di
Antonio Negri
Lo
Stato-nazione moderno nasce dal romanticismo, come una lotta contro il
giacobinismo rivoluzionario e l’espansionismo napoleonico, contro l’illuminismo
rivoluzionario (e le sue derive); più precisamente: traduce l’affermazione
dell’identità nazionale in un principio «reazionario» nei confronti
dell’universalismo, un principio cioè di differenza, e spesso di esclusione,
per tutti coloro che, sotto l’aspetto del suolo o sotto l’aspetto del sangue,
non ne fanno parte
(…)
Lo Stato-nazione è stato un concetto «centripeto»: la nazione offriva in
effetti al governo, ad una funzione centralizzata del comando, un carattere
assoluto che garantiva il passaggio dalla decisione all’esecuzione degli atti
del governo. Kantorowicz è molto chiaro: ci sono due corpi del governo. Il
primo è la funzione reale, la sovranità, la nazione, che presiede alla
definizione del carattere assoluto del potere sovrano, è la monarchia. Il
secondo corpo vive e muore, è la contingenza e la discontinuità del governo,
della rappresentanza politica, i blocchi e le interruzioni storiche della vita
degli Stati – ma questo carattere «mortale» è attraversato dall’effetto sovrano
che ne garantisce l’immunità e ne impedisce la decadenza. Questi due corpi,
queste due funzioni del potere, oggi, nel mondo contemporaneo, sono appassiti e
tendono a dissolversi almeno in parte.
Tuttavia,
il concetto di Stato-nazione non si dissolve semplicemente a causa della
transizione da un’economia mondiale a un’economia globalizzata, quest’ultima
caratterizzata da un’interconnessione finanziaria su scala planetaria. Il
declino dello Stato-nazione è stato accompagnato da un’altra transizione, che
ha determinato il passaggio dal governo alla governance – una
transizione che segnala l’ibridazione tra il pubblico statale e il privato del
mercato ma che soprattutto rivela, tra i vari aspetti del carattere giuridico
del mercato, la dimensione reale del commercio globale. Questa trasformazione
sfida l’unità dei sistemi di legittimazione dello Stato-nazione, del diritto
internazionale privato e pubblico, smussa la capacità del governo e iscrive ad
un livello globale le figure e le funzioni degli organi di regolazione
capitalistica.
Ci
si potrà allora chiedere, ben al di là di tutte le ideologie e di tutte le
storiografie benedette dalla nazione stessa, se la genesi e la composizione
degli Stati-nazione, la loro realtà storica, non debbano a loro volta essere
restituite non tanto ad un’origine che si sarebbe trasformata in telos e
si sarebbe così realizzata, quanto ad una sorta di «pot-pourri» costituente
indefinito – ad un nodo di incontri/scontri tra popolazioni, gruppi e forme di
governo differenti; alle dinamiche contraddittorie che coinvolgono frazioni
capitalistiche, maneggi aristocratici, insurrezioni democratiche; allo sviluppo
discontinuo di strategie neo-mercantiliste, di manipolazioni fiscali e
doganali, ecc. Ancora, per alcuni Stati-nazione più periferici, alle
conseguenze e le derive dei movimenti coloniali e delle strategie imperialiste
– e soprattutto ai movimenti della popolazione che ne sono determinati. Per
finire, oggi, ai modi della comunicazione e del trasporto, alla porosità e alla
plasticità delle frontiere, ecc. Tutte le determinazioni, non solamente
naturaliste ma culturali dello Stato-nazione, sembrano di fatto dissolversi di
fronte a questi sconvolgimenti e a queste trasformazioni.
Non
avete l’impressione, mentre descriviamo così rapidamente la storia del concetto
di Stato-nazione, che si tratta in realtà di qualcosa d’artificiale e di
precario, di qualcosa che oramai appartiene a una dimensione arcaica? Che –
considerato sul piano della sua genesi – è qualcosa che attiene all’azzardo,
alla precarietà e all’incertezza? E al di là di questa genesi, quando si parla
del declino dello Stato-nazione moderno, quando si parla dei deliri fascisti e
dei milioni di vittime delle guerre, della violenza e dell’odio, che il
concetto è semplicemente divenuto l’emblema di una storia terribile, quasi il
segno di una rimozione radicale? E che il concetto di patria possiede a sua
volta degli aspetti perversi? Non credo che ciascuno di noi possa dare una
risposta pacifica a tali domande. Se però riuscissimo a rifiutare cum
ira et studio di riconoscerci in questa identità, riusciremmo anche a
riconoscerci in un mondo differente. Tra un attimo proveremo a discutere delle
avventure di questa nuova esistenza post-moderna. Ma se, per un istante ancora,
guardiamo indietro, potremmo dire oggi allo Stato-nazione quello che fu detto
della fine dell’Impero romano: sul modello del «latifundia detruere imperium» –
il latifundium distrusse l’Impero – oggi, «gli Stati-nazione
hanno distrutto la sovranità moderna».
Proviamo
ora a ragionare su quell’elemento di «nazionalità» (intendo con questa parola
il riflesso pallido e nostalgico del sentimento nazionale situato
nell’ideologia) che riappare oggi negli eventi che ci circondano, e soprattutto
nei conflitti tra i protagonisti dell’ordine globalizzato. Sono, mi sembra, dei
ritorni d’egoismo che cercano una dignità nella memoria, meglio ancora, nella
nostalgia della storia nazionale. Essi trovano uno spazio propizio nella crisi
che la globalizzazione sta attraversando. Alla fine del XX secolo, dopo la
caduta del muro di Berlino e la fine del dualismo delle storie d’Occidente e
d’Oriente, la globalizzazione è stata accompagnata da un grande sforzo per
ricostruire nuovi sistemi giuridici e politici a livello planetario. Il
fallimento delle élite mondiali nel costruire un nuovo ordine è stato tuttavia
clamoroso. Ne misuriamo oggi le conseguenze – e tali conseguenze si manifestano
nella crisi del mercato, nella caduta della produzione globale, nelle
incertezze monetarie, nella difficoltà a controllare i movimenti della finanza…
Chi avrebbe potuto prevedere che le conseguenze del nuovo ordine – che alla
caduta del Muro tutti salutarono con tanta gioia – sarebbero state di questa
natura?
Ne
è seguita una pericolosa assenza di chiarezza nei rapporti internazionali e una
serie di disaccordi, di conflitti e di incomprensioni tra i suoi attori: tutto
ciò rende difficile orientarsi. All’unità dell’ordine globalizzato (scambi
commerciali e finanziari) hanno fatto seguito rotture e tentativi di
riconfigurazione dello stesso paesaggio globalizzato – non più attraverso gli
stessi Stati-nazione ma attraverso il rapporto tra strutture continentali.
All’America del Nord, alla Cina, all’Europa in divenire, all’America Latina,
all’India – che conservano una certa solidità geopolitica –, corrispondono
nella crisi delle basi regolate dal soft power americano dei
veri cataclismi politici. Oramai i movimenti di una parte del pianeta
determinano – positivamente o negativamente, a seconda dei casi – quelli di
tutti gli altri elementi del sistema globalizzato. Nella crisi del sistema
globale emerge, inoltre, con grande violenza, la crisi di accumulazione
capitalistica e dello sviluppo delle istituzioni democratiche. Alla
dimensione macro corrisponde la dimensione micro,
e viceversa. La geopolitica e le crisi industriali e finanziarie, le
diseguaglianze crescenti dei sistemi sociali, ecc., si rinviano a vicenda le
cause e gli effetti. Potremmo proseguire a lungo in questa descrizione della
crisi attuale nella sua dimensione globale, nello stesso tempo interna e
esterna agli Stati. Ma le caratteristiche che ho descritto sono sufficienti, mi
sembra, per comprendere la ragione per la quale, in numerosi paesi, l’esigenza
di un ritorno alle politiche nazionali e i tentativi di rendere nuovamente lo
Stato nazione il punto d’imputazione e di responsabilità dello sviluppo,
tornano con forza alla ribalta.
La
nostalgia dello Stato nazione è inutile, anzi pericolosa: la dimensione globale
nella quale il capitalismo si è organizzato costituisce un quadro fisso per il
movimento di tutte le istituzioni, qualunque esse siano – statali o politiche,
industriali o finanziarie. Esse agiscono sul terreno globale e hanno delle
enormi difficoltà a ritornare all’interno di un quadro nazionale. Un ritorno
all’indietro rispetto alla globalizzazione è impossibile, anche se il caos
sembra determinarne la forma. Inoltre: ogni volta che le identità nazionali
riappaiono, lo fanno confondendosi con le ideologie e le pratiche religiose e
fanatiche. Il patriottismo, che era una religione laica, si è trasformato in
idolatria razziale o in fanatismo religioso. Se nella sua storia il
nazionalismo ha avuto dei momenti creativi e ha dato luogo alla fusione di
popoli e persone differenti, se il concetto di nazione in alcuni casi ha
mobilitato passioni generose e un nobile senso di libertà, oggi, il concetto di
nazione si presenta sotto un’altra forma: pieno di rancore, perché il ritorno
al passato è difficile se non impossibile e perché tale impotenza si ritorce
contro degli avversari fittizi e immaginari – dei nemici ai quali è attribuita
la causa delle difficoltà attuali. Il populismo è la forma nella quale tali
sentimenti duri e puri di odio si presentano. Esso non minaccia soltanto
l’ordine nazionale ma, evidentemente, anche la forma democratica del governo.
Si vuole trasformare la democrazia e trasformarla, ricostruirla, a partire da
una regola nazionale considerata come giusta? Ma come si possono dimenticare le
diseguaglianze, le divisioni di classe, le vicissitudini di una regola
nazionale sempre esposta alla guerra? Oggi l’idea di nazione, poiché rinuncia
all’utopia di un ordine internazionale all’insegna della globalizzazione e a
quella di un ordine democratico all’insegna dell’internazionalismo democratico,
ci espone semplicemente al ridicolo.
Passiamo
ora a un ultimo problema. La crisi del capitalismo maturo e globalizzato
esiste, non possiamo certo metterla in dubbio. Si svolge di fronte ai nostri
occhi da qualche anno. E non possiamo certo dubitare delle sue conseguenze, che
saranno ancora durevoli. Possiamo con ciò concludere che se la globalizzazione
ha rappresentato il trionfo del capitalismo, ne costituisce anche la malattia?
Una malattia letale? Non credo che si possa rispondere in maniera così
definitiva e assertiva. Quello che sembra evidente è che la crisi si è
instaurata precisamente là dove il potere capitalista si era affermato con
maggiore determinazione, cioè su un tale livello di astrazione del potere, di
distanza nei confronti dei movimenti dei cittadini che sembravano aver reso il
capitale globale definitivamente autonomo dalla sua potenza – e fuori dalla
portata di eventuali resistenze che si sarebbero eventualmente opposte ad esso.
Ma l’autonomia e la consistenza che lo caratterizzano diventano ogni giorno più
povere – povere di valore, incapaci di progresso, cieche di fronte al
deteriorarsi delle condizioni dello sviluppo, insensibili alle spinte vitali e
alle innovazioni cooperative. È interessante (e simbolicamente
appassionante) sottolineare che la crisi finanziaria – che è legata agli effetti
dell’organizzazione dell’ordine del capitale finanziario – si sviluppa
essenzialmente sul terreno monetario. Sì, precisamente quella moneta che era
stata così tanto legata all’immaginario nazionale. Ma è senza dubbio ancora più
interessante constatare che la crisi della moneta in questione corrisponde a un
meccanismo globale. Per questa ragione, non ci si può in alcun caso proteggere
dalla crisi nascondendosi dietro la propria moneta nazionale – si rischierebbe
puramente e semplicemente la catastrofe.
Dunque,
la mia conclusione è che non possiamo fuggire dalla globalizzazione. E che,
senza dubbio, la sola via di salvezza che ci permetterà anche di essere liberi
sarà quella di un esodo democratico dallo Stato-nazione. Che cosa significa?
Significa che se noi teniamo a quello che, nella nazione, consideriamo come
positivo e creativo, se teniamo alla sua lingua e letteratura – se essa ne
possiede una –, o alla sua memoria e immaginazione – se ne vale la pena – o,
ancora, ai suoi paesaggi, all’odore della terra e ai suoi rilievi – che sono a
volte le cose più care che abbiamo – se noi teniamo a tutto questo e a molte
altre cose ancora, dovremo rinunciare a fare della nazione uno Stato. In che
modo ciò sarà possibile? Non lo so.
Tuttavia,
negli ultimi giorni, ho avuto tra le mani il libro di un antropologo
dell’Università di Yale, James C. Scott – un libro recente il cui titolo
è Zomia. The Art of Not Being Governed. «Zomia» è il termine
impiegato da James C. Scott per designare tutti i territori che si trovano a un’altitudine
superiore ai 300 metri, che attraversano cinque paesi (il Vietnam, la Cambogia,
il Laos, la Tailandia e la Birmania) e cinque province della Cina e che vanno
dalle alte valli del Vietnam alle regioni del nord-est indiano. Ci sono circa
100 milioni di persone, che appartengono a delle minoranze etniche e
linguistiche di una varietà davvero «sconcertante». Bene: queste popolazioni
non sono, come vorrebbero considerarle i segmenti degli Stati-nazione che le
sfiorano marginalmente, una sorta di moltitudini non ancora diventate popoli.
Sono delle moltitudini, sì, ma che sono precisamente fuggite da questa
possibilità, che si sono sottratte alle differenti forme di oppressione che gli
sono state proposte. La costruzione dello Stato-nazione nelle valli sotto il
territorio di Zomia significava la schiavitù, la coscrizione (cioè il servizio
militare obbligatorio), le imposte, le epidemie, le guerre. Queste moltitudini
sono fuggite da tutto ciò. La crisi dello Stato-nazione ci offre come unica via
di salvezza la stessa fuga che alcune popolazioni, precisamente al momento
della nascita dello Stato, hanno scelto? Senza dubbio non è questa la buona
soluzione, o in tutti casi non sotto questa forma. Ma dei problemi che dobbiamo
affrontare non ne siamo i responsabili. Quando tali problemi si pongono è bene
procedere per tentativi per provare a inventare: non un ritorno all’indietro ma
una nuova sperimentazione.
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