di Nicolas
Martino
Il “rifiuto del lavoro” è forse la categoria
politica più importante dell’operaismo italiano. Rinvia alle pratiche di lotta
individuali e collettive dell’operaio massa nelle grandi fabbriche fordiste
che, con le loro catene di montaggio e le loro grandi concentrazioni operaie,
rappresentavano lo sfruttamento del capitalismo industriale. Il rifiuto
del lavoro di Marcel Duchamp è invece una pratica individuale di sottrazione
alla logica del lavoro (compreso quello artistico) subordinato alla valorizzazione
del capitale che anticipa i possibili comportamenti di rifiuto nel capitalismo
contemporaneo (dalla prefazione all’edizione italiana del
libro di Maurizio Lazzarato, Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro,
Edizioni Temporale, 2014, pp. 64)
«Una
strana follia si è impossessata delle classi operaie delle nazioni in cui
domina sovrana la civiltà capitalista. Questa follia trascina con sé le miserie
individuali e sociali che da due secoli torturano la triste umanità. Questa
follia è l’amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro, spinta
fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie.
Nella società capitalista il lavoro è la causa di ogni degenerazione
intellettuale, di ogni deformazione organica». Così Paul Lafargue nel 1880
iniziava il suo celebre pamphlet che confutava il diritto al lavoro
rivendicando il Diritto alla pigrizia.
Nel
Novecento il rifiuto del lavoro è stato teorizzato e praticato soprattutto
dall’eresia operaista che negli anni Sessanta individuava nella strategia del
rifiuto operaio all’interno della grande fabbrica fordista un’arma mortale
contro il capitale, e nella questione del tempo – nella lotta per la sua
liberazione – il principio intorno al quale si giocava la partita fondamentale dentro
e contro il capitale. La lotta per il salario sganciato dalla produttività era
– in questo senso – immediatamente politica. La lotta contro il lavoro
riassumeva insomma il senso dell’eresia operaista. Eresia, certo, perché invece
la tradizione del movimento operaio si era da sempre attestata su una
orgogliosa rivendicazione del lavoro e della capacità produttiva della classe
lavoratrice. Su una orgogliosa rivendicazione della propria identità. Ricordate
la storia di quell’operaio, Ludovico Massa, magistralmente interpretato da Gian
Maria Volonté? Ecco…
Eppure
quello operaista non è stato l’unico rifiuto, questo ci dice Maurizio
Lazzarato in un suo breve saggio pubblicato dalle edizioni Semiotexte
in occasione della Biennale del Whitney Museum di New York e ora tradotto in
italiano dalle edizioni
temporale. C’è stato nel Novecento, nella sua prima metà, un altro rifiuto,
altrettanto potente, anche se declinato individualmente e fuori da ogni
esperienza collettiva. Un rifiuto nato in ambito artistico e tanto più
importante oggi: quello praticato da Marcel Duchamp.
Duchamp
infatti ha lottato tutta la vita per sottrarsi al lavoro, ha rifiutato –
esattamente all’opposto di Pablo Picasso – di ridurre la sua vita alla
produzione di opere da immettere nel mercato. Ha rifiutato di essere un
lavoratore dell’arte, un produttore d’immagini. E, ancora più radicalmente, ha
rifiutato di identificarsi con la figura dell’artista, ha rifiutato anzi
qualsiasi identificazione. A chi gli chiedeva quale fosse la sua professione,
Duchamp rispondeva: «Perché volete a tutti i costi classificare la gente?
Che cosa sono? Un uomo, semplicemente un respiratore». Ha rifiutato, dicevamo,
qualsiasi identificazione cercando sempre di fuggire a ogni assoggettamento: è
per questo che inventa, oltre l’opera, ilreadymade come tecnica che
desoggettiva e produce una nuova soggettività, perché abolisce il giudicare, il
vedere e il sentire prestabiliti liberando dei possibili e facendo emergere una
nuova significazione. Il readymade è un incontro, e quindi la
traccia di un evento che come tale annuncia un tempo strutturalmente altro
rispetto a quello della modernità occidentale che ha strutturato il farsi e il
divenire anche dell’arte. È per questo – per fuggire
all’identificazione di sé come artista maschio genio-creatore – che decide a un
certo punto di diventare Rrose Sélavy.
Certo,
è un gioco difficile quello messo in campo da Duchamp, né dentro né fuori, ma
sempre liminare. Se non è un artista Duchamp non vuole essere neanche un
anti-artista, è piuttosto un anartista. E non è un caso,
probabilmente, che proprio per questo Duchamp sia inciampato nel recupero da
parte del mercato con la produzione in serie dei suoi readymade firmati,
e nella proliferazione di tanti piccoli sciampisti che – nella seconda metà del
Novecento – della provocazione duchampiana hanno fatto, mistificandola,
spettacolo.
Eppure Duchamp ha resistito, la sua vita è stata un esempio
magistrale di resistenza alla sussunzione del capitale che avanza. Tanto più
importante oggi, dicevamo prima, quando proprio l’artista è diventato il
paradigma del lavoro cognitivo, del lavoro diffuso. Il postfordismo funziona
chiedendo al lavoratore creatività, innovazione e quindi libertà. Siate
artisti! È l’ingiunzione che il capitale lancia ai lavoratori
intellettuali che iniziano a popolare le metropoli occidentali alla fine degli
anni Settanta. Ma la libertà dell’artista, probabilmente, è sempre stata solo
quella cantata da Franco Califano [il riferimento è alla canzone di Franco
Califano, La mia libertà (1981) che rivendica il luogo comune dell’artista
libero da legami di ogni sorta e a cui basta appunto la sua sola libertà].
L’artista
interiorizza invece più che mai la passione triste della servitù volontaria,
quella di cui parlava Étienne de la Boétie e che il capitalismo
postmoderno riesce a mettere straordinariamente a valore. Ecco dunque che la
lezione di Duchamp, come quella dell’eresia operaista, è tanto più importante
oggi: perché Duchamp aveva capito che l’arte come istituzione non rappresenta
più una promessa di emancipazione, ma una nuova tecnica di governo della
soggettività, alla quale occorre sottrarsi con il rifiuto e organizzando la «costituzione
e il potenziamento di una capacità di agire sul reale che sembra terribilmente
mancare alla nostra epoca». Oltre ogni patrimonializzazione della creatività da
parte dell’artista, cioè che rimane dell’arte dopo il moderno è il processo
creativo come atto estetico ed etico che «sposta e riconfigura il campo di
esperienza del possibile e costituisce un dispositivo di fabbricazione di un
nuovo sensibile».
Può
anche darsi che non si possano ridurre tutte le esperienze dell’arte
contemporanea alla sussunzione e al mercato, può anche darsi che questo giudizio,
che Lazzarato sembra condividire, risulti eccessivamente ingeneroso rispetto
alle pratiche di resistenza che l’arte stessa, nelle sue esperienze più
interessanti, è in grado di organizzare. E certamente la sussunzione non è mai
totale, il capitale non è un Moloch ma una relazione di comando, e quindi
sempre una lotta tra i dispositivi di assoggettamento e la cooperazione viva
dei soggetti produttivi. Ma proprio per questo quello che più ci sembra
interessante, ciò che davvero risulta decisivo, è la resistenza attraverso la
quale Duchamp ci ha insegnato a mettere in pratica una metamorfosi continua e a
sfuggire agli apparati di cattura. Possiamo pensare allora che oggi la
resistenza sia – ancora e anche – nell’opera? Certamente sì, se l’opera è il
comune che stiamo imparando a costruire insieme.