di Giorgio Cremaschi
un milione in piazza a Roma con la CGIL contro il governo-Renzi, ma il
gruppo dirigente della confederazione è sulla stessa lunghezza d’onda? Ovvero è
solo disposta a correggere, unitamente alla minoranza PD, le manovre del “rottamatore”?
La prove di forza sindacale può prefigurare una nuova stagione del conflitto
sociale, capace di compiere quella necessaria una rottura di fondo –come dice
Cremaschi- con la linea politica e le pratiche sindacali di questi trenta anni,
oppure è solo un riposizionamento per rivendicare la rappresentatività negata
dall’esecutivo?
La Cgil porta in piazza la sua forza assieme a tutte
le sue contraddizioni. In questi decenni il principale sindacato italiano da un
lato è stato l'attore sociale della sinistra, perfettamente collaterale al Pd,
dall'altro ha ripetutamente tentato un patto dei produttori con l'impresa, per
agire di concerto con essa rispetto al potere politico. Entrambi questi
capisaldi della strategia della Cgil ora franano clamorosamente e il suo gruppo
dirigente non sa letteralmente che fare, il che non è un buon messaggio da
trasmettere ad una piazza. Certo ci saranno altre mobilitazioni e magari anche
uno sciopero generale. Ma senza mai riuscire a chiarire dove si sta andando.
Perché la rivoluzione reazionaria di Renzi si combatte non solo rompendo con le
sue manifestazioni estreme, ma anche con le ragioni e con il percorso che ad
essa ci hanno portato.
Il
governo Renzi, ma lo potremmo chiamare il governo Renzi-Marchionne almeno per quel che
riguarda il lavoro, rappresenta l'ultimo e più intelligente tentativo delle
classi dirigenti italiane ed europee di imporre da noi le politiche liberiste
che hanno distrutto la Grecia. Intelligente perché si è capito che la pura
brutalità dei diktat della Troika alla
lunga non paga. Per questo le politiche liberiste oggi devono essere
accompagnate o addirittura precedute da cambiamenti politici e culturali che rendano
accettabile o persino condivisibile l'accentuazione delle già così esplosive
diseguaglianze sociali. Per fare questo non basta la destra tradizionale,
bisogna occupare il campo della sinistra e portare la parte più grande di essa
a sostenere politiche più a destra della destra tradizionale. Questo è il
renzismo, l'ultima versione di quel trasformismo politico che nella storia del
nostro paese è sempre partito dalla mutazione genetica della sinistra.
La cancellazione dell'articolo 18 ha il valore
simbolico dell'abbattimento dell'ultima bandiera dell'uguaglianza e serve a
rendere accettabili provvedimenti ben più immediatamente sostanziosi, come il
via libera ai licenziamenti di massa dato alla Tyssen Krupp, o il regalo
alla Confindustria della riduzione delle tasse sui profitti pagata con i ticket
dei malati. Abbiamo realizzato un sogno, ha detto Squinzi mentre
lavoratori e precari vivono nell'incubo. Un governo così sfacciatamente
filopadronale non poteva che nascere da una operazione culturale e politica che
si accampasse e giustificasse nel Pd. Il governo Renzi riassume trenta anni di
politiche liberiste contro il lavoro e le conduce alla punto estremo. E proprio
per questo rende palese la doppia contraddizione della Cgil. La prima e più
evidente è che il rapporto del primo sindacato italiano con il Pd sta
diventando sempre più insostenibile, ma allo stesso tempo resta inscindibile.
La Cgil, i suoi gruppi dirigenti hanno sinora avuto il Pd come referente
istituzionale fondamentale, rompere con esso significherebbe praticare un mare
aperto nelle relazioni politiche che fa paura. Questa contraddizione rischia di
essere fotografata dalla presenza al corteo della Cgil di quegli esponenti del
Pd critici con Renzi, ma poi disciplinati nel votare la legge sul lavoro.
Ma
ancora più pesante di quella politica è la contraddizione sindacale vera e
propria. La Cgil oggi si oppone al Jobs Act, ma in questi trenta anni ha sempre finito per
accettare tutti i patti e i provvedimenti che hanno portato ad esso. La legge
Fornero sulle pensioni e il primo attacco all'articolo 18 del governo Monti son
passati tranquillamente. E se ora la Cgil si oppone alla legge delega, non fa
certo altrettanto con quei Jobs Act diffusi che vengono definiti in accordi che
riducono diritti e salario. Da ultimi l'accordo del 10 gennaio con la
Confindustria sulla rappresentanza e alcuni pessimi contratti. Lo scatto
d'orgoglio della Cgil di fronte agli sfregi di Renzi è un fatto comunque
positivo, ma non sufficiente né a fermare l'offensiva di un governo che le
contraddizioni del sindacato ben le conosce ed usa, né tanto meno a invertire
la tendenza al degrado delle condizioni di chi lavora. Perché tutto questo
cambi è necessaria una rottura di fondo della Cgil con la linea politica e le
pratiche sindacali di questi trenta anni. Ma di questo al momento non si vede
alcuna traccia.