di Augusto Illuminati
«nella Rojava il femminismo è incarnato non soltanto
nei corpi delle guerrigliere in armi, ma anche nel principio della
partecipazione paritaria a ogni istituto di autogoverno, che ogni giorno mette
in discussione il patriarcato. E l’autogoverno, pur tra mille contraddizioni e
in condizioni durissime, esprime davvero un principio comune di cooperazione,
tra liberi e uguali. E ancora: coerentemente con la svolta anti-nazionalista
del PKK di Öcalan, a cui le YPG/YPJ sono collegate, netto è il rifiuto non solo
di ogni assolutismo etnico e di ogni fondamentalismo religioso, ma della stessa
declinazione nazionalistica della lotta del popolo curdo» (S. Mezzadra, in Kobane è sola?)
Si
ha a volte l’impressione, leggendo le cronache mediorientali, di un fiume in
piena che trascina relitti di tutte le specie, cadaveri e pezzi di vita
strappati a monte dal loro contesto e tumultuosamente accavallati, a sorpresa e
minaccia di chi sta a valle. Una storia altra che irrompe
nella nostra, perturbandola. Qui emerge tutto il nostro deficit di memoria e
comprensione, una coscienza occidentale ed eurocentrica che ha perso –o meglio
rigettato nella dimensione dell’esterno, dell’alieno– ogni consapevolezza del
mondo comune, che ha assemblato tutta la logica artificiale dei confini in un
unico e ormai sgretolato vallo di difesa.
Anche
il militante di sinistra più benintenzionato –quello che solidarizza con
l’epopea di Kobanê e scopre nella carta di Rojava un documento avanzato, anzi
in anticipo sulle nostre pratiche– può restare perplesso di fronte al suo
solenne esordio: «Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di
Afrin, Cizre e Kobanê, una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei,
turcomanni, armeni e ceceni, liberamente e solennemente proclamiamo e adottiamo
questa Carta». Con ulteriore insistenza, art. 3, comma C, sulla condivisione
della regione mista di Cizre «tra arabi, curdi, assiri, armeni, ceceni;
musulmani, cristiani e yazidi, secondo il principio della convivenza pacifica e
della fratellanza». E ancora il riconoscimento, art. 9, come lingue ufficiali
del curdo, arabo e assiro, la parità dei culti religiosi rafforzato
dall’esplicita menzione (art. 32, comma C) della religione yazida, finora
ignorata dalla prassi di tolleranza (subalterna) concessa nell’Islam alle
religioni del Libro, cioè monoteiste.
L’europeo
medio di oggi (non parliamo dei bestioni con corna celtiche e mazzacinghia)
avverte questi nomi come esotici, al massimo con umana simpatia per le vittime
omonime di cui appaiono le immagini nei massacri mesopotamici e nei quotidiani
arrivi dei barconi sulle coste siciliane. Non ha più la familiarità con i popoli
d’Armenia e di Siria di un lettore di Tacito o di Ammiano Marcellino, non sente
il dualismo yazida come avrebbe fatto il giovane manicheo Agostino: forse solo
un’élite della Chiesa decifra le dottrine di assiri e caldei e ricorda che
l’assiro-aramaico era parlato dall’agitatore Gesù di Nazareth. La storia
eurocentrica si è amputata di una parte considerevole del proprio passato, si è
ridotta a somma di storie nazionali, assemblate e “superate” dal
pensiero unico neo-liberale nella sua variante perdente, quella targata Bce. Il
resto ci arriva come l’esondazione di un fiume o l’invasione di una massa di
derelitti in cerca d’asilo –in effetti anelanti solo a traversare il nostro
paese per rifugiarsi in altri più accoglienti.
Facciamo
allora un passo indietro, per reintegrare il nostro senso della storia e
soprattutto per liberarci dall’inquinamento: l’ossessione nazional-statale (con
corollari razziali e religiosi) che ha impregnato la politica dei colonizzatori
del Medio Oriente e purtroppo ha contagiato i colonizzati, con il risultato di
decine di milioni di morti in Europa, Anatolia e Mesopotamia. Rojava, in
positivo, sarà una cartina di tornasole, al modo del Chiapas per le tormentate
vicende latino-americane.
Nel
XIX secolo l’Impero ottomano era un mosaico di etnie, lingue e religioni con
una classe dirigente turco-sunnita che si avvaleva di un largo contributo delle
minoranze in regime di dispotismo, equilibrando con massacri mirati gli assalti
del colonialismo russo nel Caucaso, di quello inglese in Egitto e
dall’irredentismo slavo nei Balcani e greco nelle isole dell’Egeo,
sponsorizzati dalle potenze europee che si atteggiavano a protettori dei
cristiani. Il sultano Abdul Hamid II nella seconda metà dell’Ottocento dovette
fronteggiare lo sfacelo finanziario e territoriale dell’Impero e un emergente
movimento nazionalista e riformatore al proprio interno (i Giovani Turchi). Lo
fece barcamenandosi con i soliti mezzi: promesse di riforme (la Costituzione
del 1876, la sua sconfessione autoritaria, il rilancio del Califfato,
l’alleanza con la Germania e beninteso selvaggi massacri contro i bulgari che
si erano ribellati nel 1876 e, a scopo preventivo anti-russo, contro gli armeni
nel 1894-1896 e nel 1909. Si trattava però di una strategia pre-moderna: il
pogrom ricorsivo di artigiani e commercianti benestanti di città e villaggio
(greci e armeni, gli ebrei stavolta la scamparono) impiegando per il lavoro
sporco montanari e pastori curdi. L’ascesa al potere dei Giovani Turchi
all’inizio del Novecento e la destituzione del “sultano rosso” (di sangue) nel
1909 segnarono l’avvento di un regime parlamentare che consentì la
rappresentanza delle componenti nazionali e religiose (di regola identificate)
ma allo stesso tempo esasperò il loro contrasto, indicando virtualmente nella
pulizia etnica interna l’unica alternativa alla decadenza e all’assalto dei
contrapposti imperialismi russo e anglo-francese, con sentita partecipazione
dell’Italia giolittiana: la guerra italo-turca e l’annessione di Libia e
Dodecaneso cade nel 1911-1912.
Come
durante le invasioni napoleoniche, il nazionalismo aggressore scatena il
nazionalismo dell’aggredito. Il tutto culminò nella I guerra mondiale, in cui
la duplice simultanea dissoluzione dell’Impero absburgico e di quello ottomano
provocò il deflagrare del nazionalismo etnico nei Balcani e la captazione
dell’insorgenza araba nel sistema coloniale inglese e in seconda battuta
francese nell’area siriaco-mesopotamica. Il film su Lawrence l’avete visto
tutti. Se teniamo presente che un insignificante (all’epoca) corollario fu la
promessa di un “focolare” ebraico in Palestina, capiamo che parecchi guai
attuali originano da quella fase.
Rammentiamo
in breve le tappe di quell’esplosione della modernità nazional-statale nel
Medio Oriente. 1915-1916, genocidio degli Armeni e degli Assiri a opera del
governo ottomano dei Giovani Turchi, eseguito dall’esercito e da bande curde;
1916, accordi segreti Sykes-Picot che (deludendo le speranze arabe) spartivano
il MO fra Inghilterra e Francia, costruendo Stati monarchici artificiali sotto
mandato britannico in Giordania e Iraq; 1920, trattato di Sèvres che, in
spirito versagliesco, demoliva la Turchia spezzandola in staterelli
indipendenti (Armenia, Kurdistan, aree semi-coloniali greche e perfino
italiane); guerra greco-turca del 1919-1922, in cui il fallimento
dell’aggressione nazionalista greca innestò un’ancor più feroce reazione turca;
1920, guerra turco-armena del 1920 che recupera ai primi Kars; 1923 trattato di
Losanna, che cancella quello di Sèvres, fissando i confini dell’attuale Turchia
ed espellendo tre milioni di Greci nonché i superstiti degli eccidi precedenti.
Trionfa il principio della pulizia etnica: fondare uno Stato-nazione mediante
genocidio o deportazione controllata. L’esempio sarà seguito nell’Europa “civilizzata”
degli anni 30-40 (la Shoah, ma non solo), nei Balcani post-jugoslavi
provocando, insieme alla presenza di Israele, l’attuale instabilità
mediorientale. Dal punto di vista delle vittime, non fa molta differenza
crepare per un massacro hamidiano o per uno sterminio pianificato da uno
Stato-nazione, ma dal punto di vista dei carnefici c’è un salto di qualità: il
passaggio dall’artigianato stragista alla pianificazione industriale e alla
motivazione genocidaria –da decine di migliaia a oltre un milione di morti. Il
1915 armeno fu il modello per Hitler, lo scambio di popolazione greco-turco per
esperienze analoghe nel secondo dopoguerra europeo, nei Balcani dopo Tito si
sperimentò la mescolanza di entrambi i paradigmi.
Il
successo della tattica di contrapposizione sanguinosa fra armeni e curdi,
perseguita prima dal sultano Hamid poi dai giovani Turchi, verrà
paradossalmente incrementato con il trattato anti-turco di Sèvres, patrocinante
la creazione di due differenti Stati, Armenia e Kurdistan, …sullo stesso
territorio. Sarà gioco facile per la Turchia kemalista, succeduta allo
sconfitto Impero, vezzeggiare per qualche anno i Curdi per mantenere
l’integrità e la riorganizzazione dello Stato entro i confini della sola
Anatolia ed estromettere le altre minoranze. Dopo una tregua strumentale, nel
1925 la repubblica turca si sentirà abbastanza forte da scatenare una feroce
repressione anti-curda, con gli stessi metodi impiegati dieci anni prima contro
gli Armeni: decapitazione delle élites e deportazione delle popolazioni. Il
meccanismo dell’incoraggiamento degli opposti nazionalismi e poi del loro
soggiogamento in nome della nazione più forte opera al suo meglio. Data dagli
anni immediatamente successivi un primo riavvicinamento fra Curdi e Armeni per
la sopravvivenza, sempre tuttavia con le incomprensioni derivanti dai passati
scontri e facendo i conti con la composizione piuttosto eterogenea del
movimento curdo stesso, assai sensibile anche oggi. Alla fine degli anni ‘20 la
formazione del comitato Hoyboon (Indipendenza), sostenuto dalle forze curde,
dal Dashnak armeno e da gruppi assiri, concretizza quel timido processo e
conduce all’instaurazione della Repubblica dell’Ararat –monte sacro a
entrambi–, schiacciata dai Turchi (con ausilio persiano e finta neutralità
sovietica) nel 1930, dopo cruente battaglie che per la prima volta vedono
l’attiva partecipazione delle donne curde. L’insurrezione si riaccende nel 1937
a Dersim, in una zona a maggioranza curda e Zaza, dove da un secolo erano
presenti molti Armeni alevizzati ed erano protetti i rifugiati del genocidio
del 1915-1916. Dopo due anni la rivolta viene soffocata con circa 70.000
uccisi, anche se gli scontri si protraggono sino all’inizio degli anni ’40, con
il risultato che tuttora la provincia di Tunceli (il nome turchizzato) è quella
demograficamente più povera dell’Anatolia.
Perfino
Erdogan si è di recente scusato per quelle stragi nella sua ondivaga trattativa
con i curdi per smontare l’egemonia del Pkk. Questo partito segna infatti la
modernizzazione delle rivolte curde e il passaggio a una gestione politica
della crisi attenta alla dimensione internazionale, poiché una parte cospicua
dei Curdi vive nella Siria settentrionale, in Iraq e in Iran –e in questi
ultimi paesi con affiliazioni e orientamenti diversi. Sostituendo un progetto
di autodeterminazione confederativa non-statale alle richiesta di indipendenza,
il Pkk, ha costruito un asse con il Pyd siriano, di cui l’Ypg è la forza di
combattimento, che sta portando avanti un difficile processo di autonomia
cantonale all’interno dello Stato siriano, squassato dalla guerra civile e ha
reimpostato autocriticamente, in quanto forza parlamentare e amministrativa
ufficiosa, i rapporti con le opposizioni non-kemaliste turche e con la residua
minoranza armena. Sul piano simbolico ricordiamo l’unica commemorazione
pubblica del genocidio armeno da parte degli aleviti di Dersim nel 2013, mentre
un intervento realistico è stata la scelta del sindaco curdo di Diyarbakir
(l’Amida di un celebre capitolo di Ammiano) di contribuire al restauro e
restituzione al culto nel 2011 della diruta cattedrale Surp Giragos con un
esplicito messaggio di riconciliazione, non a caso accolto con diffidenza dalle
organizzazione più conservatrici e nazionaliste della diaspora armena e bene
dagli interni.
Il
mosaico post-ottomano (ma fenomeni simili si verificano anche in Iran, l’erede
storico dell’altro Impero, quello persiano) e la sua irriducibilità –arcaica e
nel contempo post-moderna– a un ordinamento statal-nazionale risulta
dall’impossibilità di definizione univoca delle sue componenti. Abbiamo parlato
di Curdi e Armeni, ma tali termini “etnici” ricoprono realtà che possiedono una
genealogia storica sui generis (talvolta statale, come
l’Armenia antica e medievale, talvolta tribale o di singole figure sovrane,
quali il Saladino curdo), una composizione “razziale” abbastanza mista, una
composizione religiosa altrettanto eterogenea (gli Armeni sono cristiani di
differenti confessioni e una loro piccola parte è alevizzata, i Curdi sono
sunniti, ma anche sciiti e aleviti) e un’unità soprattutto linguistica (curdo e
armeno sono lingue indo-europee del sottogruppo iranico). Gli Assiri richiamano
solo nel nome l’antico impero assiro e possiedono un’unità linguistica
(l’aramaico, lingua semitica quali l’arabo e l’ebraico) e religiosa
(cristianesimo monofisita nelle contrapposte varianti giacobita e nestoriana).
I Caldei sono una denominazione essenzialmente religiosa (ex-nestoriani
cattolicizzati). Gli “Arabi”, come tutti i popoli di fede islamica, vanno
divisi in sunniti e sciiti –cui sono di fatto assimilabili la componente
alauita, al potere in Siria con Assad, e gli aleviti turchi e curdi, correnti
derivanti dallo sciismo duodecimano. Gli Yazidi o Yezidi sono una setta religiosa
tribalizzata di origine gnostico-zoroastriana. I “cristiani” generici (armeni
esclusi) sono in prevalenza arabi, divisi in varie chiese differenti per
obbedienza (cattoliche, ortodosse, autocefale, protestanti) e per antichissimo
indirizzo teologico. Turcomanni e Ceceni, che completano l’elenco delle
presenze nel Rojava, sono indicazioni etniche, i primi a lingua uralo-altaica
come i Turchi, i secondi appartenenti a un substrato caucasico anteriore alle
invasioni ariane e selgiuchidi, un po’ come i Baschi in Europa.
In
tutta l’area considerata hanno carattere nazionale assimilabile all’Europa
soltanto l’Iran, forma moderna di una lunga indipendenza ed egemonia regionale
persiana, autonomizzata dall’islamizzazione araba con lo scisma sciita e poi in
costante contrasto con gli imperi confinanti (prima Roma, poi gli Ottomani), la
Turchia laica (ora meno) dopo l’epurazione etnica del 1915-1923, la Siria di
prima della guerra civile, che nella gestione della pluralità etnico-religiosa
compensava il panarabismo del Baath con il monopolio del potere affidato a una
minoranza alauita, bisognosa dunque del sostegno delle altre minoranze, e il
neo-costruito Stato di Israele che ha raccolto sotto l’ideologia sionista e una
leadership prima askhenazi socialisteggiante e poi neo-liberale un nucleo di
superstiti della Shoah e minoranze non-nazionali sefardite che prima erano
sparse, come le altre di cui abbiamo parlato, nell’Africa settentrionale e in
MO.
Le
politiche egemoniche di tali Stati e i traffici imperialistici occidentali, di
cui storicamente Israele è stato il braccio, si fondano sul mantenimento del
mosaico suddetto, ora con pratiche sioniste di apartheid, ora sovvertendo
strutture autoritarie in equilibrio precario (Siria) con guerre civili che
estendono la frammentazione. In tale contesto si è inserito in modo innovativo
l’Isis, che scavalca i vecchi confini artificiali dell’accordo Sykes-Picot,
sostituisce la macchina inefficiente degli Stati precedenti e omologa
brutalmente le differenze religiose ed etniche con la conversione forzata, gli
stupri e gli scannamenti, pretendendo di restaurare, su inedite basi sunnite
wahabite, un califfato sovranazionale. Operazione avviata d’accordo, poi in
concorrenza sia con la strategia neo-ottomana e re-islamizzata di Erdogan, sia
con la monarchia saudita, che teme di venire spossessata dal suo monopolio
teocratico. Vi si aggiunga il contrasto fra Isis e Fratelli musulmani
(egiziani, giordani, libici e Hamas) sponsorizzati dal Qatar e il ruolo
dell’altro Stato ai margini della regione, l’Egitto (Arabia Saudita e Qatar non
sono Stati-nazioni in senso moderno, ma possedimenti privati
tribal-petroliferi). L’Isis esige per affermarsi lo scioglimento definitivo
della Siria (regime nazionale interconfessionale presto degenerato per autoritarismo
e apertura al mercato neo-liberale) e comunque si legittima solo in contrasto
con lo scisma sciita e l’egemonia regionale iraniana. Al momento fa comodo a
Israele, perché sposta l’attenzione dalla questione palestinese, ma prima o poi
l’Isis dovrà intraprendere una crociata per Gerusalemme, smascherando la miopia
strategica del sionismo di destra. In complesso tuttavia l’Isis risponde alla
crisi del sistema mediorientale post-coloniale con gli stessi obbiettivi
dell’imperialismo: stroncare ogni forma di democrazia federale dal basso,
rimpiazzando la fallimentare soluzione degli Stati-nazione petroliferi
artificiali con un regresso arcaico e perfino arbitrario –stante l’abisso che
separa il fondamentalismo wahabita da qualsiasi idealizzazione dei califfi ben
guidati del VII secolo (1-38 dall’Egira). Dati i limiti della sua forza
espansiva, è qualcosa che per il momento fa molto comodo a Turchia, Israele e
Arabia saudita, tenendo a bada Curdi e Iraniani e congelando la partita in MO,
subentrando alla troppo oscillante ingerenza Usa. Se Obama avesse rovesciato
Assad e bombardato Teheran (meno male che non l’ha fatto), non ci sarebbe stato
bisogno di al-Baghdadi, coltellacci e bandiere nere.
L’altra
strada –cui al momento (secondo la mia opinione del tutto personale) è
funzionale in termini geopolitici il blocco “sciita” formato dall’Iran
riformista di Ruhani, dal Baath degenerato siriano e dagli Hezbollah libanesi–
è quella del rifiuto del settarismo religioso-tribale e dell’unità nella
diversità che ha nella resistenza e nella strategia della Rojava il suo esempio
più alto e coerente, mentre i Curdi irakeni, efficienti sul piano del contrasto
militare all’Isis e tolleranti verso le altre minoranze, sotto la guida del Pdk
di Barzani e dell’Ipk di Talabani, sono in complesso subalterni agli Usa e
propensi a un uso neo-liberale delle ingenti risorse petrolifere. La carta
della Rojava (e la pratica quotidiana di guerre e di pace) si fonda sulla
separazione fra potere pubblico e religioni e sul rigetto della discriminazione
di genere. Sull’importanza di quest’ultimo elemento scrive bene S. Mezzadra, in
Kobane è sola?:
«nella
Rojava il femminismo è incarnato non soltanto nei corpi delle guerrigliere in
armi, ma anche nel principio della partecipazione paritaria a ogni istituto di
autogoverno, che ogni giorno mette in discussione il patriarcato. E
l’autogoverno, pur tra mille contraddizioni e in condizioni durissime, esprime
davvero un principio comune di cooperazione, tra liberi e uguali. E ancora:
coerentemente con la svolta anti-nazionalista del PKK di Öcalan, a cui le
YPG/YPJ sono collegate, netto è il rifiuto non solo di ogni assolutismo etnico
e di ogni fondamentalismo religioso, ma della stessa declinazione
nazionalistica della lotta del popolo curdo».
A
tal proposito si sono richiamati momenti alti, sconfitti e tenacemente
riproposti, della storia rivoluzionaria –lo ha fatto D. Graeber
rievocando su The Guardian l’epopea libertaria nella guerra
civile spagnola e potremmo aggiungervi i documenti del Fln algerino
durante la guerra di liberazione fino a Ben Bella e le dichiarazioni zapatiste.
Oltre però a rilevare gli elementi di consonanza con la nostra tradizione
miglior tradizione rivoluzionaria e la necessità di sostenere una prospettiva
realistica di risoluzione dei conflitti mediorientali –probabilmente valida
anche per la questione palestinese (ripeto, secondo la mia personale opinione)–
credo sarebbe opportuna una riflessione che ne accentua vieppiù la “contemporaneità”.
Toni
Negri, intervenendo su Europa
e globalizzazione, si è giustamente domandato come immaginare un esodo
democratico fuori dallo Stato-nazione, come rinunciare a fare della nazione uno
Stato –intendendo per nazione una comunità di lingua, letteratura, memoria,
territorio familiare e altro– o addirittura senza che le moltitudini arrivino a
definirsi popoli. Nella tradizione rivoluzionaria (con eccezioni e confluenze
del pensiero democratico-borghese) vigeva la prospettiva di un passaggio
necessario per autodeterminazione attraverso la fase dello Stato-nazione per i
popoli del Terzo Mondo e, con molte riserve, di nazionalità rimaste subalterne
nella formazione degli assetti nazionali europeo. Tali assunti scalari per
tappe obbligate in una linea evolutiva omogenea sono oggi rimessi in
discussione non solo da un differente approccio storiografico, ma anche dal
succedersi di eventi che additano possibilità alternative. Che una situazione
“arretrata” non indichi la fase di anticipazione meccanica dell’oggi ma possa
fare da punto d’appoggio per un percorso alternativo emergeva implicitamente
dalla rivoluzione in Russia. Le proposte della Carta di Rojava per una
struttura decentrata della Siria, di cui i cantoni curdi intendono continuare a
far parte senza per questo perdere i legami con le autonomie curde già inserite
in altri Stati (Iraq) o rivendicate (Turchia, Iran), non si riduce a un
adeguamento, pur avanzatissimo per la regione, agli standard costituzionali
occidentali (com’è il caso dell’art. 92 sulla separazione fra Stato e religione
o degli articoli 27-29 sull’eguaglianza di genere e i diritti di bambini/e o
dell’art. 23 sul rispetto dell’equilibrio ecologico), ma introducono una
problematica federativa solo semi-statale che sarebbe riuscita assai utile in
alternativa alla guerra civile jugoslava e che oggi potrebbe bilanciare le
laceranti pulsioni nazionaliste in Spagna, Scozia, Ucraina. Di tutto abbiamo
bisogno meno che di altri apparati di repressione e terrore, di altre folle
esaltate, bandiere, monete e tifoserie.
Se
rileggiamo adesso quell’introduzione –che forse ora ci appare meno esotica– e
le sezioni IV e V della Carta, che fissano le competenze del legislativo e
dell’esecutivo, o l’art. 14 che traduce concretamente il principio di
riconciliazione in «misure di risarcimento per compensare le politiche statali
nazionalistiche e discriminatorie lasciate in eredità, incluso il pagamento di
indennizzi alle vittime, individui o comunità», impariamo qualcosa che non è
utopia, ma un realistico porsi un traguardo arduo al limite dell’impossibile in
presenza delle forme peggiori di guerra.
Solo
chi combatte casa per casa contro i fondamentalisti può avere in programma la
liberazione «dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e
dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica». Solo dimenticando una
storia maledetta tanto di conflitti tribali e religiosi quando della ”gloriosa”
e del pari grondante sangue esperienza degli Stati-nazione occidentali si
fa storia. Provincializzando l’ideologia europea dello Stato-nazione –una
tradizione mainstream ininterrotta, con qualche “piccola”
eccezione (Machiavelli, Spinoza, Marx, Lenin)– alla luce della sua
inapplicabilità nei luoghi di maggior conflitto e rimettendo in questione,
anche in altri continenti, la logica dei confini e il loro rimaneggiamento per
opera dei flussi finanziari e dei processi di accumulazione transnazionali,
potremo pensare una strategia di resistenza e di sopravvivenza umana.
Fonte:
dinamopress