domenica 19 ottobre 2014

Marcel Duchamp e l’arte del rifiuto

di Nicolas Martino

Il “rifiuto del lavoro” è forse la categoria politica più importante dell’operaismo italiano. Rinvia alle pratiche di lotta individuali e collettive dell’operaio massa nelle grandi fabbriche fordiste che, con le loro catene di montaggio e le loro grandi concentrazioni operaie, rappresentavano lo sfruttamento del capitalismo industriale. Il rifiuto del lavoro di Marcel Duchamp è invece una pratica individuale di sottrazione alla logica del lavoro (compreso quello artistico) subordinato alla valorizzazione del capitale che anticipa i possibili comportamenti di rifiuto nel capitalismo contemporaneo (dalla prefazione all’edizione italiana del libro di Maurizio Lazzarato, Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro, Edizioni Temporale, 2014, pp. 64)

«Una strana follia si è impossessata delle classi operaie delle nazioni in cui domina sovrana la civiltà capitalista. Questa follia trascina con sé le miserie individuali e sociali che da due secoli torturano la triste umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie. Nella società capitalista il lavoro è la causa di ogni degenerazione intellettuale, di ogni deformazione organica». Così Paul Lafargue nel 1880 iniziava il suo celebre pamphlet che confutava il diritto al lavoro rivendicando il Diritto alla pigrizia.
Nel Novecento il rifiuto del lavoro è stato teorizzato e praticato soprattutto dall’eresia operaista che negli anni Sessanta individuava nella strategia del rifiuto operaio all’interno della grande fabbrica fordista un’arma mortale contro il capitale, e nella questione del tempo – nella lotta per la sua liberazione – il principio intorno al quale si giocava la partita fondamentale dentro e contro il capitale. La lotta per il salario sganciato dalla produttività era – in questo senso – immediatamente politica. La lotta contro il lavoro riassumeva insomma il senso dell’eresia operaista. Eresia, certo, perché invece la tradizione del movimento operaio si era da sempre attestata su una orgogliosa rivendicazione del lavoro e della capacità produttiva della classe lavoratrice. Su una orgogliosa rivendicazione della propria identità. Ricordate la storia di quell’operaio, Ludovico Massa, magistralmente interpretato da Gian Maria Volonté? Ecco…
Eppure quello operaista non è stato l’unico rifiuto, questo ci dice Maurizio Lazzarato in un suo breve saggio pubblicato dalle edizioni Semiotexte in occasione della Biennale del Whitney Museum di New York e ora tradotto in italiano dalle edizioni temporale. C’è stato nel Novecento, nella sua prima metà, un altro rifiuto, altrettanto potente, anche se declinato individualmente e fuori da ogni esperienza collettiva. Un rifiuto nato in ambito artistico e tanto più importante oggi: quello praticato da Marcel Duchamp.
Duchamp infatti ha lottato tutta la vita per sottrarsi al lavoro, ha rifiutato – esattamente all’opposto di Pablo Picasso – di ridurre la sua vita alla produzione di opere da immettere nel mercato. Ha rifiutato di essere un lavoratore dell’arte, un produttore d’immagini. E, ancora più radicalmente, ha rifiutato di identificarsi con la figura dell’artista, ha rifiutato anzi qualsiasi identificazione. A chi gli chiedeva quale fosse la sua professione, Duchamp rispondeva: «Perché volete a tutti i costi classificare la gente? Che cosa sono? Un uomo, semplicemente un respiratore». Ha rifiutato, dicevamo, qualsiasi identificazione cercando sempre di fuggire a ogni assoggettamento: è per questo che inventa, oltre l’opera, ilreadymade come tecnica che desoggettiva e produce una nuova soggettività, perché abolisce il giudicare, il vedere e il sentire prestabiliti liberando dei possibili e facendo emergere una nuova significazione. Il readymade è un incontro, e quindi la traccia di un evento che come tale annuncia un tempo strutturalmente altro rispetto a quello della modernità occidentale che ha strutturato il farsi e il divenire anche dell’arte. È per questo – per fuggire all’identificazione di sé come artista maschio genio-creatore – che decide a un certo punto di diventare Rrose Sélavy.
Certo, è un gioco difficile quello messo in campo da Duchamp, né dentro né fuori, ma sempre liminare. Se non è un artista Duchamp non vuole essere neanche un anti-artista, è piuttosto un anartista. E non è un caso, probabilmente, che proprio per questo Duchamp sia inciampato nel recupero da parte del mercato con la produzione in serie dei suoi readymade firmati, e nella proliferazione di tanti piccoli sciampisti che – nella seconda metà del Novecento – della provocazione duchampiana hanno fatto, mistificandola, spettacolo.
Eppure Duchamp ha resistito, la sua vita è stata un esempio magistrale di resistenza alla sussunzione del capitale che avanza. Tanto più importante oggi, dicevamo prima, quando proprio l’artista è diventato il paradigma del lavoro cognitivo, del lavoro diffuso. Il postfordismo funziona chiedendo al lavoratore creatività, innovazione e quindi libertà. Siate artisti! È l’ingiunzione che il capitale lancia ai lavoratori intellettuali che iniziano a popolare le metropoli occidentali alla fine degli anni Settanta. Ma la libertà dell’artista, probabilmente, è sempre stata solo quella cantata da Franco Califano [il riferimento è alla canzone di Franco Califano, La mia libertà (1981) che rivendica il luogo comune dell’artista libero da legami di ogni sorta e a cui basta appunto la sua sola libertà].
L’artista interiorizza invece più che mai la passione triste della servitù volontaria, quella di cui parlava Étienne de la Boétie e che il capitalismo postmoderno riesce a mettere straordinariamente a valore. Ecco dunque che la lezione di Duchamp, come quella dell’eresia operaista, è tanto più importante oggi: perché Duchamp aveva capito che l’arte come istituzione non rappresenta più una promessa di emancipazione, ma una nuova tecnica di governo della soggettività, alla quale occorre sottrarsi con il rifiuto e organizzando la «costituzione e il potenziamento di una capacità di agire sul reale che sembra terribilmente mancare alla nostra epoca». Oltre ogni patrimonializzazione della creatività da parte dell’artista, cioè che rimane dell’arte dopo il moderno è il processo creativo come atto estetico ed etico che «sposta e riconfigura il campo di esperienza del possibile e costituisce un dispositivo di fabbricazione di un nuovo sensibile».
Può anche darsi che non si possano ridurre tutte le esperienze dell’arte contemporanea alla sussunzione e al mercato, può anche darsi che questo giudizio, che Lazzarato sembra condividire, risulti eccessivamente ingeneroso rispetto alle pratiche di resistenza che l’arte stessa, nelle sue esperienze più interessanti, è in grado di organizzare. E certamente la sussunzione non è mai totale, il capitale non è un Moloch ma una relazione di comando, e quindi sempre una lotta tra i dispositivi di assoggettamento e la cooperazione viva dei soggetti produttivi. Ma proprio per questo quello che più ci sembra interessante, ciò che davvero risulta decisivo, è la resistenza attraverso la quale Duchamp ci ha insegnato a mettere in pratica una metamorfosi continua e a sfuggire agli apparati di cattura. Possiamo pensare allora che oggi la resistenza sia – ancora e anche – nell’opera? Certamente sì, se l’opera è il comune che stiamo imparando a costruire insieme.