domenica 19 ottobre 2014

“Come si fa a indottrinare i giovani?”

di Noam Chomsky

Ci sono molti modi –dice l’autore, rispondendo all’interrogativa del titolo dell'estratto da un suo più complesso articolo*-. Un modo consiste nel gravarli di debiti disperatamente pesanti per le tasse universitarie. Il debito è una trappola, specialmente il debito studentesco, che è enorme, molto maggiore del debito relativo alle carte di credito. È una trappola per il resto della vita, perché le leggi sono costruite in modo tale che non se ne può uscire. Se un’azienda, diciamo, finisce eccessivamente indebitata può dichiarare fallimento, ma le persone non possono quasi mai essere sollevate dal debito studentesco fallendo. Possono pignorare addirittura la previdenza sociale se si finisce insolventi 

Come dovrebbe essere l’istruzione superiore
Innanzitutto dovremmo accantonare qualsiasi idea che ci sia stata un tempo un’”età dell’oro”. Le cose erano diverse e per certi versi migliori in passato, ma lungi dall’essere perfette. Le università tradizionali, ad esempio, erano estremamente gerarchiche, con scarsa partecipazione democratica al processo decisionale. Una parte dell’attivismo degli anni ’60 consistette nel cercare di democratizzare le università per introdurre, ad esempio, rappresentanti degli studenti nei consigli di facoltà, per far partecipare il personale.
Questi sforzi furono portati avanti da iniziative studentesche, con un certo grado di successo. La maggior parte delle università ha oggi un qualche livello di partecipazione degli studenti alle decisioni delle facoltà. E io penso che questo sia il genere di cose che dovremmo promuovere: un’istituzione democratica, in cui le persone coinvolte, chiunque possano essere (docenti, studenti, personale) partecipino nel decidere la natura dell’istituzione e come funziona; e lo stesso dovrebbe valere per le fabbriche.
Non si tratta di idee radicali, direi. Provengono direttamente dal liberalismo classico. Così se leggete, ad esempio, John Stuart Mill, una grande figura della tradizione liberale classica, egli dava per scontato che i luoghi di lavoro dovessero essere amministrati e controllati dalle persone che vi lavoravano; quella è libertà e democrazia. Vediamo le stesse idee negli Stati Uniti. Ritorniamo, ad esempio, ai Cavalieri del Lavoro, uno dei loro scopi dichiarati era “creare istituzioni cooperative tali che tendano a sostituire il sistema dei salari mediante l’introduzione di un sistema industriale cooperativo”.
O prendiamo qualcuno come John Dewey, un filosofo sociale tradizionale del ventesimo secolo che sollecitò non solo un’istruzione diretta all’indipendenza creativa nelle scuole, ma anche il controllo operaio nell’industria, quella che chiamava “democrazia industriale”. Dice che fino a quando le istituzioni cruciali della società (come produzione, commercio, trasporti, media) non saranno sotto controllo democratico, allora “la politica [sarà] l’ombra gettata sulla società dalla grande industria”.
Questa idea è quasi elementare, ha radici profonde nella storia degli Stati Uniti e nel liberalismo classico. Dovrebbe essere una seconda natura per i lavoratori e dovrebbe applicarsi allo stesso modo alle università. Ci sono decisioni in un’università in cui non si vuole avere [trasparenza democratica perché] si deve tutelare la riservatezza degli studenti, diciamo, e ci sono vari tipi di temi sensibili, ma in gran parte della normale attività dell’università non c’è motivo per cui la partecipazione diretta non possa essere non solo legittima, ma anche utile. Nella mia facoltà, ad esempio, per quarant’anni abbiamo avuto rappresentanti degli studenti che hanno partecipato utilmente alle riunioni di facoltà.

L’”amministrazione [governance] condivisa” e il controllo da parte dei lavoratori
L’università è probabilmente l’istituzione sociale della nostra società che si avvicina di più al controllo democratico dei lavoratori. All’interno di una facoltà, ad esempio, è piuttosto normale, almeno per i docenti di ruolo, essere in grado di decidere come sarà una considerevole porzione del proprio lavoro: che cosa insegneranno, quando insegneranno, quale sarà il programma. E la maggior parte delle decisioni sul lavoro effettivo svolto dalla facoltà è in larga misura sotto il controllo dei docenti di ruolo della facoltà.
Ora, naturalmente, c’è un livello di amministratori più elevato che non si può superare o controllare. Il personale docente può raccomandare qualcuno per una cattedra, diciamo, ed essere smentito dai rettori, o dal presidente, o persino dagli amministratori fiduciari o dai parlamentari. Non accade così spesso, ma può accadere e accade. E ciò fa sempre parte della struttura di fondo che, anche se sempre esistita, era molto meno un problema nei giorni in cui l’amministrazione era tratta dal personale docente e, in linea di principio, revocabile.
Nei sistemi rappresentativi si deve avere qualcuno che svolge il lavoro amministrativo, ma dovrebbe essere revocabile a un certo punto in base all’autorità delle persone che amministra. Ciò è sempre meno vero. Ci sono sempre più amministratori professionisti, un livello sopra l’altro di essi, con un numero sempre maggiore di posizioni assunte lontano dal controllo del personale docente. Ho citato in precedenzaThe Fall of the Faculty di Benjamin Ginsberg, che entra in numerosi dettagli su come questo funziona in numerose università che ha esaminato da vicino: la John Hopkins, la Cornell e un paio d’altre.
Contemporaneamente il corpo docente è sempre più ridotto a una categoria di lavoratori a tempo cui è assicurata un’esistenza precaria senza alcun percorso al ruolo. Ho conoscenze personali che sono effettivamente permanentemente a contratto; non hanno alcun reale status di ruolo; devono far domanda ogni anno per essere nominati di nuovo. Non dovrebbe essere permesso che accadano cose simili.
E nel caso degli aggiunti è stato istituzionalizzato: non è loro consentito di far parte dell’apparato decisionale e sono esclusi dalla sicurezza del posto, il che semplicemente amplifica il problema. Penso che anche il personale non docente dovrebbe essere integrato nel processo decisionale, visto che anch’esso fa parte dell’università.
C’è, dunque, un mucchio da fare ma penso che possiamo capire facilmente perché si stanno sviluppando queste tendenze. Fanno tutte parte dell’imposizione di un modello aziendale su semplicemente ogni aspetto della vita. Questa è l’ideologia neoliberista sotto la quale la maggior parte del mondo vive da quarant’anni. È molto dannosa per le persone e c’è stata resistenza contro di essa. E merita di essere ricordato che almeno due parti del mondo sono sfuggite in larga misura ad essa, cioè l’Asia orientale, dove non l’hanno mai accettata, e l’America del sud negli ultimi quindici anni.

La presunta necessità di “flessibilità”
“Flessibilità” è un termine che è molto familiare ai lavoratori dell’industria. Parte di quella che è chiamata “riforma del lavoro” consiste nel rendere il lavoro più “flessibile”, nel rendere più facile assumere e licenziare le persone. Questo, di nuovo, è un modo per garantire la massimizzazione del profitto e del controllo. Si suppone che la “flessibilità” sia una cosa buona, come la “maggiore insicurezza dei lavoratori”. Escludendo l’industria, presso la quale questo è vero, nelle università non c’è giustificazione.
Così prendete il caso in cui ci siano iscrizioni insufficienti da quale parte. Non è un grande problema. Una delle mie figlie insegna in un’università; mi ha appena telefonato l’altra sera per dirmi che il suo programma d’insegnamento è stato modificato per uno dei corsi che le era stato offerto aveva troppo pochi iscritti. Bene, non è la fine del mondo, hanno semplicemente gli accordi di insegnamento: tieni un corso diverso o una sezione extra o qualcosa del genere. Le persone non devono essere cacciate o essere insicure per la variazione del numero degli studenti che si iscrivono ai corsi. C’è ogni sorta di modi per adeguarsi a tale variazione.
L’idea che i dipendenti debbano soddisfare la condizione della “flessibilità” è solo un’altra tecnica standard di controllo e dominio. Perché non dire i dirigenti dovrebbero essere cacciati se per loro non c’è nulla da fare in quel semestre; oppure gli amministratori fiduciari ; che cosa ci stanno a fare? La situazione è la stessa con l’alta direzione nell’industria: se la manodopera deve essere flessibile, che dire della direzione? La maggior parte di loro è parecchio inutile o addirittura dannosa in ogni caso, perciò liberiamocene.
E si può andare avanti così. Solo per riferirci alle notizie dell’ultimo paio di giorni prendiamo, ad esempio, Jamie Dimon, l’amministratore delegato della banca JPMorgan Chase: ha appena ricevuto un aumento parecchio considerevole, ha quasi raddoppiato lo stipendio in segno di gratitudine per aver salvato la banca da accuse penali che avrebbero mandato in galera la dirigenza; se l’è cavata con soli venti miliardi di dollari di sanzione per attività criminali. Ma non è di questo che la gente parla quando discute di “riforma del lavoro”. Sono i lavoratori che devono soffrire, e devono soffrire di insicurezza, di non sapere da dove verrà il pezzo di pane di domani, e perciò devono essere disciplinati e obbedienti e non sollevare questioni o esigere i propri diritti.
È  questo il modo in cui funzionano i sistemi tirannici. E il mondo degli affari è un sistema tirannico. Quando è imposto alle università, vi si trovano riflesse le stesse idee. Non dovrebbe essere affatto un segreto.

Lo scopo dell’istruzione
Questi sono dibattiti che risalgono all’Illuminismo, quando i temi dell’istruzione superiore e dell’istruzione di massa furono sollevati per davvero, non solo l’istruzione del clero e dell’aristocrazia. E fondamentalmente c’erano due modelli dibattuti nel diciottesimo e diciannovesimo secolo.
Erano discussi con immagini parecchio evocative. Un’immagine dell’istruzione era che doveva essere come un vaso riempito, diciamo, d’acqua. È quello che oggi chiamiamo “insegnamento in funzione dei test”: si versa acqua nel varo e poi il vaso restituisce l’acqua. Ma è un vaso che perde parecchio; lo abbiamo sperimentato tutti noi che siamo andati a scuola; poiché potevamo memorizzare qualcosa per superare un esame per il quale non nutrivamo alcun interesse e una settimana dopo dimenticavamo di cosa trattava il corso. Il modello del vaso in questi giorni è chiamato “nessuno resti indietro”, “insegnare in funzione dei test”, “corsa al vertice”, quale che sia il nome, e cose simili nelle università. I pensatori dell’Illuminismo si opponevano a tale modello.
L’altro modello è descritto come stendere un filo lungo il quale lo studente progredisce a modo suo di propria iniziativa, forse spostando il filo, forse decidendo di andare da qualche altra parte, forse ponendo domande. Stendere il filo significa imporre un certo grado di struttura. Dunque un programma d’istruzione, qualche che sia, un corso di fisica o altro; non è che vada bene tutto; c’è una certa struttura.
Ma lo scopo è che lo studente acquisisca la capacità d’indagare, di creare, di innovare, di sfidare; questa è l’istruzione. Un fisico di fama mondiale se nel suo corso per matricole gli veniva chiesto “che cosa coprirà questo semestre?” la sua risposta era “non conta che cosa copre, conta cosa scopri tu”. Devi conquistare la capacità e la fiducia in te stesso, quanto a questo, di osare e creare e innovare, ed è in quel mondo che apprendi; in quel modo hai interiorizzato il materiale e puoi andare avanti. Non si tratta di accumulare qualche serie fissa di fatti che poi puoi metter giù in un test e dimenticare domani.
Questi sono due modelli molto distinti di istruzione. L’ideale dell’Illuminismo era il secondo e io penso che sia quello per il quale dovremmo batterci oggi. È  questo che è la vera istruzione, dall’asilo all’università. In realtà ci sono programmi di questo tipo per gli asili, parecchio buoni.


*(estratto da “I modelli aziendali industriali danneggiano le università statunitensi” http://znetitaly.altervista.org/art/16052)