo ventennio per impedire il processo di precarizzazione selvaggia e
impoverimento di un'intera generazione, è altrettanto vero che la Legge Poletti
e il Jobs Act hanno come obiettivo principale quello di rendere il lavoro
irreversibilmente più ricattabile, docile, sotto-pagato, servile.
Esistono
divisioni buone e divisioni cattive. Le divisioni cattive sono quelle che
abbiamo visto drammaticamente in scena a Tor Sapienza, dove lo scontro è tra
poveri e segue la linea del colore. Queste divisioni non preoccupano Renzi,
perché sono funzionali alla governance neoliberale, la stessa che distrugge le
periferie tra tagli al welfare e privatizzazione dei servizi. Ci sono poi le
fratture buone, quelle capaci di unire, in particolare di connettere le diverse
figure del lavoro segnate da salari da fame, insicurezza, sofferenza. I tanti
Laboratori per lo sciopero sociale, nati un po' ovunque in Italia e anche in
alcune metropoli europee (Berlino e Parigi ad esempio), hanno reso possibile le
straordinarie mobilitazioni del 14 novembre a partire dalla connessione tra
precari e lavoratori dipendenti, sindacati di base e nuovi dispositivi
sindacali, movimenti per la difesa dei beni comuni e studenti. Unità nel
conflitto, unità per il conflitto.
Tra
le cose che più spaventano il Partito della Nazione e i poteri costituiti, da
Bagnasco al Viminale, dal Corsera a Confindustria, è che lo sciopero sociale
sia un processo di inedita sindacalizzazione diffusa. Non è possibile ridurlo,
nonostante non manchino i tentativi, al protagonismo di questo o quel partitino
antagonista, a questo o a quel leader, ma è stato piuttosto l'esito di una
sperimentazione, anche comunicativa, con pochi precedenti. Uno spazio comune –
non appropriabile, abitato da tanti e diversi, come tanti e diversi sono i
poveri del nostro tempo – capace di mettere al centro, del discorso e delle
pratiche, la lotta dentro e fuori il lavoro, per un welfare universale, per il
salario minimo e il reddito di base. Lo spazio, al momento, è prevalentemente
nazionale, questa la sua insufficienza, ma le azioni di Berlino e Parigi
alludono materialmente a una probabile e necessaria estensione europea. Anche
in Europa, infatti, ci sono due divisioni possibili: la frammentazione spaziale
e monetaria, fatta di violenza razzista, che hanno in testa Le Pen e Salvini;
il conflitto tra la moltitudine dei poveri e le tecnocrazie neoliberali che
solo uno sciopero sociale europeo può far emergere in primo piano.
Il
14 novembre è stato un debutto, un successo al di sopra delle aspettative, ma di
certo un debutto. Ora si tratta di trasformare la sorpresa in forza e
organizzazione capace di estendersi e durare nel tempo. È la catastrofe non
congiunturale della nostra epoca a richiedere tanta ambizione.
pubblicato
su huffingtonpost