di Cristina Morini
il
pensiero postfemminista, i movimenti LQBT, il femminismo materialista, il
pensiero femminista operaista, il femminismo nero e postcoloniale hanno
riconosciuto per tempo la condizione precaria, conoscono bene che la
discriminazione di genere non è un fattore solamente culturale ma ha radici
materiali che affondano profondamente nell’organizzazione capitalistica del
lavoro
Immerse
nella dimensione economico-esistenziale imposta dal neoliberalismo, le nostre
vite sembrano schiacciate contro il malinconico orizzonte di cartone privo di
prospettiva disegnato dalla crisi economica e dalla crisi della dimensione
collettiva della politica. Anche i movimenti sociali sono in affanno, faticano
ad aver presa sul reale. Come salvarsi, quando il corpo-mente assume il ruolo
del capitale-fisso, diventando il terminale materiale e sensibile delle
imposizioni della precarietà in termini di auto-sfruttamento e auto-normazione?
Parole e gesti si vanno trasformando in una forma di scambio, agito da una
soggettività che si concepisce come un’impresa e che perciò, come un’impresa,
deve saperla amministrare.
Imprenditoria
di sé, la definisce
il libro collettaneo Femminismo
e neoliberalismo. Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà,
curato da Tristana Dini e Stefania Tarantino. Sullo sfondo di questi saggi,
corpi di donna si muovono svelti sui tacchi per le strade della metropoli tra happy
hour frequentati per trovare un contatto, utile ai fini di un
possibile lavoro. Corpi obbligati a un’attenta manutenzione, la cui dimensione
sessuale non viene esclusa ma viene, viceversa, immersa nel lavoro. Il divenire
postumano del corpo-macchina è probabilmente anche questo spazio arido, che ci
fa scorgere i deserti del desiderio che il soggetto non governa veramente pur
mantenendo l’illusione della decisione, come in un gioco perverso di specchi.
Contrastare
la prigione trasparente del modello antropogenetico di produzione non è
semplice, ci dicono le undici autrici dei saggi contenuti nel libro, tutte
provenienti dal pensiero della differenza italiano. Marianna Esposito parla
esplicitamente della “necessità di cogliere una complessa sfida teorica che va
affrontata per riaffermare il carattere politico, agonistico della libertà
femminile all’epoca della governamentalità liberale”. Se questi sono i tempi
complessi in cui ci è dato di vivere e, vivendo, di lottare, è necessario
smontare gli ingranaggi del sistema, così da potergli resistere, così da
potergli opporre una soggettività consapevole.
Il
femminismo può contare su antidoti potenti, poiché da sempre ha messo in luce
pratiche di disidentificazione per “andare oltre la soggettività assoggettata e
mettere al mondo soggettività libere”, scrive Stefania Tarantino nella sua
introduzione. Possiamo perciò trarne una lezione di resistenza biopolitica
all’altezza dei tempi, poiché il pensiero delle donne si fonda proprio sul
rifiuto dell’interiorizzazione dei modelli imposti e contrasta in ogni modo la
cancellazione dell’autonomo sentire del soggetto.
Ma,
data la propensione corrosiva del neoliberismo, non vi è alcuna ispirazione che
possa sentirsi oggi al riparo da criticità, aporie e contraddizioni. Un passato
di lotte e di analisi dirompenti del “primo femminismo” non ha evitato, per
esempio, che la teorica femminista americana Nancy Fraser esprimesse una
critica serrata (un’autocritica) al femminismo contemporaneo, emancipazionista,
accusato di aver spianato la strada proprio al neoliberalismo (si veda, oltre all’articolo
di Fraser uscito sul Guardian nell’ottobre dello scorso anno,
il suo libro Fortunes of Feminism: From State-Managed Capitalism to
Neoliberal Crisis, Paperback, 2013, in corso di traduzione per Ombre Corte
a cura di Anna Curcio).
Fraser
interroga il femminismo statunitense ed europeo della seconda ondata. Mentre la
generazione precedente aveva cercato di intervenire sul piano dell’economia
politica, a partire dagli anni Ottanta il femminismo si focalizzata sulla
trasformazione della cultura e sulla politica del riconoscimento. Non spinge
più per radicalizzare i presupposti socialdemocratici della società, ma gravita
attorno a nuove grammatiche di rivendicazione politica. Tutto ciò, come è già
stato fatto notare, preme, in prima istanza sulla necessità di contestualizzare
e definire il campo situando il femminismo e i femminismi, relativizzando la
parola del primo mondo e della razza bianca poiché altrove si è arrivati
all’ora X meno sguarnite. Ma l’attacco di Fraser costituisce uno spunto per
riflettere sullo stato dell’arte da parte del pensiero della differenza e viene
infatti utilizzato da diverse autrici (Dominijanni, Bazzicalupo, Esposito,
Stimilli).
Laura
Bazzicalupo nota che “il neoliberismo è una forma di razionalità politica, una
forma di governo che si pratica con l’autogoverno” e che dunque, per reagire al
neoliberismo, non è sul piano delle rivendicazioni economiche che è necessario
muoversi bensì su quello “del tempo e del soggetto, di una nuova ontologia”.
Dominijanni aggiunge la attribuzione del valore della differenza sessuale,
“antidoto all’Uno e alla logica identitaria ma anche al suo rovesciamento
speculare nella logica del molteplice”; antidoto al godimento imposto,”fallico,
narcisista, ripetitivo, seriale”, ingiunto al soggetto dal sistema per poter
esistere. Godere di consumo, di dissipazione, di successo e godere soprattutto
di un sesso che si pretende “svuotato di percezione si sé, intimità,
affettività, statuto del desiderio”. Perciò, più che “sul piano dell’economia e
del lavoro, il nodo del rapporto tra neoliberismo e femminismo viene al pettine
qui, sul piano della sessualità”. Quel territorio, la sessualità, decisivo per
il femminismo degli anni Settata diventa oggi il terreno principale del
riaddomesticamento del femminile neoliberale. Esposito indica la necessità di
agire “un’analisi lucida dei rapporti di potere messi in campo dal neoliberismo
e una riflessione attenta sulle sue dinamiche libidiche di consenso e di
produzione di soggettività”.
Si
ammette, insomma, in modo profondo e articolato, l’inquinamento inquietante dei
processi di soggettivazione a opera del capitale (che fa, bene o male, la parte
dell’innominato: gli si preferiscono termini come “sistema neoliberista”,
“patriarcato”, “sistema post-fordista”), ma non si assume una critica che abbia
a che vedere, più immediatamente, più direttamente, con la struttura dei
rapporti economici e sociali. Si ammette Foucault, ma non si ammette Marx,
potremmo sintetizzare. E per quanto Marx sia andato stretto a tutto il pensiero
femminista, tuttavia la produzione contemporanea di soggettività, nelle larghe
pieghe dell’esistenza “cosificata” e messa in competizione che in queste pagine
viene lucidamente descritta, genera valore sui rarefatti mercati finanziari, processi
di sussunzione “illuminati” o vitali, individualizzazione, furti di tempo.
Insomma, si traduce in un indicibile sfruttamento del corpo-mente.
Si
spinge, certo, ricordando la filosofa Angela Putino che, “di fronte alla
pratica della relazione ridotta a imprenditoria di sé, volta a vincere a tutti
i costi, oppone il rilancio delle teorie femministe e di un essere
fuori gara basato sul desiderio come eccedenza” come nota Tristana
Dini. La sollecitazione è particolarmente preziosa in tempi di politica del
riconoscimento, narcisismo e meritocrazia. Ogni retorica si è completamente
sbriciolata contro il nulla raggelato dell’economia della eterna promessa, e
allora è finito il momento di puntare alla valorizzazione dei “talenti” o a
forme “altre” della decisione e della organizzazione del potere. Ciò che si
pone come compatibile rischia infatti di venir neutralizzato, di venir
recintato, di volta in volta. La razionalità del sistema economico neoliberale
mette a rischio il contenuto rivoluzionario della libertà femminile.
Se
è senz’altro vero che il neoliberalismo non opera “come un potere esterno che
cala dall’alto i suoi imperativi bensì come un governo dell’auto-governo che fa
presa sul desiderio dei soggetti” (Dini), sarà altresì necessario analizzare
come tutto ciò venga “organizzato” dal capitale, a partire da quali norme
sociali predeterminate, strutture di classe, dispositivi polizieschi,
diseguaglianze sanguinanti. Il biocapitalismo ha incredibilmente affinato le
proprie capacità di cattura ma a ben vedere mantiene, e anzi amplia, anche se
lo fa su basi diverse dalla sola appartenenza di genere e con modalità
differenti, i propri eterni progetti di esclusione differenziale.
Questo
libro ci parla, indubbiamente. È completamente fuori discussione
che la ricerca vada condotta verso la creazione di saperi situati utili
a poter fare una corretta diagnosi della situazione. L’esperienza materiale,
quotidiana, senziente che stiamo facendo dell’“ordine simbolico dato dalla
razionalità neoliberale” (Dini) diviene un metodo del discorso fondamentale
perché ci aiuta a orientarci all’interno della novità delle relazioni di potere
imposte.
Tuttavia,
il pensiero postfemminista, i movimenti LQBT, il femminismo materialista , il
pensiero femminista operaista, il femminismo nero e postcoloniale hanno
riconosciuto per tempo la condizione precaria, conoscono bene che la
discriminazione di genere non è un fattore solamente culturale ma ha radici
materiali che affondano profondamente nell’organizzazione capitalistica del lavoro.
Nel momento in cui, poi, l’economia finanziaria ha ricondotto ogni singolo atto
a una misura per l’accumulazione, dilatando le forme della cattura tra lavoro
retribuito e non, insieme ai dispositivi strutturalmente incorporati nel potere
patriarcale, sembra ancor più stringente la necessità di essere più precise
nell’individuare le intersezioni esistenti tra rapporti tra generi e rapporti
sociali.
Si
dissolve l’illusione che la “differenza femminile” – quando non coniugata con
un agireconflittuale, intendendo con ciò la necessità di assumere una
curvatura politica pronta a denunciare ogni sistema di potere e di repressione
dell’“alterità” attraverso un’azione sovversiva – sia di per sé sufficiente a
rovesciare l’ordine maschile del discorso, grazie al perseguimento di un’umanità
relazionale e di cura in grado di incidere sulle condizioni materiali
di vita, modificando dall’interno le istituzioni. Ciò è avvenuto solo in parte
mentre le accelerazioni imposte dalle trasformazioni neoliberiste del lavoro
(oggi esemplificata in Italia dal Jobs Act) hanno creato più macerie che
opportunità nella vita delle donne. La questione della libertà delle donne va
allora nuovamente spostata sulle questioni generali, cioè sulle battaglie da
intraprendere collettivamente, recuperando con forza i concetti di
diseguaglianza e di ingiustizia sociale.
A
partire dalla ricchezza innegabile dell’analisi agita sul più ininterrotto dei
rapporti di potere, quello costruito sulla diversità biologica tra maschio e
femmina, la problematica generale foucaultiana, cioè l’idea che il potere
attuale presupponga sempre un certo grado di libertà, si rivela un elemento
centrale nella critica attuale al capitale, una componente essenziale del
confronto critico sull’organizzazione contemporanea della forza lavoro. La
capacità di lettura delle dinamiche capitaliste pur senza trascurare
l’importanza della libertà negativa che è di solito associata al liberalismo,
deve stare al centro dell’azione di ogni femminismo, nel presente. Solo così, e
dentro una connessione larga di tutti gli attori sociali antagonisti, si potrà
recuperare radicalità, rivendicando appieno un ruolo nella lotta contro il
biopotere, riconnettendo la propria storia con quella delle nuove generazioni
di donne alle prese con la condizione precaria. Citando Nancy Fraser, “Nessun
serio movimento sociale, e meno che mai quello femminista, può ignorare
l’assalto alla riproduzione sociale attualmente condotta dal capitale
finanziario”.