di ∫connessioni Precarie
Ci vediamo l’undici
luglio. A fare cosa? Si suppone che l’appuntamento non
serva a pareggiare i conti per altre manifestazioni che non sono andate proprio
benissimo. Ci vediamo l’undici luglio per «dimostrare» che l’opposizione
sociale al regime del salario non accetta l’ulteriore intensificazione dei
processi di precarizzazione, di espropriazione e di austerity. Descrivere correttamente la situazione non
significa che si sappia davvero che cosa fare contro la situazione. Oltretutto
la pessima situazione attuale non è nemmeno così difficile da descrivere. La
domanda è, allora, con chi ci vediamo l’undici luglio? Non basta, infatti,
registrare che le condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone in
Italia sono sulla soglia e, in molti casi, sotto la soglia della tollerabilità
quando non della sopravvivenza. Poiché questa condizione non è ormai una
novità, la domanda che s’impone è la seguente: perché migliaia di persone
dovrebbero considerare quella scadenza come un momento politicamente
significativo in grado di modificare in qualche misura la loro condizione?
Perché precarie, operaie e migranti dovrebbero fidarsi di un movimento del
quale tutto si può dire tranne che goda ottima salute? Perché i movimenti
italiani ed europei dovrebbero puntare sul movimento? Se l’undici
luglio non vogliamo vedere l’istantanea dei militanti e degli attivisti del
movimento, forse un ragionamento è meglio farlo ora.
L’austerità
non è finita, ma almeno a parole ora tutti sono contrari all’austerity.
Manca poco che anche la Signora Merkel e persino l’indimenticato Herr Schäuble
dichiarino che non è mai piaciuta nemmeno a loro. Ora tutti possono
essere contro l’austerity, perché ormai ha prodotto i suoi effetti.
Come una guerra mondiale, l’austerity ha distrutto risorse umane e
materiali, riaffermando violentemente le posizioni che le leggi naturali del
capitalismo prevedono per tutti e per ciascuno. L’austerity ha
prodotto le devastazioni di una guerra. L’ha capito Renzi che ha inaugurato un
linguaggio da epoca della ricostruzione, pieno di speranza, di grandi aspettative
e di buoni sentimenti. Il comprensibile e profondo desiderio di veder
finire la guerra dell’austerità gli ha garantito un’apertura di credito di
massa. Questo è il significato profondo delle elezioni in Italia. Si può
celebrare speranzosi l’astensionismo, ma il significato politico delle elezioni
in Italia rimane questo lo stesso. Ciò non significa che quanto dice Renzi sia
vero, ma è stato creduto. D’altra parte non è nemmeno vero che chiunque
raggiunga il 40% dei voti possa rifondare la DC. C’è di diverso che nessun
partito può pensare di rappresentare nel suo complesso questa società mobile e globale, senza istituzioni interne
credibili, cioè senza parroci, sindacati e partiti anche comunisti in grado di
stabilire la continuità sociale, né tanto meno di coincidere con lo Stato.
Meglio lasciare la pigrizia politologica ai giornali e alle trasmissioni televisive
e, sapendo che la legittimazione politica non si misura solo in termini
di consenso elettorale, chiedersi che cosa significhi per i movimenti il
connubio tra un’ideologia della ricostruzione e un regime del salario ancora
più feroce e oppressivo.
Che
cosa succede se la prima produce comportamenti e aspettative in grado di fare
accettare il secondo, presentandolo come il prezzo necessario per un maggior
benessere? Che cosa succede se il tempo del benessere viene ancora una volta
dilatato a favore del profitto? Che cosa succede se la certezza promessa e
creduta è il lavoro a ogni costo? Se il contesto sta cambiando – e il
contesto sta cambiando! – la nostra azione non può rimanere uguale o peggio
indifferente. Noi non abbiamo una coscienza di classe da trasmettere ai
proletari che hanno votato Renzi. Forse non ne abbiamo abbastanza o forse il
problema non è la coscienza. Non abbiamo nemmeno una rabbia talmente
indifferente nella quale trovare la certezza della nostra azione. Il benevolo
fantasma delle due società visita periodicamente il movimento, per rassicurarlo
che comunque c’è una parte giusta ed è quella da cui stiamo noi. Un faticoso
dibattito e molte analisi avevano finalmente evidenziato che la precarietà non
è solo un fatto generazionale, che non riguarda solamente una parte, ma è ormai
diventata una condizione generale e globale di tutto il lavoro. Ora si
torna invece alla contrapposizione tra garantiti e non garantiti, che riporta
radicalmente indietro nel tempo il discorso sulla precarietà,
ricollocandolo lungo l’asse di un nesso del tutto obsoleto tra lavoro e diritti
e della contrapposizione tra lavoro e non lavoro.
Europa prende i voti
Pensare
il «sistema» come rigidamente strutturato in parti contrapposte semplifica in
effetti le cose. È vero che c’è anche chi teneramente si ostina a
vedere nel grillismo un movimento antisistemico, differente ma simmetrico
alla propria rabbia. Sul piano locale il M5s ha perso perché ha sostenuto di
voler continuare la guerra, dichiarando per di più che la sua era «la guerra
santa» contro tutto il male esistente. Sul piano europeo la scommessa
del M5s mostra invece la sua uniformità con la parte peggiore del sistema
politico. Il cosiddetto euroscetticismo della destra europea non è altro
che la pretesa di chiudere la guerra dell’austerità, riaffermando l’Europa come
ordine degli Stati. Ogni Stato al suo posto e a ciascuno il suo Stato: onesto,
ordinato, produttivo e feroce con chi viola i confini nazionali, locali,
sociali, etnici o sessuali.
L’Europa
deve invece essere costantemente assunta come presupposto di ogni ragionamento
e di ogni iniziativa di classe.
Ciò non significa che basti citarla all’inizio dei discorsi; significa che
iniziative plausibili possono solo partire e tornare al contesto europeo.
Lasciamo stare che c’è chi è assolutamente contro la rappresentanza dei
movimenti in Italia, ma si entusiasma quando avviene in Spagna nella forma di
un sostanziale radicalismo democratico. La lista Tsipras ha almeno individuato
chiaramente l’Europa come terreno di scontro e indicato, molto meno
chiaramente, il problema irrisolto del rapporto tra movimento e istituzioni.
Più che dare una risposta, quella lista ci lascia ancora una volta di fronte
alla necessità di processi e strutture che consolidino nel tempo un potere
capace di trasformare le singole rivendicazioni in risultati duraturi, che
traducano su un piano più vasto e incisivo l’espressione politica del lavoro
fuori dalla fabbrica e dal territorio. D’altra parte, il successo di Syriza in
Grecia – inspiegabile senza le mobilitazioni degli ultimi due anni in
particolare ad Atene e Salonicco – ha avuto luogo in un contesto di attesa e di
sostanziale calo dell’iniziativa dei movimenti e mostra perciò la non linearità
di questi processi, e lo stesso si può dire della lista Podemos. Il terreno e
il problema coincidono sul piano europeo e non possono essere separati.
Tuttavia, visto che noi come molti altri non abbiamo intenzione di farci
rappresentare da un paio di persone, per quanto valenti (del terzo
rappresentante è meglio non dire), ci chiediamo come mai la lista Tsipras
abbia avuto un risultato in definitiva insoddisfacente e anche nelle aree
metropolitane, che dovrebbero essere il riconosciuto cuore pulsante del
conflitto sociale, il successo renziano sia stato tanto consistente. Se si
parlava con precarie e operai ci si sentiva dire chiaramente che mai e poi mai
avrebbero votato i burocrati di sinistra che, per limitarsi agli anni della
crisi, per loro hanno al massimo fatto i conti della cassa integrazione, degli
stage o dei corsi di formazione. Se e quando Renzi andrà all’attacco di
questa massa amorfa di funzionari di partitini di sinistra e di burocrati
sindacali, l’impressione è che operai, precarie e migranti ghigneranno
soddisfatti e non faranno niente per impedirlo, nonostante le strida
di lesa democrazia che si leveranno ovunque. È la lotta di classe, bellezza.
Una razza, una faccia: questi sono gli stessi che in Italia hanno popolato la
lista Tsipras e che ora si stanno disputando le briciole di potere che potrebbe
garantire.
Molte
cose sono cambiate e probabilmente molte cambieranno: la vittoria di
Renzi non è il frutto di un’illusione delle menti semplici comperate per 80 €
al mese. La nuova fase della politica europea con la prevedibile fine
dell’austerity come progetto ideologico complessivo segna un
passaggio con il quale è necessario fare i conti. Non sarà solo Renzi a
praticare un progetto egemonico che pretende di chiudere ogni spazio di scontro
politico grazie a una visione del futuro fondata sulla promessa di
porre fine all’incertezza. Lo Stato dell’Unione Europea, infatti, ha tutte le
intenzioni di stabilire in continuazione le condizioni di base
dell’accumulazione, compatibili con una produzione mobile, sempre pronta a
riqualificarsi, considerando gli effetti sociali di questa impostazione come un
prezzo necessario da pagare. Se la produzione è mobile, tocca ai lavoratori
inseguirla. Questo New Deal non annuncia trent’anni di benessere, ma
sostituisce la promessa del pieno impiego con la certezza della piena occupabilità. Si tratta di un progetto europeo da
realizzare con atti concreti e rapidi, a partire dallo smantellamento dei
sindacati e da un attivismo dello Stato, e ancor più probabilmente dell’Unione
Europea, come mediatore di parte nella gestione dei conflitti che rischia di
ostacolare sempre più decisamente anche l’iniziativa dei sindacati
«conflittuali». L’Unione Europea funziona oggi come uno strumento mobile,
difficile da controllare e pieno di contraddizioni, ma in grado di essere
mobilitato in modo differenziale per imporre blitz capaci di mutare stabilmente
gli equilibri all’interno degli Stati membri. Non si tratta tanto di un
super-Stato rapace, quanto di uno strumento all’altezza delle politiche
neoliberali nelle quali le istituzioni nel loro complesso giocano un
ruolo decisivo, ma non esclusivo, nell’intervenire all’interno di contesti in
rapido cambiamento. Per citare solo due esempi, la ristrutturazione greca e
l’attivismo europeo negli Stati dell’Est, che da anni sono l’epicentro di una
costante reindustrializzazione il cui carattere è immediatamente globale, sono
due facce di questa trasformazione: non si può vederne una e dimenticare
l’altra, anche se meno appariscente e più difficile da decifrare. Pensare
alle politiche europee semplicemente come attuazione delle volontà del mercato
è solo una mezza verità. È questo che rende oggi l’Unione Europea, e non
solo l’Europa, un terreno di scontro mobile e di frontiera, del quale sarebbe
esiziale pensare di potersi liberare abbattendolo come fosse un castello di
carte. Da questo punto di vista l’affermazione dell’euroscetticismo rischia di
funzionare più come spinta ad accelerare questa tendenza che come suo blocco.
Controegemonia
In
questo quadro le geografie nazionali sono un punto di partenza piuttosto debole
se l’obiettivo è di produrre un’organizzazione capace di essere espansiva,
pensata su un piano strategicamente globale e perciò ben al di là dei confini delle fabbriche,
dei quartieri, dei territori o dei grandi eventi, in cui un manipolo di
ministri finisce per essere riconosciuto come la controparte dei movimenti, con
buona pace della critica della rappresentanza. La geografia europea e le sue
trasformazioni sono invece l’unico orizzonte possibile per articolare una
politica controegemonica all’altezza del cambiamento che abbiamo di fronte. In
questo contesto è necessario rafforzare le reti europee di iniziativa nonostante
anche nell’esperienza più recente abbiano mostrato la propria insufficienza e
talvolta persino la propria inconsistenza. Ciò vale evidentemente anche per la
rete Blockupy della quale facciamo parte, che non può essere la palestra per la
costruzione di percorsi organizzativi parziali, in sé assolutamente legittimi
ma che rischiano di bloccare l’espansività dell’esperimento. Si
tratterebbe invece di coinvolgere anche chi finora non ha ritenuto
politicamente opportuno praticare quel piano europeo. Blockupy riuscirà a
farsi vedere davvero l’undici luglio nella misura in cui il piano di lotta che
propone penetra come opportunità e come problema dentro a quella scadenza e non
tanto se Blockupy partecipa come una rete tra le altre.
A
noi pare che sia il momento di attraversare i luoghi della militanza politica o
delle organizzazioni di movimento per andare oltre i loro limiti attuali. Di
fronte a un progetto egemonico che si sta delineando su scala europea si tratta
di cominciare a pensare e a praticare percorsi di controegemonia con la
prospettiva di strutturarli nel tempo. Ciò deve avvenire prima di tutto sul
piano del discorso, abbandonando formule e riferimenti apparentemente sicuri.
Se la nuova logistica europea si configura sotto il segno della mobilità, se
l’Europa continuamente usa e disfa i confini degli Stati nazione per
organizzare corridoi regionali e zone speciali di sfruttamento, allora
è quanto mai urgente essere all’altezza di questo nuovo livello di complessità
politica e istituzionale. Dentro a questo scenario qualsiasi coalizione
per quanto aperta e qualsiasi pretesa polarizzazione del conflitto, o
ricomposizione conflittuale che non mette in primo piano la produzione di un
discorso controegemonico, resta un modo reattivo di contrapporsi che rischia di
riconoscere esistenza al movimento solo quando lo scontro frontale con le istituzioni
lo rende possibile.
Praticare
la controegemonia non è possibile senza pensare dentro a un processo.
Controegemonia significa prima di tutto produrre un discorso politico potente
ed espansivo, capace di affermare in modo radicale che, se non sarà il piano
istituzionale europeo e tanto meno quello nazionale a risolvere il problema, si
tratta comunque di piani che intervengono in maniera determinante nella
produzione delle soggettività. Quello che abbiamo chiamato il regime
del salario (#1, #2) sta imponendo la ridefinizione complessiva delle
modalità con cui si verrà messi al lavoro nei prossimi anni. Visto su un
piano realmente europeo, il regime del salario mostra in alcuni contesti i
caratteri di una precarizzazione forzata, assumendo il senso di una perdita
rispetto a un catalogo di diritti che si credevano acquisiti. Altrove,
esso assume la forma di una nuova rosa di possibilità per entrare nel
mondo del lavoro lontani da un’idea di disciplina quotidiana, stabile e
misurata, di cui nessuno ha nostalgia, come mostra ad esempio l’elevato
turnover che si riscontra nei siti produttivi dell’Europa orientale. Non va
dimenticato, inoltre, che centinaia di migliaia di giovani lavoratori e
lavoratrici stanno entrando ora nel cosiddetto mondo del lavoro europeo, senza
aver mai conosciuto ciò che si presume essere sotto attacco. Di fronte
a tutto questo la sola rivendicazione di un reddito è una cosa poco
incisiva, che non modifica la quantità e la qualità del tempo di chi è comunque
sottomesso quotidianamente al quel regime.
Se
questa è la direzione che sta prendendo il nuovo welfare su scala europea,
ogni rivendicazione che muova dalla povertà e dai bisogni rischia di essere
poco più che la certificazione della nostra debolezza, ma anche di ancorare la politica
dei movimenti alla magra pretesa della riproduzione di una vita immiserita. Il
nuovo welfare sta già diventando una specifica modalità di governo del lavoro e
della sua mobilità, elargito attraverso una gestione oculata e orientata al
profitto della libertà di movimento dentro e attraverso lo spazio di Schengen. Se, come avviene ogni giorno nei
paesi virtuosi dell’Europa settentrionale, il prezzo del welfare è l’espulsione di migranti comunitari e non, ovvero una
nuova nazionalizzazione della cittadinanza europea, una politica dei
movimenti non può limitarsi a chiedere briciole ai governi nazionali al prezzo
di nuove gerarchie, ma deve essere in grado di accettare la sfida che la
mobilità del lavoro impone.
Ciò
significa che mai come ora è urgente porsi all’altezza delle lotte dei migranti
dentro e fuori l’Europa. Non solo perché il governo del lavoro migrante è stato
ed è tuttora il modello del governo del lavoro sul piano europeo, e neppure
soltanto perché i migranti hanno avuto la capacità di lottare contro i regimi
di sfruttamento e oppressione che quel modello impone. Essere all’altezza delle
lotte dei migranti significa pensare all’organizzazione a partire dalla
mobilità degli individui al lavoro. Significa riconoscere che il
radicamento territoriale, locale o nazionale di ogni organizzazione è
necessariamente insufficiente se precarie, operai e migranti continuamente si
muovono da un posto di lavoro a un altro, da un territorio a un altro, mentre
le catene globali dello sfruttamento si dispiegano sistematicamente attraverso
i confini. Per questo è necessario aspirare a una dimensione paneuropea delle
lotte: non semplicemente la somma di occasioni locali di conflitto connesse
in una singola data o settimana di mobilitazione, ma un’iniziativa politica
radicalmente innovativa capace di colpire simultaneamente luoghi strategici di
quelle catene globali.
Un
discorso egemonico è tale solo quando è riconosciuto anche da chi non partecipa
direttamente alla sua pratica.
Un discorso controegemonico non può affidarsi solo alla riaffermazione della
realtà, cioè alla dichiarazione reiterata che l’austerità c’è ancora e continua
a produrre i suoi devastanti effetti. Soprattutto se questi effetti descrivono
solo un pezzo di ciò che sta cambiando. Cosa diciamo l’undici luglio oltre
l’austerità, cioè alla fine di una guerra che abbiamo sostanzialmente subito e
che ha distrutto l’esistenza di milioni di proletarie e proletari? Un
discorso che semplicemente dice che la speranza è falsa ha poche probabilità di
essere ascoltato. Il contrario di speranza rischia di essere
disperazione. Come facciamo vedere l’undici luglio che andiamo oltre questa
realtà europea fatta di molta speranza e di molta disperazione? Varrebbe
la pena far vedere l’undici luglio che siamo in grado di produrre pratiche
egemoniche che si basano sulla forza del nostro discorso, almeno fino a quando
non potremo fidarci davvero del discorso della nostra forza.