sabato 25 ottobre 2014

A proposito del concetto di Stato-nazione*

di Antonio Negri

Lo Stato-nazione moderno nasce dal romanticismo, come una lotta contro il giacobinismo rivoluzionario e l’espansionismo napoleonico, contro l’illuminismo rivoluzionario (e le sue derive); più precisamente: traduce l’affermazione dell’identità nazionale in un principio «reazionario» nei confronti dell’universalismo, un principio cioè di differenza, e spesso di esclusione, per tutti coloro che, sotto l’aspetto del suolo o sotto l’aspetto del sangue, non ne fanno parte

(…) Lo Stato-nazione è stato un concetto «centripeto»: la nazione offriva in effetti al governo, ad una funzione centralizzata del comando, un carattere assoluto che garantiva il passaggio dalla decisione all’esecuzione degli atti del governo. Kantorowicz è molto chiaro: ci sono due corpi del governo. Il primo è la funzione reale, la sovranità, la nazione, che presiede alla definizione del carattere assoluto del potere sovrano, è la monarchia. Il secondo corpo vive e muore, è la contingenza e la discontinuità del governo, della rappresentanza politica, i blocchi e le interruzioni storiche della vita degli Stati – ma questo carattere «mortale» è attraversato dall’effetto sovrano che ne garantisce l’immunità e ne impedisce la decadenza. Questi due corpi, queste due funzioni del potere, oggi, nel mondo contemporaneo, sono appassiti e tendono a dissolversi almeno in parte.
Tuttavia, il concetto di Stato-nazione non si dissolve semplicemente a causa della transizione da un’economia mondiale a un’economia globalizzata, quest’ultima caratterizzata da un’interconnessione finanziaria su scala planetaria. Il declino dello Stato-nazione è stato accompagnato da un’altra transizione, che ha determinato il passaggio dal governo alla governance – una transizione che segnala l’ibridazione tra il pubblico statale e il privato del mercato ma che soprattutto rivela, tra i vari aspetti del carattere giuridico del mercato, la dimensione reale del commercio globale. Questa trasformazione sfida l’unità dei sistemi di legittimazione dello Stato-nazione, del diritto internazionale privato e pubblico, smussa la capacità del governo e iscrive ad un livello globale le figure e le funzioni degli organi di regolazione capitalistica.
Ci si potrà allora chiedere, ben al di là di tutte le ideologie e di tutte le storiografie benedette dalla nazione stessa, se la genesi e la composizione degli Stati-nazione, la loro realtà storica, non debbano a loro volta essere restituite non tanto ad un’origine che si sarebbe trasformata in telos e si sarebbe così realizzata, quanto ad una sorta di «pot-pourri» costituente indefinito – ad un nodo di incontri/scontri tra popolazioni, gruppi e forme di governo differenti; alle dinamiche contraddittorie che coinvolgono frazioni capitalistiche, maneggi aristocratici, insurrezioni democratiche; allo sviluppo discontinuo di strategie neo-mercantiliste, di manipolazioni fiscali e doganali, ecc. Ancora, per alcuni Stati-nazione più periferici, alle conseguenze e le derive dei movimenti coloniali e delle strategie imperialiste – e soprattutto ai movimenti della popolazione che ne sono determinati. Per finire, oggi, ai modi della comunicazione e del trasporto, alla porosità e alla plasticità delle frontiere, ecc. Tutte le determinazioni, non solamente naturaliste ma culturali dello Stato-nazione, sembrano di fatto dissolversi di fronte a questi sconvolgimenti e a queste trasformazioni.
Non avete l’impressione, mentre descriviamo così rapidamente la storia del concetto di Stato-nazione, che si tratta in realtà di qualcosa d’artificiale e di precario, di qualcosa che oramai appartiene a una dimensione arcaica? Che – considerato sul piano della sua genesi – è qualcosa che attiene all’azzardo, alla precarietà e all’incertezza? E al di là di questa genesi, quando si parla del declino dello Stato-nazione moderno, quando si parla dei deliri fascisti e dei milioni di vittime delle guerre, della violenza e dell’odio, che il concetto è semplicemente divenuto l’emblema di una storia terribile, quasi il segno di una rimozione radicale? E che il concetto di patria possiede a sua volta degli aspetti perversi? Non credo che ciascuno di noi possa dare una risposta pacifica a tali domande. Se però riuscissimo a rifiutare cum ira et studio di riconoscerci in questa identità, riusciremmo anche a riconoscerci in un mondo differente. Tra un attimo proveremo a discutere delle avventure di questa nuova esistenza post-moderna. Ma se, per un istante ancora, guardiamo indietro, potremmo dire oggi allo Stato-nazione quello che fu detto della fine dell’Impero romano: sul modello del «latifundia detruere imperium» – il latifundium distrusse l’Impero – oggi, «gli Stati-nazione hanno distrutto la sovranità moderna».
Proviamo ora a ragionare su quell’elemento di «nazionalità» (intendo con questa parola il riflesso pallido e nostalgico del sentimento nazionale situato nell’ideologia) che riappare oggi negli eventi che ci circondano, e soprattutto nei conflitti tra i protagonisti dell’ordine globalizzato. Sono, mi sembra, dei ritorni d’egoismo che cercano una dignità nella memoria, meglio ancora, nella nostalgia della storia nazionale. Essi trovano uno spazio propizio nella crisi che la globalizzazione sta attraversando. Alla fine del XX secolo, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del dualismo delle storie d’Occidente e d’Oriente, la globalizzazione è stata accompagnata da un grande sforzo per ricostruire nuovi sistemi giuridici e politici a livello planetario. Il fallimento delle élite mondiali nel costruire un nuovo ordine è stato tuttavia clamoroso. Ne misuriamo oggi le conseguenze – e tali conseguenze si manifestano nella crisi del mercato, nella caduta della produzione globale, nelle incertezze monetarie, nella difficoltà a controllare i movimenti della finanza… Chi avrebbe potuto prevedere che le conseguenze del nuovo ordine – che alla caduta del Muro tutti salutarono con tanta gioia – sarebbero state di questa natura?

Ne è seguita una pericolosa assenza di chiarezza nei rapporti internazionali e una serie di disaccordi, di conflitti e di incomprensioni tra i suoi attori: tutto ciò rende difficile orientarsi. All’unità dell’ordine globalizzato (scambi commerciali e finanziari) hanno fatto seguito rotture e tentativi di riconfigurazione dello stesso paesaggio globalizzato – non più attraverso gli stessi Stati-nazione ma attraverso il rapporto tra strutture continentali. All’America del Nord, alla Cina, all’Europa in divenire, all’America Latina, all’India – che conservano una certa solidità geopolitica –, corrispondono nella crisi delle basi regolate dal soft power americano dei veri cataclismi politici. Oramai i movimenti di una parte del pianeta determinano – positivamente o negativamente, a seconda dei casi – quelli di tutti gli altri elementi del sistema globalizzato. Nella crisi del sistema globale emerge, inoltre, con grande violenza, la crisi di accumulazione capitalistica e dello sviluppo delle istituzioni democratiche. Alla dimensione macro corrisponde la dimensione micro, e viceversa. La geopolitica e le crisi industriali e finanziarie, le diseguaglianze crescenti dei sistemi sociali, ecc., si rinviano a vicenda le cause e gli effetti. Potremmo proseguire a lungo in questa descrizione della crisi attuale nella sua dimensione globale, nello stesso tempo interna e esterna agli Stati. Ma le caratteristiche che ho descritto sono sufficienti, mi sembra, per comprendere la ragione per la quale, in numerosi paesi, l’esigenza di un ritorno alle politiche nazionali e i tentativi di rendere nuovamente lo Stato nazione il punto d’imputazione e di responsabilità dello sviluppo, tornano con forza alla ribalta.
La nostalgia dello Stato nazione è inutile, anzi pericolosa: la dimensione globale nella quale il capitalismo si è organizzato costituisce un quadro fisso per il movimento di tutte le istituzioni, qualunque esse siano – statali o politiche, industriali o finanziarie. Esse agiscono sul terreno globale e hanno delle enormi difficoltà a ritornare all’interno di un quadro nazionale. Un ritorno all’indietro rispetto alla globalizzazione è impossibile, anche se il caos sembra determinarne la forma. Inoltre: ogni volta che le identità nazionali riappaiono, lo fanno confondendosi con le ideologie e le pratiche religiose e fanatiche. Il patriottismo, che era una religione laica, si è trasformato in idolatria razziale o in fanatismo religioso. Se nella sua storia il nazionalismo ha avuto dei momenti creativi e ha dato luogo alla fusione di popoli e persone differenti, se il concetto di nazione in alcuni casi ha mobilitato passioni generose e un nobile senso di libertà, oggi, il concetto di nazione si presenta sotto un’altra forma: pieno di rancore, perché il ritorno al passato è difficile se non impossibile e perché tale impotenza si ritorce contro degli avversari fittizi e immaginari – dei nemici ai quali è attribuita la causa delle difficoltà attuali. Il populismo è la forma nella quale tali sentimenti duri e puri di odio si presentano. Esso non minaccia soltanto l’ordine nazionale ma, evidentemente, anche la forma democratica del governo. Si vuole trasformare la democrazia e trasformarla, ricostruirla, a partire da una regola nazionale considerata come giusta? Ma come si possono dimenticare le diseguaglianze, le divisioni di classe, le vicissitudini di una regola nazionale sempre esposta alla guerra? Oggi l’idea di nazione, poiché rinuncia all’utopia di un ordine internazionale all’insegna della globalizzazione e a quella di un ordine democratico all’insegna dell’internazionalismo democratico, ci espone semplicemente al ridicolo.
Passiamo ora a un ultimo problema. La crisi del capitalismo maturo e globalizzato esiste, non possiamo certo metterla in dubbio. Si svolge di fronte ai nostri occhi da qualche anno. E non possiamo certo dubitare delle sue conseguenze, che saranno ancora durevoli. Possiamo con ciò concludere che se la globalizzazione ha rappresentato il trionfo del capitalismo, ne costituisce anche la malattia? Una malattia letale? Non credo che si possa rispondere in maniera così definitiva e assertiva. Quello che sembra evidente è che la crisi si è instaurata precisamente là dove il potere capitalista si era affermato con maggiore determinazione, cioè su un tale livello di astrazione del potere, di distanza nei confronti dei movimenti dei cittadini che sembravano aver reso il capitale globale definitivamente autonomo dalla sua potenza – e fuori dalla portata di eventuali resistenze che si sarebbero eventualmente opposte ad esso. Ma l’autonomia e la consistenza che lo caratterizzano diventano ogni giorno più povere – povere di valore, incapaci di progresso, cieche di fronte al deteriorarsi delle condizioni dello sviluppo, insensibili alle spinte vitali e alle innovazioni cooperative. È interessante (e simbolicamente appassionante) sottolineare che la crisi finanziaria – che è legata agli effetti dell’organizzazione dell’ordine del capitale finanziario – si sviluppa essenzialmente sul terreno monetario. Sì, precisamente quella moneta che era stata così tanto legata all’immaginario nazionale. Ma è senza dubbio ancora più interessante constatare che la crisi della moneta in questione corrisponde a un meccanismo globale. Per questa ragione, non ci si può in alcun caso proteggere dalla crisi nascondendosi dietro la propria moneta nazionale – si rischierebbe puramente e semplicemente la catastrofe.
Dunque, la mia conclusione è che non possiamo fuggire dalla globalizzazione. E che, senza dubbio, la sola via di salvezza che ci permetterà anche di essere liberi sarà quella di un esodo democratico dallo Stato-nazione. Che cosa significa? Significa che se noi teniamo a quello che, nella nazione, consideriamo come positivo e creativo, se teniamo alla sua lingua e letteratura – se essa ne possiede una –, o alla sua memoria e immaginazione – se ne vale la pena – o, ancora, ai suoi paesaggi, all’odore della terra e ai suoi rilievi – che sono a volte le cose più care che abbiamo – se noi teniamo a tutto questo e a molte altre cose ancora, dovremo rinunciare a fare della nazione uno Stato. In che modo ciò sarà possibile? Non lo so.
Tuttavia, negli ultimi giorni, ho avuto tra le mani il libro di un antropologo dell’Università di Yale, James C. Scott – un libro recente il cui titolo è Zomia. The Art of Not Being Governed. «Zomia» è il termine impiegato da James C. Scott per designare tutti i territori che si trovano a un’altitudine superiore ai 300 metri, che attraversano cinque paesi (il Vietnam, la Cambogia, il Laos, la Tailandia e la Birmania) e cinque province della Cina e che vanno dalle alte valli del Vietnam alle regioni del nord-est indiano. Ci sono circa 100 milioni di persone, che appartengono a delle minoranze etniche e linguistiche di una varietà davvero «sconcertante». Bene: queste popolazioni non sono, come vorrebbero considerarle i segmenti degli Stati-nazione che le sfiorano marginalmente, una sorta di moltitudini non ancora diventate popoli. Sono delle moltitudini, sì, ma che sono precisamente fuggite da questa possibilità, che si sono sottratte alle differenti forme di oppressione che gli sono state proposte. La costruzione dello Stato-nazione nelle valli sotto il territorio di Zomia significava la schiavitù, la coscrizione (cioè il servizio militare obbligatorio), le imposte, le epidemie, le guerre. Queste moltitudini sono fuggite da tutto ciò. La crisi dello Stato-nazione ci offre come unica via di salvezza la stessa fuga che alcune popolazioni, precisamente al momento della nascita dello Stato, hanno scelto? Senza dubbio non è questa la buona soluzione, o in tutti casi non sotto questa forma. Ma dei problemi che dobbiamo affrontare non ne siamo i responsabili. Quando tali problemi si pongono è bene procedere per tentativi per provare a inventare: non un ritorno all’indietro ma una nuova sperimentazione.

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