di
Toni Negri e Sandro Mezzadra
pur
non escludendo l'ipotesi di un ripiegamento su una visione ancorata alla
tradizione novecentesca, con la pretesa politicista di “rappresentare” i movimenti, “l’affermazione
di Podemos in Spagna e la vittoria di Syriza in Grecia ci parlano precisamente
della possibilità di coniugare il consolidamento di forme di
auto-organizzazione, di lotta e di contropotere a livello sociale con un uso
innovativo dei dispositivi elettorali e istituzionali”
In
una delle sue prime dichiarazioni post-elettorali, François Hollande ha
dichiarato che l’Europa è diventata “illeggibile”. Certo non deve essere stato
difficile per lui “leggere” il risultato del suo partito: la sconfitta dei
socialisti francesi è stata clamorosa, non diversamente da quella dei
socialisti spagnoli. Ma mentre in Spagna la continuità e la maturità dei
movimenti contro l’austerity hanno aperto uno spazio politico per forze
politiche tradizionali di sinistra (Izquierda Unida in primo luogo) e per la
significativa novità di Podemos, in Francia – come si sa – le cose sono andate
diversamente. La vittoria del Fronte Nazionale è in fondo lo specchio di una
doppia incapacità – dell’incapacità dei socialisti di gestire in modo espansivo
una crisi che si fa di giorno in giorno più profonda, fino a minacciare di
trasformare proprio la Francia nell’epicentro della crisi europea, e
dell’incapacità dei movimenti sociali e della sinistra (del Front de Gauche in
particolare) di accettare fino in fondo il terreno europeo come terreno
decisivo di lotta. La Francia dimostra prima di tutto una cosa: e cioè che
oggi, in Europa, la dimensione nazionale e “sovranista” (che la sinistra tutta,
compresa una parte significativa dei socialisti, aveva difeso schierandosi
contro la Costituzione europea al referendum del 2005) è un terreno su cui solo
la destra – più o meno apertamente xenofoba e fascista – vince.
Ben
al di là delle intenzioni di Hollande, in ogni caso, una certa “illeggibilità”
caratterizza oggi effettivamente l’Europa. Nel fuoco della crisi, si erano già
consumate le modalità prevalenti con cui il processo di integrazione era stato
“letto” e spinto in avanti negli scorsi decenni: la formazione progressiva di
un corpo di diritto europeo capace di surrogare la mancata integrazione
politica (e, secondo alcuni, di porre infine le condizioni per il suo
compimento) era stata bruscamente interrotta dalle forme assunte dal management
della crisi. Il momento di comando articolato attorno all’autonomia della Banca
Centrale Europea si era andato svincolando non soltanto da ogni “legittimità”
democratica ma anche dalla macchina di produzione normativa e di governance
dell’Unione. Ora, in particolare con il voto francese (e con la doppia crisi,
economica e politica, della Francia), viene messo in discussione quell’asse
franco-tedesco su cui l’integrazione europea aveva materialmente poggiato per
costruire le proprie alchimie politiche e le proprie geografie. Immaginare che
l’Italia possa da questo punto di vista sostituire la Francia fa francamente
sorridere.
Più
in generale, le elezioni europee, pur nella frammentarietà dei risultati,
esprimono un chiaro rifiuto dell’“Europa tedesca” e della filosofia
ordo-liberale dell’austerity. Da tempo, del resto, segnaliamo che le stesse
élites europee percepiscono i limiti della gestione della crisi che si è fin
qui determinata, dal punto di vista dell’esigenza di definire nuovi scenari di
stabilizzazione capitalistica. Il fatto è, tuttavia, che questa esigenza
presuppone un consolidamento del quadro politico a livello continentale che non
si è in alcun modo prodotto. La “grande coalizione” che si preannuncia nel
parlamento europeo vede infatti profondamente indeboliti entrambi i partner
contraenti, in particolare per via dei risultati nei Paesi meridionali che sono
stati più duramente colpiti dalla crisi negli ultimi anni. La “tenuta”
democristiana e socialdemocratica in Germania non fa che rilanciare un modello
(quello tedesco, appunto) che viene diffusamente percepito come causa della
crisi piuttosto che come chiave di una sua possibile soluzione. E
l’affermazione del PD di Renzi, con gli effetti che comporta nella composizione
e nei rapporti di forza nel Partito socialista europeo, è destinata a sfumare
ulteriormente l’identità “socialista”, sottraendo terreno a quella dialettica
politica che sarebbe necessaria per una vera (e non retorica) “innovazione” –
anche semplicemente sul piano di una diversa articolazione (e di una
stabilizzazione) del comando capitalistico.
L’attrazione
del socialismo europeo nel campo di forze presidiato dai conservatori, la sua
rinuncia a farsi politicamente interprete sia delle rivendicazioni della classe
operaia tradizionale e dei ceti sociali “declassati” dalla crisi sia delle
nuove figure emergenti nella composizione del lavoro è un dato che emerge con
chiarezza dalla recente tornata elettorale. Attestatasi su posizioni di mera
gestione dell’esistente laddove è al governo, la socialdemocrazia appare
incapace di reinventarsi anche dall’opposizione. La crescita della destra e
delle forze “euroscettiche” (nonché dell’astensionismo) è direttamente
collegata a questa eclissi della socialdemocrazia, che oggi appare incapace di
candidarsi a ricostruire quel tessuto di mediazioni sociali e politiche la cui
necessità – lo ripetiamo – è ormai diffusamente avvertita da una parte
consistente delle élites capitalistiche europee. Non escludiamo che queste
ultime possano rivolgersi a destra per costruire le condizioni per un’uscita
dalla crisi: non sarebbe certo la prima volta nella loro storia, e la
continuità del processo di integrazione in Europa (sotto il profilo monetario,
normativo, tecnico, ovvero delle infrastrutture) non è di per sé incompatibile
con ripiegamenti identitari e perfino “nazionalistici”. Quel che è certo è che
ne risulterebbero ulteriormente compressi, all’insegna di una politica della
paura e di una valorizzazione dell’autoritarismo sociale, gli spazi di libertà
e di lotta per il comune in ogni parte d’Europa. La resistenza e la rivolta che
una simile “soluzione” certamente incontrerebbe la rendono per il momento poco
realistica, ma rimane sullo sfondo come possibilità.
Per
quanto opaco e in qualche misura “illeggibile”, è comunque all’interno
dell’orizzonte europeo che si definiranno nei prossimi anni i termini dello
scontro politico e sociale in questa parte del mondo. A modo loro, le stesse
forze della destra “anti-europea” ne sono ormai ampiamente consapevoli: è un
altro dato che ci consegnano le recenti elezioni. Il capitalismo, dentro la
crisi di questi anni, ha consolidato la sua natura “estrattiva”, in primo luogo
attraverso un ulteriore approfondimento dei processi di finanziarizzazione. Al
tempo stesso, in particolare in Europa, gli stessi osservatori mainstream che
celebrano il ritorno della “stabilità” sui mercati finanziari mettono in
evidenza l’allargamento del gap tra le dinamiche di questi mercati e la
violenza persistente delle conseguenze sociali della crisi. Disoccupazione
stabilmente a due cifre in molti Paesi europei, estensione e intensificazione della
precarietà, disciplinamento di intere popolazioni attraverso il debito,
repressione, attacco alle condizioni dei migranti, svolte conservatrici su temi
cruciali quali quelli dei diritti civili e delle libertà: è questa l’eredità
dell’austerity in Europa, mentre a livello mondiale l’instabilità e la
turbolenza determinate dalla crisi dell’egemonia statunitense continuano a
intensificarsi (e le guerre ai confini dell’Unione europea, in Ucraina e in
Siria, ne sono una drammatica manifestazione). La crisi profonda di ogni forma
di governamentalità (nonché di ogni tentativo di riqualificazione del governo
democratico) minaccia, non solo in Europa, di tradursi in condizioni di
violenza generalizzata quando non di guerra civile latente. È in ogni caso
dentro lo spazio continentale che questi problemi saranno affrontati, non certo
negli angusti spazi degli Stati nazionali europei!
I
limiti dell’austerity, abbiamo detto, sono ormai evidenti in Europa: la
riapertura di una dinamica salariale (con l’assunzione del tema
dell’innalzamento del salario minimo da parte della Grosse Koalition in
Germania e con lo stesso bonus fiscale del governo Renzi) ne è una
dimostrazione. Occorre cogliere qui un’occasione per le lotte e per i movimenti
europei: denunciare la mistificazione di questa riapertura non può che
significare forzarne i limiti, fare irrompere sulla scena le nuove figure della
cooperazione produttiva, moltiplicare le rivendicazioni soggettive ben oltre i
confini del “lavoro” e agire per farle convergere all’interno di un grande
movimento per la riappropriazione della ricchezza sociale. Il “sindacalismo
sociale” su cui abbiamo avviato la discussione all’interno di Euronomade non
può che avere questo significato di ricostruzione delle basi materiali di una
politica espansiva del comune. Una nuova figura della lotta di classe comincia
a prendere forma, proiettarla a livello europeo è ciò che intendiamo quando
parliamo di un movimento costituente capace di rompere gli argini nazionali
senza per questo perdere il proprio radicamento all’interno di specifiche
congiunture sociali e politiche.
Non
sappiamo se questo movimento costituente incontrerà a livello europeo le
condizioni politiche per consolidarsi – e dunque per produrre una nuova
qualificazione della democrazia e introdurre così elementi maturi di
contropotere in ogni scenario di stabilizzazione e “uscita” dalla crisi. Quel
che vediamo è che, nei Paesi in cui più forte e continuo è stato il movimento
di lotta contro l’austerity, questo movimento è riuscito a incidere anche sul
livello elettorale e istituzionale, introducendovi significativi elementi di
contraddizione. Pur in condizioni diverse, l’affermazione di Podemos in Spagna
e la vittoria di Syriza in Grecia ci parlano precisamente della possibilità di
coniugare il consolidamento di forme di auto-organizzazione, di lotta e di
contropotere a livello sociale con un uso innovativo dei dispositivi elettorali
e istituzionali. Sia chiaro, né Podemos né Syriza sono per noi dei “modelli”:
non escludiamo certo che, nell’uno come nell’altro caso, l’occasione che si
presenta non venga colta, e che si ripieghi su una più tradizionale – e certo
perdente – ipotesi di “rappresentanza dei movimenti”. Ma intanto crediamo che
sia opportuno sottolineare che questa occasione si presenta, e che sono stati i
movimenti e le lotte a costruirla. È prima di tutto dall’interno dei movimenti
e delle lotte che si tratta di lavorare nei prossimi mesi, nella prospettiva di
un loro potenziamento e di una loro moltiplicazione, nonché di una loro sempre
maggiore convergenza sul terreno europeo, per cui non mancheranno le occasioni
tra l’estate e l’autunno. Costruire un linguaggio e un immaginario comune dei
movimenti europei significa conquistare gli strumenti con cui determinare una
nuova “leggibilità” dell’Europa, con cui discernere nell’opacità della
transizione in atto l’occasione di una politica del comune.
nota: questo editoriale
è pronto da una settimana, ma aver atteso per pubblicarlo è risultato
importante da almeno due punti di vista- in primo luogo perché la “diatriba
Spinelli si, Spinelli no” ci ha mostrato quanto fragile sia ancora e quanto
pericoloso possa essere quel terreno di ricostruzione al quale positivamente
guardiamo se solo si lasciano sopravvivere piccole lobbies partitiche che, come
anche una parte dei movimenti, vegetano fuori da un dibattito progettuale
(l’Europa e la forza di promuovere lotta di classe a quel livello). Inoltre,
molto più importante, un secondo evento: lo smantellamento del gruppo
corruttivo Venezia Nuova e Mose. Non si tratta qui di una piccola tangentopoli
o di un grande business di soliti noti – qui c’è, messa allo scoperto, come in
faglia, la natura stessa dei poteri che ci dominano: i bravi professionisti, i
grandi ingegneri, gli integerrimi generali di finanza, la prudente magistratura
dei conti e dei porti, l’intera élite del paese….insomma la faccia borghese
della macchina dell’appropriazione capitalistica: “l’estremismo di centro” che
si realizza negli affaires, ungendo della sua arroganza burocratica e della sua
merda dialettale ogni giuntura sociale. Non possiamo lasciare in mano a Grillo
(e/o ai suoi “compari americani” dell’Ukip) la gestione del “fare pulizia” – che
non può darsi se non riaprendo la battaglia costituente… Sul livello europeo,
certo! Ma anche su quello italico. Bisogna cominciare ad avviare il dibattito
sulla costituzione del comune, collegando ad esso lotte sindacali e politiche.