Lelio Demichelis
Syriza in
Grecia. E ora, in Spagna, Podemos.
Un movimento di sinistra radicale diventato partito, con una crescita dei
consensi spettacolare che in pochi mesi lo hanno fatto diventare, secondo i
sondaggi il primo partito nazionale, scardinando il pensiero unico di popolari
e socialisti e dando alla Spagna una possibile via d’uscita non populista alla
crisi innescata dalle politiche neoliberiste europee. Dunque, forse l’Europa
non morirà neoliberista ma resusciterà democratica e neokeynesiana
Democratica
in termini di democrazia politica e soprattutto di democrazia economica. Molti
cominciano a capire che quel capitalismo che aveva promesso cose mirabolanti
offrendo prima i gettoni del telefono e ora l’iPhone, quel capitalismo che li
aveva vezzeggiati e coccolati accettando di democratizzarsi almeno un poco
negli anni 1945-1979 (i trenta gloriosi), producendo benessere, attivando un
efficiente sistema di ascensori sociali, ridistribuendo i redditi e controllando
i mercati, oggi non si pone problemi (per salvare se stesso e disciplinare e
assoggettare individui e società) nell’imporre un poderoso impoverimento di
massa, nel rivendicare tutto il potere per sé, nel far ridiscendere negli
scantinati coloro che erano saliti sui vecchi ascensori sociali.
Ma
questa non è una eterogenesi dei fini, è un altro modo capitalistico di
raggiungere gli stessi fini (la propria egemonia come capitalismo), ovvero la
trasformazione del cittadino/soggetto della rivoluzione francese in oggetto
capitalista della rivoluzione industriale (lavoratore e consumatore prima, oggi
imprenditore di se stesso e consumatore e nodo di una rete) – posto che il
capitalismo vuole essere una antropologia non limitandosi ad essere solamente
un’economia. E per questo non cessa di addestrare ciascuno a diventare uomo
economico, merce in vetrina e capitale umano. Oggi con flessibilità e
precarietà di lavoro e di vita perché tutti si adeguino just in time alle
esigenze dei mercati. Alla fine, il capitalismo sembra avere appunto
conquistato l’egemonia, culturale oltre che economica, il neoliberismo di
questi ultimi trent’anni essendo una nuova fase estremistica del vecchio
capitalismo.
Forse
(forse) non moriremo neoliberisti, ma certo Grecia, Spagna e un pezzo d’Italia
(una parte del sindacato, fatta non solo di pensionati e di nostalgici del
vecchio lavoro novecentesco secondo le retoriche renziane, ma anche di giovani
e studenti che non sanno cosa siano i gettoni del telefono ma sanno benissimo
cosa sia il neoliberismo in termini di precarizzazione, disuguaglianze,
oligarchie), sono ancora poca cosa rispetto alla violenza strutturale del
neoliberismo (del capitalismo), come evidente dai risultati delle elezioni di
mid-term americane e dal trionfo dei repubblicani e del populismo del denaro e
dell’egoismo.
Ma
se il capitalismo vuole essere un’antropologia prima che un modello economico,
allora la battaglia di contrasto in nome di libertà e democrazia è in primo
luogo culturale e politica. E per questo è utile l’ultimo saggio breve di Marco
Revelli, uscito negli Idòla di Laterza e chiarissimo già nel
titolo: La
lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi. Vero! Un saggio
(ricchissimo di dati e di analisi empiriche) che si lega a precedenti letture
simili della crisi, come quelle di Mario Pianta, Luciano Gallino, Joseph
Stiglitz e ora anche Thomas Piketty.
Per
un certo capitalismo, ricorda Revelli analizzando in particolare la curva di
Laffer e la curva di Kuznets (modelli scientificamente inconsistenti ma molto
alla moda negli anni scorsi), la disuguaglianza o almeno una certo tasso di
disuguaglianza è necessaria per garantire lo sviluppo economico. Così come un
elevato tasso di inquinamento nelle fasi di decollo dell’economia, destinato
poi ad essere riassorbito con il miglioramento delle tecnologie utilizzate e il
benessere prodotto. E invece oggi le disuguaglianze sono cresciute, la crisi
globale è pesantissima e anche l’ambiente non sta troppo bene, come
sintetizzato drammaticamente dall’ultimo rapporto dell’Ipcc dell’Onu.
Prometteva
grandi cose, il neoliberismo, ultima ideologia del ‘900 tracimata disastrosamente
nel nuovo secolo. Grazie all’happy end promesso dalla teoria del gocciolamento,
ovvero: una politica favorevole ai più ricchi finirebbe per produrre effetti
positivi sull’insieme, gocciolando appunto dall’alto verso il basso, anche
sulle fasce basse della popolazione per “una sorta di forza di gravità
naturale, senza che l’intervento dello Stato arrivi a turbare o inceppare il
meccanismo”.
È accaduto
esattamente il contrario, a dimostrazione, aggiungiamo, che gli economisti
neoliberisti erano e sono apprendisti stregoni che hanno giocato e ancora
giocano irresponsabilmente con la magia della mano invisibile, in realtà
perfettamente coerenti e funzionali a quella (Revelli) “opzione disegualitaria
(o, più apertamente, anti-egualitaria) che è stata – e in buona misura continua
ad essere, anche se più mascherata – parte integrante della dogmatica
neoclassica che ha offerto il proprio hardware teorico all’ideologia
neoliberista fin dall’origine della sua lotta per l’egemonia, alla fine degli
anni Settanta e per tutto il corso degli anni Ottanta del secolo scorso”.
L’uguaglianza
non era più una virtù illuministica (virtù che era stata “l’idea regolativa
sulla quale si erano orientate le politiche pubbliche dell’Occidente
democratico e le stesse Carte costituzionali dei paesi civili”), ma appunto
diventava un vizio da rimuovere. Rovesciando il precedente paradigma
socio-economico orientato alla costruzione di una società giusta e producendo
al suo posto un nuovo paradigma basato sulla centralità del mercato e quindi su
una società doverosamente ingiusta. Una lotta di classe vinta dunque dai ricchi
contro tutti gli altri (che gliela hanno lasciata vincere senza reagire,
affascinati dalle promesse del capitalismo consumistico prima e finanziario e
in rete poi).
Revelli
cita Keynes e la sua metafora delle giraffe: “Se lo scopo della vita è di
cogliere le foglie degli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo
migliore per raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo
più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto”. Ma questo è
appunto il capitalismo. Vecchio o nuovo che sia. Resta allora validissimo il
monito sempre di Keynes a non trascurare “le sofferenze delle giraffe dal collo
più corto, che sono affamate, né le dolci foglie che cadono a terra e che
vengono calpestate nella lotta, né la supernutrizione delle giraffe dal collo
lungo, né il cattivo aspetto di ansietà e di voracità combattiva che copre i
miti visi del gregge”.
Marco
Revelli, La
lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi. Vero! , Laterza (2014)
pp. 96
€ 9.00
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