di
COMMONWARE
l’astensionismo
è l’elemento più stabile e sicuro, forse l’unica certezza che emerge dalla tornata
elettorale. Anche questa è un’altra dinamica interamente europea. Siamo ormai
oltre la crisi della rappresentanza, in un processo di tendenziale
autonomizzazione (ovvero autoreferenzialità) dei ceti e degli apparati
istituzionali rispetto alle composizioni sociali
L’Europa
è frantumata. Questo è il primo dato che emerge dalla tornata elettorale. La
domanda è immediata: è una buona notizia? Evidentemente no, per motivi ovvi e
banali, dall’ascesa di demagogie reazionarie o apertamente xenofobe, come il Fronte
Nazionale in Francia e Alba Dorata in Grecia passando per Jobbik in Ungheria,
fino ad arrivare alla chiusura dello spazio politico nei recinti nazionali.
È
allora del tutto una cattiva notizia? Non lo deve essere, perché non dobbiamo
mai dimenticare che l’Europa che viene rifiutata è innanzitutto quella
dell’austerity. Questo rifiuto assume forme estremamente differenziate e spesso
opposte, non c’è nessuno che lo rappresenti o che possa ambire a farlo (a
riprova che la vuota proliferazione del concetto di “populismo” serve
soprattutto a mostrare la mancanza di bussole interpretative nel disordine
della crisi). Questa situazione ci mostra, una volta di più, l’insufficienza
della dialettica tra europeismo e anti-europeismo, perché si colloca – con poca
forza e in modo piuttosto astratto – su un terreno già concretamente occupato
da forze avverse. Il problema resta quello di aprire un nuovo spazio, politico
e di discorso politico: qui scontiamo delle evidenti difficoltà, perché il
rischio è quello di essere continuamente riassorbiti in quella dialettica.
Forse, potremmo dire con una battuta, l’anti-europeismo è al momento la
dinamica maggioritaria in Europa. Ciò ci deve spingere a ricercare le basi
materiali di una pratica transnazionale contro l’austerity che abbia una
vocazione di massa e si contrapponga alle illusorie scorciatoie del ritorno
alla sovranità nazionale. Questa pratica non la troveremo attraverso un’azione
demiurgica, che pretenda di risolvere teoricamente i nodi politici, ma nella
consapevolezza che si tratta di impostare discorsi e scommesse di medio
periodo.
Un
secondo elemento che ci sembra affiorare è la crisi del bipolarismo, che tende
a esplodere in vari paesi in una polarizzazione elettorale (si pensi alla
Grecia, con i risultati di Syriza e Alba Dorata). Proprio la Grecia, insieme
alla Spagna con la sorprendente affermazione di Podemos, dimostrano – caso mai
se ne sentisse il bisogno – che sono le lotte a fare le parole d’ordine, anche
istituzionali, e mai il contrario. È fin troppo scontato sostenere che le due
coalizioni elettorali sono stati alimentate e portate a questi risultati non
dall’altra Europa, ma da queste Puerta del Sol e
Piazza Syntagma, cioè dalle due più importanti esperienze di movimento nella
crisi che ci sono state nel vecchio continente, quelle spagnola e greca
appunto. Tra l’altro, è interessante notare i destini completamente differenti
di Podemos e il Partido X, il tentativo di traduzione elettorale della
“tecnopolitica” del 15-M, che ha raccolto meno voti di quanti sono i “like”
della sua pagina facebook. Altrettanto indicativa è l’accusa di “populismo” più
volte mossa da alcuni sostenitori del Partido X a Podemos, che denota le
difficoltà di alcuni strati all’interno dei movimenti di uscire dai circuiti
dell’autoreferenzialità. Su ben altro versante da quello “tecnopolitico”, a
essere sconfitto o addirittura a scomparire è il “populismo tecnocratico”, da
Nuova Democrazia in Grecia a Scelta Civica in Italia. A conferma che,
soprattutto nella temporalità accelerata della crisi, tutto ciò che appare
stabile può svaporare rapidamente.
Il
voto in Italia, terzo elemento su cui ci interessa soffermare l’attenzione,
sembra fornire segnali di parziale controtendenza. Il bipolarismo qua parrebbe
collassare al centro, intorno a un Partito Democratico che supera il 40%. Il
nuovo PD anzitutto esautora gli alleati raccolti per strada (dove saranno mai
finiti i voti di Scelta Civica!), quindi raccoglie a destra, in particolare
dalle fratture di Forza Italia e dal progressivo (ma tutt’altro che definitivo)
tramonto di Berlusconi. E raccoglie un voto di neo-frontismo bipartisan
anti-Grillo, che dovrebbe far riflettere molti compagni su ciò che significato
in questo ultimo anno e mezzo la campagna paranoica contro il M5S. Renzi è stato
premiato (per questo è stato dapprima promosso segretario e poi in fretta e
furia capo del governo) proprio in quanto ritenuto il più credibile
nell’opposizione a Grillo. Del resto, dopo un anno contraddittorio di arena
parlamentare, il M5S perde molti voti (e forse paga anche le indecisioni sul
terreno dell’euro) ma scongiura il pericolo di sciogliersi come un
fenomeno temporaneo ed effimero: l’impressione è che, almeno in parte, la sua
liquidità inizi in parte a solidificarsi attorno a degli zoccoli di presenza e
partecipazione. In quale direzione andrà questo processo, tra le molte e
perfino opposte che può assumere, è tutto da vedere.
Ci
convince poco la lettura secondo cui il PD rappresenterebbe la nuova Democrazia
Cristiana. La DC rappresentava infatti blocchi sociali e corpi intermedi, con
un tessuto di redistribuzione clientelare saldamente e capillarmente
consolidato sul territorio. Attenzione, questa è forse l’ambizione di Renzi, la
costruzione di una DC postmoderna, interclassista e garante della pace sociale.
Un progetto che concretamente è la continuazione del berlusconismo con gli
stessi mezzi, cioè concentrato sulla figura del premier. Da questo punto di
vista, in modo non troppo paradossale, possiamo dire che la vittoria di Renzi è
la sconfitta del PD, cioè di quel patto progettuale originariamente immaginato
da Veltroni e retto come un vero e proprio patto di sindacato tra correnti.
Quell’ambizione si scontra però con il progressivo disfacimento della
possibilità di rappresentare in modo stabile dei blocchi sociali sempre più
velocemente sfarinati dalla crisi, in particolare quel ceto medio su cui la DC
faceva perno.
Ancora
una volta, dunque, proviamo a ragionare e trovare delle chiavi interpretative
in termini di composizione sociale e di classe. Ci pare qui profilarsi una
tensione o addirittura una spaccatura, per dirla in termini schematici, tra chi
cerca di preservare la propria stabilità e chi vede nella stabilità della
propria condizione di precarietà e impoverimento il principale nemico. Questa
spaccatura passa chiaramente per linee generazionali, terreno su cui Grillo è a
più riprese tornato in campagna elettorale. Con gli 80 euro Renzi compra (per
ora) la speranza di una parte del lavoro dipendente, proponendo loro
un’alleanza con imprese, settori privati e della rendita; chi nella crisi
deraglia o teme di deragliare vota in parte M5S o in larga misura si astiene.
Oppure vota, con numeri più ridotti ma certamente significativi, per la Lega,
equiparabile a Ukip e Le Pen nell’agitare il binomio anti-euro e anti-immigrati
(o meglio, per una selezione differenziale degli immigrati: quelli più stabili
contro i nuovi arrivati, riproponendo anche qui il conflitto tra garantiti e
non garantiti, che è poi la stessa ricetta che in Europa, in modo bipartisan,
gestisce la mobilità del lavoro).
Certamente
nel plebiscito a Renzi c’è una matrice sociale. Il voto esprime una mozione di
fiducia sulle possibilità di rilancio economico; una sorta di “derivato” che
scommette sui dividendi sociali della ripresa. Ceti impauriti (quelli
medio-bassi destinatari degli 80 euro, chi ha un lavoro relativamente stabile,
i pensionati, parte della piccola impresa che gli ha accordato sostegno anche
in territori tradizionalmente ostili al PD, ecc.), con redditi erosi ma non
devastati, che possono contare ancora su ammortizzatori “fai da te” fatti di
risparmi, piccoli patrimoni e proprietà, probabilmente oggi desiderano più
d’ogni cosa stabilità e promesse di futuro. E sono tutto sommato disposti a
sacrificare i residui di welfare con la tenuta a breve dei loro redditi.
L’offerta di Renzi ha convinto molti acquirenti, vecchi e nuovi, ma le
obbligazioni vanno onorate. Come quelli finanziari, il mercato della
rappresentanza è sempre più volatile, con titoli che in pochi mesi divengono
carta straccia. Senza rilancio economico e redistribuzione, l’immenso credito
ottenuto è destinato a crollare come un castello di carte. Temi in ogni caso
che ci obbligano (tutti) a una seria riflessione, evitando immagini
semplificate della struttura sociale e delle domande politiche che esprime.
Proprio
dal punto di vista della composizione sociale, ci sembra piuttosto marginale il
dato della lista Tsipras italiana. La sommatoria di sigle porta qualche
eurodeputato e un po’ di soldi alle casse dei piccoli partiti che la hanno
animata, ma nessuna apertura di spazi politici propulsivi. Dalla perdita del
M5S, la sinistra italiana non guadagna voti e consensi, a dimostrazione
di una incapacità strutturale a relazionarsi con questo pluriverso sociale.
Certo, quando i sondaggi ti danno al 3,5% e ne prendi 4… possiamo capire la
soddisfazione. A noi non sembra di vedere di che gioire. Il M5S potrebbe anche
sparire dalla mappa politica senza che questa sinistra raccolga un solo voto in
più. Ora che il “pericolo” è arginato, è troppo auspicare lo scioglimento del
fronte “antifascista” creato ad arte da Renzi e dai poteri che lo sostengono?
Proprio
l’astensionismo, last but not least, è l’elemento più stabile e
sicuro, forse l’unica certezza che emerge dalla tornata elettorale. Anche
questa è un’altra dinamica interamente europea. Siamo ormai oltre la crisi
della rappresentanza, in un processo di tendenziale autonomizzazione (ovvero
autoreferenzialità) dei ceti e degli apparati istituzionali rispetto alle composizioni
sociali. Questi ceti e apparati sono infatti parte di quella fetta di
ipergarantiti contro cui si sollevano sentimenti di indignazione e
risentimento, spesso difficilmente distinguibili tra di loro. Il Partito di
Repubblica esulta per Renzi, il Corriere della Sera sostiene che il premio dato
a chi scongiura l’instabilità è un’occasione da non sciupare. Questa euforia
potrebbe avere i piedi di argilla, e il progetto interclassista renziano –
proprio in virtù dell’impennata di aspettative e richieste che seguiranno alla
sua vittoria – essere costretto a mostrare ben presto la sua intima fragilità.
Varie figure e blocchi sociali passeranno all’incasso, e lì la serenità del
rottamatore (in debito con i pensionati) non sarà più sufficiente. I conflitti
nella crisi, spuri quasi per definizione, saranno sempre più segnati da questo
quadro di polarizzazione sociale e dalle linee anche generazionali che lo
innervano. O rifocalizziamo in modo corretto le nostre lenti per starci dentro,
oppure rischiamo continuamente di scambiare una possibilità che si apre con una
minaccia da cui difendersi.